NELL’ACQUA DELLA MADRE- “ANIDRAMNIOS”di Lavinia Frati – Lettura critica di Paolo Gera

lello d’anna- amniotica 

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“Poeti e Poesia” n.44, con la direzione di Elio Pecora, pubblica “Anidramnios”, poemetto di Lavinia Frati. Il titolo indica l’assenza totale del liquido amniotico, la mancanza di protezione nel ventre materno, l’essere spinto prima del tempo nel campo di battaglia della vita. Lavinia Frati, poeta romana, ha voluto scrivere sulla nascita di un bambino prematuro, ponendosi audacemente dalla parte del neonato e riferendoci nei versi, la sua sofferenza e il suo sradicamento, come se la coscienza di un essere tanto piccolo potesse trovare pensieri e parole in grado di esprimere la sua condizione. Non so come, forse influenzato dalle notizie televisive o dalla mia scesa in campo dalla parte dei rifugiati, ho immaginato che il bambino fosse di una madre salvata dall’acqua, prosciugata dalla sofferenza e partoriente sul margine tra due mondi, forse respinta e divisa per sempre dalla propria creatura. Tanta terribile acqua fuori e neppure più una goccia dentro. Ma forse Lavinia Frati ha voluto, tramite la nozione di clandestinità, indicare in fondo la condizione iniziale di ogni piccolo essere che sconfina, che passa oltre, che travalica:

L’infermiera chiede il nome
Prende tempo, madre, indugia
Un neonato clandestino
Approdato nel silenzio
Che frantuma ogni discorso.
( “Anidramnios”, p.34)

Io credo che “Anidramnios” sia un piccolo inno sacro. Lo è a partire dalla scelta metrica di base, anche se poi Lavinia Frati veleggia verso scelte ulteriori di versificazione, che è  l’ottonario di Alessandro Manzoni. “Risurrezione”, in particolare mi sembra risuonare affine, come tematica e come stile:

È risorto: or come a morte
La sua preda fu ritolta?
Come ha vinto l’atre porte,
Come è salvo un’altra volta
Quei che giacque in forza altrui?
(vv.1-4)

E Lavinia Frati scrive:

Torna madre, non ti vedo
Hai paura che l’eterno
Possa prendermi le mani?
Dammi in sogno occhi fermi
Per poter frenare il cuore
Che mi batte all’impazzata.
Vieni, madre, vieni vieni.
(p.35)

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lello d’anna- amniotica

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La scelta dell’ottonario e quella di una varia cantabilità dei versi, avvicina il testo a una specie di filastrocca, che riflette l’ipotesi mimetica del raccontarsi in prima persona del bambino prematuro. Questa prospettiva, insieme alla tematica del nido infranto, avvicina ovviamente il poemetto alla visione del mondo e alle cadenze di Giovanni Pascoli. Ma la filastrocca in ottonari ricorda pure “La canzone di Piccolino” di Guido Gozzano (“Piccolino, morta mamma/non ha più di che campare;” vv.1-2) e riproietta il tema della difficoltà della sopravvivenza del bambino lontano dalla presenza materna e dalle sue insostituibili cure. Una volta i bambini prematuri erano messi a scaldarsi nell’ovatta, ora li accoglie una pancia artificiale piena di fili e monitor. Così anche Lavinia Frati, spinge la sua ricerca al di fuori del metro classico, in una poesia che diventa nello stesso tempo discorsiva e ricca di cesure, di strappi, in modo da rendere nelle parole il distacco traumatico originario.

“Ce la farà a vivere?”

Chiedeva madre
Col sorriso un po’ sfrontato
L’infermiera rispondeva

“ha la forza di un minuscolo
torello che si strappa con destrezza
le cannule dal naso e per questo
nel reparto già lo chiamano
il figlio di Bin Laden”
sentivo madre lacrimare.
(p.35)

È interessante che la leggenda diventi eretica, che per sottolineare l’aggrapparsi alla vita di un essere minuscolo, venga evocato il demone del terrorista globale, come ad affermare che l’essere in apparenza senza difese è quello che più tenacemente si batte per andare avanti e ha dentro di sé risorse biologiche del tutto appropriate.  Il senso che alla fine io ho letto in “Anidramnios” è proprio questo senso dell’azzardo all’inizio della vita, che racchiude la riflessione sulla condizione umana in generale: il cammino da equilibrista su una fune ondeggiante, “il passaggio incerto tra i due regni”, la volontà titanica, impiegando tutte le forze che si hanno, di accettare l’unico gioco che ci viene concesso, anche se non capiamo le sue regole crudeli. Resta intatto, nelle scosse e nel traballamento continuo, il dialogo di fondazione, oltre e prima delle parole che si possono scambiare, tra una madre e la sua creatura: corrispondenza profonda, carnale, esclusiva, assolutamente preideologica.  È veramente forza silenziosa che “frantuma ogni discorso”, a iniziare dalle chiacchiere della politica. La politica per come si è evoluta sino ai nostri tristi giorni, rivela una segnatura maschile, un canone retorico, una finzione eccedente di parole, che la esclude da questa conversazione archetipica, da questo protendersi su un baratro da soli, ma con la certezza, oltre ogni speranza, di essere stati un tempo unica cosa con l’Altra. E che quel rifugio possa trasformarsi in slancio e progressione, è la contraddittoria battaglia di ogni essere umano.

 

Hai atteso tre giorni per vedermi
Impaurita dalla mia venuta
Aspettavi che io resuscitassi
O mi perdessi
In un punto imprecisato del tuo cuore

.

So leggerti l’arco delle palpebre
Il pensiero che incide più profonda
La ruga che sembra una barriera
Tra le ciglia e l’umido degli occhi.
Mi guardi e sembra ti domandi
Se così piccolo già fabbrico dei sogni

.

Madre ti vorrei cullare
Con le braccia prenderti
E portare nel silenzio della gola
Dove fa il nido la parola e dove niente
Ci divide, neanche la memoria.
(pp.39-40)

 

Paolo Gera

 

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 Lavinia Frati è nata a Roma nel 1964. Suoi testi sono apparsi su antologie, su varie riviste poetiche e sull‘Enciclopedia di Poesia Contemporanea di Mario Luzi, vol.7/2016. È curatrice del blog “Le stanze di carta”: lestanzedicarta.blogspot.com

 

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