POESIA COME LUOGO DI RESTITUZIONE. “Finale di stagione” di Silvia Albertazzi- Nota critica di Loredana Magazzeni

stefano calanchi

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Per noi del Gruppo 98, a Bologna, l’arrivo di Silvia Abertazzi come componente del gruppo, pochi anni fa, ha portato un rinnovamento, uno sguardo diverso, da cui guardare il nostro lavoro, uno sguardo che ci ha sempre incoraggiato a proseguire, così come ha fatto suggerendo la nascita dell’antologia In Dialogo, per ricordare il ventennale del gruppo, pubblicata dall’editore qudu.

Lo sguardo di chi, utilizzando molto bene gli strumenti letterari, che conosce riferiti a più culture, sa come giocare la carta della leggerezza profonda con la poesia, che rappresenta per lei e  per tutte noi una casa e un luogo a cui tornare sempre, anche esplorando altri spazi.

Giocando sul rimando beckettiano al Finale di partita, Silvia Albertazzi ci introduce con la sua terza raccolta poetica (dopo i precedenti La casa di via Azzurra, Kolibris, 2010 e Magenta è il colore dei ricordi, La Vita Felice, 2014) al mondo vivo e pulsante della quotidianità (la casa, gli amici, gli incontri) e degli ideali di giovinezza (l’impegno, la musica, i viaggi) di una donna serena, affettiva e impegnata, tema prediletto anche nelle raccolte precedenti.

Finale di stagione fin dal titolo ci suggerisce un discorso sul tema del tempo, ma lo fa con uno sguardo tutto suo, disincantato e ironico, volto a trovare nella vita di ogni giorno, negli alti e bassi della vita, nella mancanza di enfasi anzi, proprio al contrario, nella pienezza dei momenti minori e non ufficiali, il senso profondo dell’esistenza. Il libro è diviso in quattro parti intitolate Noi, Sulla strada, La musica del tempo, …e tutto il resto è letteratura. Dentro queste parti si procede dall’interno verso l’esterno.

Quelle che Silvia cattura sono istantanee, vedute di interni, di persone familiari o personaggi letterati incontrati e perduti, di pianure, quartieri, parchi della città, che affresca con mano leggera disegnandone i tratti multiculturali, come fa con la poesia Parco Lennon, ricordi in cui oggi ci riconosciamo ben coscienti di ciò che fummo ieri.

Un libro di poesie che ho trovato eccentrico e pop proprio per l’uso che fa, quasi canzonatorio, della grande poesia italiana (nelle poesie troviamo spesso inserti di canzoni o citazioni e riscritture ironiche da Leopardi o Carducci) ma anche per la grande demistificazione dell’idea di letteratura che suggerisce: ad esempio, gli scrittori incontrati nel corso dell’anno per il suo lavoro risultano esseri umani a volte patetici e pieni di tic che rivelano la loro piccolezza, che è quella di tutti (Three London types). Ecco, più che quello del  “tempo che passa” , il fantasma che si aggira e attraversa le pagine del libro, con poesie che hanno una loro immediatezza, e sono soprattutto occasione di indagine e riflessione interiore, è quello dell’ironia, della decostruzione di tutte le grandi caselle della  vita, in cui letteratura, musica, poesia, fotografia, cinema e fumetto sparigliano le carte letterarie, si scambiano di posto per dire che siamo la somma di tutto questo, ma anche la sottrazione, e in realtà quello che conta davvero è solo l’attimo di amore che abbiamo colto (Per Fiacco, Ricordando Leonard Cohen).

Così, tra le poliedriche visuali della sua lettura del mondo, la poesia rappresenta per Albertazzi l’aspetto affettivo e vitale della scrittura, che si nutre di case popolari, affetti, presenze, lavoro o sua mancanza, cura famigliare. Si potrebbe ricondurre questa sua poetica a una corrente, quella della “letteratura sociale”, cara alla rivista bolognese Letteraria. Rivista semestrale di letteratura sociale, voluta e diretta fino alla sua scomparsa da Stefano Tassinari, di cui Silvia è stata cofondatrice e tuttora redattrice, così come lo è delle pagine culturali di Alias, supplemento domenicale del Manifesto.

In altre parole, lotta, impegno, necessità di agire una cultura che si accosti agli ultimi, ne segua i passi e ne denunci i mancati diritti sono i temi necessari alla poesia di Albertazzi, in quel canto sottotono del quotidiano e del basso, che non leva la sua voce a inveire in proclami rivoluzionari, ma che sceglie di incarnare la rivoluzione a voce bassa, in un desiderio di cultura che è ancora oggi un fare assieme, fra cantanti retrò, viaggi, presenze musicali, eroi del sogno e antieroi, figli che non leggono i libri delle madri, mariti accudenti e amorevoli, serie televisive che ci lasciano sul più bello, in un “finale di stagione” in cui continuare ad affidarsi al sogno per restare umani.

Loredana Magazzeni

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stefano calanchi

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1. Three London Types (2016)
Geoff Dyer

Bologna. Fine millennio,
fine maggio, fine pranzo.
Sui colli, estate prematura
afa e sole a picco.
Passando sotto casa
nel disordine del primo pomeriggio
ti offro da bere –
un bicchiere d’acqua.

Londra, diciotto anni dopo,
metà luglio.
Non ricordi Bologna.
Hai cancellato i colli
e il solleone.
Parli di jazz e di fotografia
a un pubblico estasiato.
Quando ti porgo un libro da firmare
mi sorridi e,
prima che io vada,
mi baci all’improvviso sulla guancia.
Forse in ricordo di quel bicchiere d’acqua.

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2.Terence Stamp

Il giorno che vedemmo
Terenzio Francobollo
tu lo scorgesti
dall’autobus in corsa.
Aveva uno zainetto,
capelli bianchi e lunghi,
le spalle curve di una persona anziana.
Lo scatto preso al volo
mostra solo un’ombra
bianca ed evanescente.
Meglio così:
io lo ricorderò
– ancora e poi per sempre –
com’era in quella foto
del tempo ormai remoto
in cui incontrava Julie
ogni venerdì,
Waterloo Station.

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3. Julian Barnes

Ci sentiamo ancora a volte
via email.
Ricevo tutti i tuoi libri
dedicati
seguo i tuoi successi da lontano.
Ma non ti chiamo più
se vengo a Londra.
Sei diventato ormai troppo importante
mi sembra di abusare del tuo tempo.
Cade quest’anno il giubileo d’argento
di quella tua conferenza bolognese.
A fine agosto esce il tuo romanzo:
per il Corriere in esclusiva l’ intervista,
per tutti gli altri solo recensione.
Ci sarà anche la mia, pronta da mesi:
da quando lessi il libro in inglese
sperando un giorno di potertene parlare.

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Per Fiacco, ricordando Leonard Cohen

Tu avevi un disco – o forse era di Mario.
C’era una donna sulla copertina
vestita solo di un asciugamano
in una stanza disadorna
scriveva a macchina e rideva.
Hai detto: “Senti questo”
E io ho ascoltato
e pensato che la nostra era la vita che volevo
che se avevo studiato tanti anni
quella lingua che non mi piaceva neanche tanto
era solo per capire le parole
che ora cantava quella voce d’oro.
Stavamo lì, noi quattro,
anche noi in una stanza senza orpelli,
scendeva il buio e solo quella voce
ci accompagnava incontro a un’altra notte.
E io pensavo: “questo è quel momento
che un irlandese ha chiamato epifania”
E io pensavo: “ma sì, è proprio vero,
stanotte sarà bello, per un po’”.
E mentre Cohen fischiettava in dissolvenza
ritornavamo alla vita di ogni giorno
E tu dicevi: “Se avessi una ragazza
la sedurrei con questo disco e rose rosse”.
Non credo che poi tu l’abbia mai fatto.
Neanche a me il disco è stato regalato con un mazzo di fiori
e un fiocco rosa.
Arrivò in una busta di Nannucci
di quelle da due soldi, senza manici.
Ma subito divenne la colonna sonora
di via Azzurra,
di una lotta,
di un sogno,
di un amore,
di una vita.

