SCAVI- Fernanda Ferraresso: Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione, poesie di Richard Harrison

 alberta- distruzione della foresta boreale per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose

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On Not Losing My Father’s Ashes in the Flood

We couldn’t find my father’s ashes
during the flood of 2013
and thought they had been swept away. Or maybe

one of the volunteers, there only to do good, saw the jar
that held them covered with silt and threw it out,
as it went with so many things people cared for
in the buried treasure of their homes –

family photographs,
manual typewriters, diplomas under glass.

After the river left our house, two of my wife’s friends
took apart our piano, which was waterlogged
and could not be saved.

And the piano, being demolished, made a concert
from the jugular grief of crowed wood, the broken memory of glue
and the squeal of screws no longer holding fast.

It ended with the crash of the great harp
onto a crib of concrete,                                            a zoo in panic,
every note the piano knew climaxed at once,
every animal howling
as the river rose in their cages.

At the news of my father’s ashes lost to the water,
my neighbours winced like something wild
had eaten a pet they’d all fed from their hands.

But a friend from Poland thought it was hilarious,
and so did I – we both come from a long line of cannon fodder.
Dad would’ve laughed, too. I’d kept his ashes
because nothing I’d thought to do with them was right. He used to say,
If you wait, things will solve themselves –
the trick is knowing when to wait.

I was reading Robert Hass’s elegy
for his younger brother – with Robert’s mind caught up
imagining a funeral
in which his brother’s body was burned on a boat in the river,

so first the fire, and then the air, and then, finally,
the river took the body – as if downstream
was another word for heaven.

We found the jar
in a box of books and a remote-controlled car
taken to the kitchen
when everyone grabbed everything above the waterline;
it had never been touched by the river.

And now it sits on a shelf in my living room,
my father’s ashes not taken by the flood
that I will not give to the air
until I have learned all he has to teach me
with the last part of the earth that was him.

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Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione

Non riuscivamo a trovare le ceneri di mio padre
durante l’alluvione del 2013
e pensammo che fossero state spazzate via. O forse

uno dei volontari, là solo per fare del bene, vide l’urna
che le racchiudeva ricoperta di limo e la gettò via,
come accadde con tante altre cose che la gente aveva care
nel tesoro sepolto delle loro case –
fotografie di famiglia,
macchine da scrivere, diplomi sotto vetro.
Quando il fiume si allontanò da casa nostra, due amici di mia moglie
smembrarono il pianoforte, che era fradicio
e non poteva essere salvato.

E il piano, nell’essere demolito, fece un concerto
dal dolore giugulare, il suo grido di legno, il ricordo rotto della colla
e lo stridio delle viti che non reggono più.

Finì con lo schianto della grande arpa
contro una culla di cemento,                                                             uno zoo in panico,
tutte le note che il piano conosceva culminate in una sola,
ogni animale ululava
mentre il fiume si alzava nelle loro gabbie.
Alla notizia delle ceneri di mio padre perdute nell’acqua,
i vicini trasalirono come se qualcosa di selvaggio
avesse divorato un cucciolo cresciuto dalle loro stesse mani.

Solo un amico polacco pensò che fosse comico,
e così anch’io – veniamo entrambi da una lunga schiera di carne da cannone.
Anche papà avrebbe riso. Avevo tenuto le sue ceneri
perché niente di ciò che avevo pensato di fare con esse era giusto. Era solito dire,
Se aspetti, le cose si risolveranno da sole –
il trucco è sapere quando aspettare.

Stavo leggendo l’elegia di Robert Hass
per il fratello minore – la mente di Robert immaginava
un funerale
dove il corpo del fratello veniva bruciato su una barca nel fiume,

così prima il fuoco, e poi l’aria, e poi, alla fine,
il fiume presero il corpo – come se a valle
fosse un altro modo per dire cielo.

Trovammo l’urna
in una scatola piena di libri e una macchinina telecomandata,
l’abbiamo portata in cucina
quando tutti afferravano tutto al di sopra del livello dell’acqua;
non era mai stata toccata dal fiume.

E ora sta su una mensola in soggiorno,
le ceneri di mio padre non prese dal fiume
che io non consegnerò all’aria
finché non avrò imparato tutto ciò che ha da insegnarmi
con questi resti di terra che furono lui.

