cornelia konrads- arbor felix
Università, dal latino universĭtas -atis ‘, cioè totalità, universalità, derivazione di universus , universo. Pare che proprio l’uni(co)verso, a volte, a volte spesso, risulti il profilo o meglio la caricatura della sua autorità rispetto a quanto abbraccia la totalità dell’uomo e del mondo che abita.
Ho l’impressione che, anche in ambito accademico, prevalga l’assimilazione rispetto la rielaborazione, la ripetizione rispetto la creazione, lo storicismo rispetto all’innovazione. Il disinteresse della docenza nei confronti degli studenti è evidente: anche nel momento in cui la nostra opinione viene richiesta, evento più unico che raro già di per sé, la risposta cade nel dimenticatoio dei dialoghi omessi, per farsi atlante di un viaggio che ha sempre un solo ritorno. Docet chi ha un punto di comando sotto i piedi. Manca la collaborante collettivizzazione delle risorse.
Sono dell’idea che sia utile scrivere oggi e dell’oggi, che è sempre comunque ieri, per non perdere quel poco tanto che sarà domani, perché comunque sempre ci sarà ieri e forse domani.
In An Anatomy of the world John Donne scrive:- Così dalla sua prima ora il mondo decadde,/ la sera fu l’inizio del giorno, /e ora le primavere e le estati che vediamo sono come i figli di donne dopo i cinquant’anni…_ [201] Poco oltre scrive:- …E’ tutto in pezzi, scomparsa ogni coesione, ogni giusto sostegno e ogni relazione…- Donne è un poeta, un visionario, tanto quanto dissero, nello stesso tempo poiché sono contemporanei, di Galilei, uno scienziato, che fece crollare il cosmo e tutte le fittili costellazioni tolemaiche con le sue osservazioni dal telescopio. C’è da domandarsi se la contemporanea straordinaria ampiezza che l’universo in espansione rivela per noi rileva qualcosa che va in senso contrario, portandoci nuovamente in quell’oscura grotta dove vedemmo il mondo per la prima volta e, rapiti, iniziammo a percorrerlo per conoscerlo, per costruirne varchi, porti di imbarco e sbarco di idee, una continua fitta rete di comunicazione, simile a quella che il mondo vegetale, molto più avanti di quello animale al quale noi apparteniamo, ha elaborato in millenni di scienza a noi preclusa ancora.
(John Donne, Poesie, a cura di Alessandro Serpieri e Silvia Bigliazzi, Rizzol)
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cornelia konrads- chadva rakhal- india
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“Quando costruiamo non facciamo altro che staccare una
quantità conveniente di spazio, isolarla e proteggerla, e
tutta l’architettura deriva da questa necessità”
Geoffrey Scott, 1914
Necessità. Sembra che l’uomo, dopotutto, viva , o forse meglio sopravviva, grazie al suo innato senso di tutela di sé stesso. Costruire è il modo più immediato ed efficace che conosce per farlo: lavorando nelle tre dimensioni recinta spazi , recitando luoghi che pensa di aver generato. Di fatto copia, quanto in natura gli si mostra in abbondanza ma come relazione tra le specie. L’uomo crea dentro e fuori di sé dei e limiti, creando alla fine dei limiti delle barriere. Un gioco, di cui non si avvede, gioca nella felicità di chi ha i componenti per inventare il proprio gioco. Individualismo della creazione, in un incastro accampato nei limiti che gli sono propri. L’architettura è il frutto di quest’atto primordiale, simile a quello del bambino, nel tentativo tutto umano di rapportarsi (e spesso imporsi) a uno spazio naturale privo di segni in cui ri-conoscersi, con l’esigenza inoltre di trovare riparo, il proprio nido. Assumendo lo spazio, a minimo comune multiplo dell’architettura, e delimitandolo – anche solo simbolicamente- egli crea un dentro e un fuori, un finito e un infinito. La cultura greca è molto chiara in merito: la limitatezza è la chiave della conoscenza e della rappresentazione. L’ utilizzabile è necessariamente misurabile, l’esperibile verificabile, il valutabile quantificabile. In questo senso, parafrasando Geoffrey Scott, l’architettura deriva dalla necessità di proteggersi, isolando uno spazio conveniente staccandolo dal resto dello spazio mutevole e pericoloso tramite una costruzione
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cornelia konrads- passage 2007
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Il muro è il primo segno in questa storia di limiti
Da necessità diventa viltà? Da rifugio a prigione?
Si parla davvero solo di questo? Di una auto-costrizione in una cella che sia il più possibile isolata dal circostante, nel continuo tentativo di eliminare le variabili e i cambiamenti che la vita porta come sua intrinseca sostanza?