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stefano calanchi

 

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Parco Lennon

Chissà chi è il genio che ha deciso di chiamare
Parker Lennon
un rettangolo di verde tra le case popolari
nella prima periferia della città.
Giardino Parker-Lennon:
pochi alberi, un po’ d’erba, le panchine
e al centro il chioschetto dei gelati.
Forse era troppo dedicare
tutta una strada, o solo una rotonda,
a Bird il tossico
o a John, l’orfano ribelle.
Ma che ci fanno insieme in San Donato
il sax del bebop
e l’eroe della classe proletaria?
Solo la fine sembra accomunarli:
la morte tragica, giovane e spietata.
Chi abita il quartiere non conosce Bird
e forse ha dimenticato pure John:
ma Lennon è un nome facile, come un ritornello,
e Parker … Parker vorrà forse dire parco?
Così al crepuscolo, d’estate, per sfuggire
al caldo di case anguste e non condizionate
chi non va in ferie si ritrova al “parco Lennon”
a cercare il fresco tra gli arbusti.
Canute vedove di una certa età
attraversano la strada sulle strisce
per raggiungere la panchina preferita.
Con un cenno del capo e un sorriso
ti ringraziano se le fai passare.
I loro figli sono tutti al mare –
I nipoti le hanno dimenticate.
Rientreranno più tardi in solitudine
a guardare spezzoni di decrepiti varietà televisivi
masticando petto di pollo e nostalgia.
I bambini che si rincorrono tra gli alberi
sono bruni, marroni, color oro:
ci sono i pakistani e i bangladeshi,
africani e cinesi, pochi gli italiani.
Le loro mamme, sedute più lontano,
vestono abiti in tessuti scintillanti,
un turbinio di malva e di turchese,
sari preziosi e lunghi caffetani,
teste velate e trecce sulla schiena.
Passano tricicli e biciclette;
nuovi genitori spingono passeggini:
i loro bimbi, accaldati e scalzi,
gli occhi sgranati e il ciucciotto in bocca,
scoprono il quotidiano al parco Lennon.
E poi in fondo, più giù, verso la chiesa,
c’è il gruppo garrulo della quarta età:
le vecchiette in carrozzella e le badanti
e i dongiovanni molto molto anziani
che corteggiano in lingua e in dialetto
ora le matrone slave bionde e austere
ora le fragili coetanee raggrinzite.
C’è mia madre, in quel gruppo,
che dispensa le sue piccole perle di saggezza
contenta di esser l’unica
tra le ultra-ottuagenarie
ad avere ancora un cervello che funziona.
Ride alle battute un po’ stantie
dei goffi ganimedi di quartiere,
scambia occhiate con le badanti ucraine
frasi scherzose con la sua polacca.
Domani mi dirà del bimbo indiano
che mangiava pane e mortadella;
mi parlerà del baracchino sulla strada
dove vendono a sera crescentine.
Perché qui il tramonto sa di fritto
e di salsicce arrostite sulla brace.
E io la guardo e immagino
con John il sognatore
che il mondo si ritrovi al parco Lennon
uno e pacifico e senza Paradiso.
Non c’è paese, e neanche religione,
niente per cui morire o sopravvivere.
Soltanto, sorda e breve, s’ode a tratti
di Bird la nota che ti spezza il cuore.

… quella nota sorda e breve che mi è parsa un cuore che si spezza.
(Julio Cortázar, “Il persecutore”)

 

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Note sull’autrice

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Silvia Albertazzi, bolognese, è ordinaria di letteratura inglese e dei paesi di lingua inglese presso il  Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne. Suoi interessi da sempre sono stati la letteratura postcoloniale (La letteratura postcoloniale. Dall’Impero alla World Literature, Carocci, 2013), che negli anni ha contaminato con lo studio comparato di varie arti, dalla spazialità, alla visualità, la fotografia di luoghi, di città, di persone, infine la musica (da cui sono scaturiti i saggi In questo mondo, ovvero quando i luoghi raccontano le storie, Meltemi, 2006; Il nulla, quasi. Foto di famiglia e istantanee amatoriali nella letteratura contemporanea, Le Lettere, 2010; Letteratura e fotografia, appena uscito per Carocci, 2017), il recente saggio su Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta, edizioni PaginaUno, 2018.

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Silvia Albertazzi, Finale di stagione- Qudulibri, 2018

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