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Apre così, con questo testo, la raccolta  di poesie di Richard Harrison che titola  Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione, libro curato da Andrea Donaera e tradotto da Riccardo Frolloni (direttore del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna).
Quel sul, che da qualche parte del mio cervello anomalo, credo, lavora per continue e stravaganti analogie, ramifica pensieri che interpreto per fantasmi di altri, intrufolandoci  segni e sensi, le emo-azioni ineguagliabili, beh, quella me che scopro anch’io passo passo anche nei passi degli altri, mi ha messo su una pista inaspettata. Non una pista d’aereo che decolla!
No! Anzi! La cosa è lenta, intricata, aggrovigliata, proprio come i fanghi in cui spesso la memoria s’impatana, a volte sprofonda e scompare.
Mi richiamava alla mente il DE BELLO…Anche qui una guerra. Una guerra tra fantasmi ed eventi incontrollabili. La terra, la natura, gli eventi atmosferici, che costituiscono una tessitura continua, che ha branchie e rami nel cosmo tutto, ma anche la terra interiore, soggetta a frane, fessurazioni, smottamenti, terremoti dell’essere, noi sempre identici e allo stesso tempo differenti da noi stessi, aveva scatenato un caos e questo ne ha indotto un altro e poi un altro. Avviene nelle terre della memoria dell’autore,così lo vedo, che cerca disperatamente di ritrovare una via da percorrere quando tutto resta sommerso: dalla distruzione, dalla perdita inattesa, ma anche dalla trasformazione.
La guerra, non è solo quella che combattono i soldatini umani, la grande colossale, catastrofica guerra degli elementi che ti “piomba” addosso un corpo duro, pesante, avvelenato. E’ quella che ti afferra come un fuscello e ti trasporta così lontano, oltre il punto in cui credevi di aver puntato saldamente i piedi, di avere radicato il tuo futuro, mentre non puoi che arrenderti. In un istante ciò che è… fu. Sfumato. Svanito. Perduto. Inesorabilmente. Niente altro da aggiungere. Un pugnetto di cenere da spartire e. Fango, dentro, intorno silenzio. Si brancola in un buio di sabbie bituminose, incalpestabili, inagibili.
Accade anche nelle poesie di Harrison.  Galleggiano, in quel fiume,  memorie di oggetti strappati, trasportati altrove dai loro luoghi d’origine, dalla corrente. Si ammucchiano, correndo veloci, fino ai ponti dove qualcuno, lui in questo caso e  noi, che lo osserviamo, guarda e misura la profondità di quei vortici, che sono memorie personali, del padre, di una malattia che si moltiplica, per virus di disagi, tutti e solo umani. La solitudine della morte brilla memoria, la fa esplodere per micce lontane, per tratti di ricordo che sembrano scollegati ma, niente, di fatto, lo è. Tutto quanto i testi convogliano nel fiume, tra il fango e un’acqua mnestica, ci ricordano alla fine che la politica, quella su cui ci spertichiamo tutti a sparlare, dovrebbe avere un solo scopo: aiutare a vivere non allagare di parole inutili o addirittura pericolose, fragorose, alluvionali la vita di tutti.

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alluvione 2013-calgari

Devastante alluvione colpisce Calgary

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Potremmo chiamare il lavoro di Harris con il nome di geometria, geometria dell’assenza, o casa degli assenti, dove le continue citazioni ad un passato che è un piano scivoloso e ricorrente,  fanno da soffitto e due righe di  poesia, breve e concitata al tempo stesso, immersa nella fiumara di parole che bruciano, mostrano ciò che è perpendicolare: l’ignorare, che perdura ed è comune in ogni latitudine e geografia. Il complesso disegno, che vorrebbe pianificare una  evoluzione e dispone regole su regole, leggi e idealismi, valori, costi, imperativi categorici, resta invece fisso, sotto lo stesso gruppo di stelle la cui luce ci vide nascere, in una somma di errori ed equivoci che ancora ci mantiene praticamente fermi, in un poligono di tiro, in cui gli elementi ci sbaragliano. E non bastano il gioco delle parole, né la lucidità del pensiero, tutto scivola in un solo modo-mondo che si spiega, piega i diversi tempi del globo restando lo stesso giorno, in una detrazione fredda di persone, di eventi che non possono essere calcoli o matematiche del profitto.

Titolavano così i giornali, anche quelli in rete di quel famoso anno di cui questo libro porta memoria:- Grande alluvione a Calgary, