apricena
.
Il mio paese natale è a una ventina di chilometri da Apricena, in provincia di Foggia, il luogo dove nel 1925 nacque Matteo Salvatore. Questo dovrebbe darmi una prospettiva privilegiata sulle sue canzoni, invece riesce a farmene sentire ancora più acutamente la distanza.
Io, nato cinquant’anni dopo di lui, sono cresciuto con i primi personal computer, parlando italiano, ho studiato e viaggiato; e sono forse uno dei pochi, in un paese di agricoltori, a non avere alcun rapporto con la terra: non un pezzo di vigna o di oliveto, né un parente contadino.
Matteo Salvatore era un figlio della cultura contadina: nacque in una poverissima famiglia di braccianti (padre facchino, madre finta invalida che sopravviveva di elemosine), nel poverissimo Sud del primo Novecento; imparò a suonare e cantare da un violinista itinerante, tale Vincenzo Pizzìcoli detto “u cechète” (il cieco); e da quel mondo trae linfa a tutta la sua produzione.
Trasferitosi a Roma in cerca di fortuna, per molto tempo si guadagnò da vivere cantando canzoni napoletane nelle osterie, finché Claudio Villa lo scoprì e gli fece incidere i primi dischi. Era il 1955. Per tutti gli anni Sessanta, Matteo Salvatore incontrò il successo, frequentò – lui, semianalfabeta – artisti e intellettuali, apparve in TV, incise dischi.
Poi, nel 1973, l’accusa di omicidio della sua compagna, la cantante Adriana Doriani,per la quale scontò carcere e processi. Conoscerà di nuovo la miseria, per venire riscoperto poco prima della morte, avvenuta a Foggia nel 2005.
Lucio Dalla, Vinicio Capossela, Eugenio Bennato, Giovanna Marini l’hanno celebrato come un grande artista. Nel 2002 pubblicò la sua autobiografia, intitolata “La luna aggira il mondo e voi dormite” (Stampa Alternativa) ed è di poche settimane fa l’uscita “Matteo Salvatore l’ultimo cantastorie” (Aliberti Editore) di Beppe Lopez, il primo libro tutto dedicato a lui.
Quando apparvero i suoi primi dischi, le canzoni di Matteo Salvatore venivano presentate come prodotti della tradizione orale. Non era vero: le scriveva lui, però era più à la page farle passare per folklore “autentico”. Ma forse quella bugia conteneva una verità profonda: perché nelle canzoni di Matteo Salvatore parlava davvero, per bocca sua, la tradizione popolare, sebbene rielaborata e reinventata.
I suoi brani più famosi sono quelli che denunciano la terribile arretratezza sociale ed economica del bracciantato meridionale, come la celebre, amara “Padrone mio ti voglio arricchire”, in cui un lavoratore supplica di venir schiavizzato e bastonato, pur di riuscire a portare a casa un tozzo di pane per i figli. Ma nella sua vena c’erano anche canzoni ironiche, comiche, irriverenti, persino allegramente oscene (chi vuole, si vada a cercare “Pettetonna”).
La sua protesta era più viscerale che non strettamente politica: era la ribellione di chi ha fame e viene sfruttato, nei confronti di chi mangia tutti i giorni e non deve faticare per vivere. Se pensiamo alle condizioni di schiavitù – non uso a caso questo termine – nelle quali ancor oggi lavorano i raccoglitori di pomodori nelle campagne pugliesi, potremmo accorgerci che in mezzo secolo non è cambiato molto, a parte il colore della pelle.
Lascio un esempio della sua vena più drammatica – un’esibizione al Cantagiro del 1969 – e uno di quella più divertita – una satira della vita di paese, in cui una madre mette in guardia la figlia contro il fidanzato, che potrebbe lasciarla dopo averle “rotto la furnacella” (c’è bisogno che traduca?).
BONUS TRACK: la registrazione di un suo spettacolo al Folkstudio di Roma, nel 1981.
.
Sergio Pasquandrea