L’architettura, e tutte le sovrastrutture che porta con sé, non sono solo un mezzo per strumentalizzare lo spazio e far fronte alle necessità di riparo. Essa è molto di più, è un di-segno continuo dell’abitare dell’uomo, o un disegno della continuità-necessità dell’uomo, di abitare dentro i luoghi, naturali e artificiali che siano, tutti riproduzione, descrizione del primo luogo sempre. Anche quando pensa di averlo manomesso quel mondo è lì, pregno di tutti i suoi componenti e gli effetti argomentati, concretizzati, resi esperibili dalla e nella materia, non sono niente altro che il suo approssimarsi nella grotta.
Andrea Staid nel suo saggio “Abitare Illegale” spiega questa inevitabile conseguenza dell’Esistere umano “La casa è anzitutto luogo antropologico, un luogo abitato dall’uomo che non è solo uno stare, ma anzitutto un essere”. Gli spazi che viviamo si modificano e si evolvono con la stessa velocità con cui lo facciamo noi, sono un continuo riflesso della nostra persona. La mutabilità del nostro animo, le nostre aspirazioni e speranze, i nostri valori: tutto questo influisce continuamente sugli spazi con cui co-esistiamo. La forma è significato. La forma è essenza.
“Abitare”, scrive Ivan Illich in Volontà, “è una delle principali caratteristiche dell’uomo. La casa è il luogo umano per eccellenza. In molte lingue vivere e abitare sono sinonimi. Domandare a qualcuno dove vivi? è in verità chiedere nozione sul luogo dove si svolge la sua attività quotidiana, che dà forma al mondo”
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cornelia konrads-gnapindia
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Dimmi come abiti e ti dirò chi sei,
l’uomo è definito dalle azioni
Per semplificare la comprensione di questo concetto così radicale, ma allo stesso tempo fuggevole, sfuggente e multiforme, è utile forse affrontarlo con tre sguardi, o strumenti differenti, sebbene interdipendenti.
L’atto di abitare, in tutta la sua complessità, mostra e definisce la relazione che l’uomo intraprende nei confronti di sè stesso, verso una comunità di uomini e un ambiente geo-biologico, di cui è costantemente corpo e parte.
Intervenire e modificare il paesaggio naturale – spesso compromettendolo – è espressione di un’esigenza umana che in origine non c’era. Non sempre conscio, di attribuire senso e scopo alla materia, l’uomo si è spostato, legando i suoi habitat alle sue abitazioni, costruendone un abito di abitudini. I villaggi lungo i fiumi, piuttosto che nelle praterie o tra le montagne. La paura, la fame e tutto quanto concerne la sua più antica e mai perduta componente originale, quella che lo lega al luogo intrinsecamente, soprattutto nel momento delle nascite, della riproduzione della specie, tutto questo fa di lui un dipendente e di questo vuole liberarsi l’uomo. Vuole essere libero e comincia a scrivere i suoi libri di conoscenza, si svincola dal corpo tutto per abitare la testa.sta in alto, sulla cima del suo tronco come sulla cima di un Everest o di una torre, di un grattacielo che ridisegna le sue tappe misurandone forza di sottrazione alla gravità della vita che conduce. E nel frattempo tutto diventa un peso, abbisogna di raffinata tecnologia per superare le barriere che egli stesso si costruisce. Allo stesso tempo però è vero anche il contrario: l’ambiente a sua volta determina fortemente l’agire, gli usi e i costumi umani. Animale privo di istinti, l’uomo appare prodotto delle sue esperienze soggettive. “L’abitare forgia le abitudini. Abitare, abiti, abitudini non a caso sono parole legate da una comune radice etimologica”, scrive Adriano Favole. Ma abitare ha a che fare anche con un’altra radice che s’innesca profonda nell’uomo, l’avere, il senso della proprietà , il diritto della proprietà, determinata sempre con segni di forza inflitti alla sua stessa carne, sia che sia luogo, sia che sia specie. L’uomo è una catena e non sta in cima, ma alla pari con ogni altro com-ponente. L’uomo migra tra la nascita e la morte, appare scompare, per questo per riconoscersi ha bisogno di simboli che lo rappresentino, siano essi oggetti, idee, persone, ma anche spazi e architetture.per non morire, per non scomparire in quanto comprende essere vacuo, temporaneo, inter-mittente. Così crea i suoi messaggi, in questo senso l’architettura influenza carattere e personalità, funge da negativo -positivo a cui l’uomo è connesso in una corrente di ioni. Si carica, l’uomo, di sé stesso e si fa specchio che riflette l’uomo pre-cedente, aiutandolo a leggersi in modo chiaro, in un uomo continuo, collettivo. Ma. In che spazio siamo disposti a vivere? Siamo consapevoli del nostro legame con esso? Di come ci vincoli, ci arricchisca, ci metta continuamente alla prova? Cosa significa antropologicamente crescere in palazzine come le Vele di Scampia o nello BedZed di Londra, palazzina completamente ecosostenibile e offgrid?
Il nostro modo di costruire manifesta il nostro modo di con-vivere, la capacità della comunità umana di vivere e creare spazi funzionali e autentici, o alienati e tossici. Progettare spazi, a livello urbanistico, o a piccole scale, significa influire e intromettersi enormemente nei comportamenti umani. L’influenza psico-fisica esercitata dagli spazi ci può spingere, all’interno di una comunità, ad essere individui diversi – e auspicabilmente migliori, più tolleranti, inclusivi, meno alienati. Esistiamo solo in relazione ad altri individui, siamo eco (del) sistema, ed è in qualche modo il riconoscimento esterno della nostra persona a definire la nostra identità. La necessità di proporci e manifestarci come animali sociali si esprime nell’abitare, “un faticoso compromesso fra l’esigenza di intimità e di condivisione e quella di aprirsi al mondo che sta fuori: un punto precario di equilibro tra la chiusura e l’apertura, tra il raccoglimento nell’intimità di un “noi” o di un “io” e l’aprirsi alla relazione sociale” [Francesco Remotti]
Architettura è un continuo dialogo fra gli individui di diverse generazioni, ci giunge attraverso stratificazioni di segni e manufatti dal passato, forgiandoci dal punto di vista personale e collettivo, determina l’identità degli individui a noi prossimi ma si getta in tralci oltre, molto oltre qualsiasi misurazione. Siamo arche e logie, siamo archeologie di una mutazione che costa moltissimo e continuamente si trasforma deponendo uova per domani. Essa espone l’ideologia dominante, esplicita le logiche economiche del tempo. Non ci si esime da queste influenze. Ma contemporaneamente abbandona frammenti, tracce recuperabili. E’ da quel caos di elementi che si sviluppano le configurazioni più ardite, eccentriche ma apprezzabili.
L’architettura è certamente soprattutto materia. È definita da spazi reali, che si estendono (ma non si esauriscono) nelle tre dimensioni: è fatta di pareti portanti e mattoni, a vista o no di elementi in ferro e altri in calcestruzzo, che creano i suoi nodi. È un contatto continuo con l’ambiente, in balia com’è del vento e della pioggia e dei raggi luminosi del sole, di tutte le intemperie e di tutte le stagioni, delle convulsioni telluriche, dei miasmi degli uragani che vomitano cose e persone a distanze impensabili. Ogni spazio che abitiamo, che sia una casa o uno spazio collettivo e comunitario, non è solo caratterizzato da un confronto con l’aspetto storico-culturale caratterizzante il luogo stesso, ma anche e soprattutto da un continuo, puntuale adattamento al territorio dal punto di vista geologico e geografico. Le modalità e le tecniche di costruzione sono la principale espressione, nonché la più tangibile sfumatura dell’atto di abitare. Ogni costruzione è manifestazione di un’ideologia, di una volontà, di una adesione più o meno parziale alle politiche socio-economiche del tempo che viviamo. Per questo è così radicalmente differente vivere, e scegliere, una casa autosufficiente in materiali sostenibili rispetto a una palazzina popolare degli anni ’60 in calcestruzzo.
Le architetture sono come abiti che indossiamo. Si adattano alle nostre forme e sono segno visibile del nostro essere. Non possiamo lasciarle in balia delle volontà altrui, in mano a presunti addetti ai lavori. Ma.
Abbiamo la possibilità di scegliere chi essere e manifestarlo?
Che impronta possiamo o dobbiamo lasciare sul pianeta e tra di noi con i nostri edifici?
Abbiamo il coraggio di fare nostri degli spazi liberi e accoglienti, di allontanarci “dall’asfalto delle strade e l’elevarsi delle gru e il rumore dei motori e il disordinato intrecciarsi dei veicoli” che, secondo Adriano Olivetti, tanto ricordano una “vasta, dinamica, assordante, ostile prigione dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere”. [ A. Olivetti, Città dell’uomo, Edizioni di Comunità, p.78]
A quanti compromessi siamo disposti a scendere per comodità, conformità, senso di sicurezza? Ma quale sicurezza?
A chi deleghiamo la nostra libertà e identità?
Baraccopoli e città murate non sono sempre queste le matrici, anche quando vediamo le più ardite ed eleganti costruzioni architettoniche?
Quando costruiremo anche noi un tessuto vivente, che ci connetta non solo internettianamente ma in modo collaborante gli uni agli altri, le specie tutte in un sistema quale esso è già, ma senza disperdere, senza spreco, senza abuso, senza predominio, senza possesso? Quando realizzeremo una gestione collettivamente audace che ancora, a differenza dei miceli, la specie più bassa ma nostra antenata comune, ha già elaborato con una cura che continua a porre anche noi tra le specie da salvaguardare anche se, come distruttori, non ne siamo meritevoli?
Michele Anelli Monti e Margherita Fiorini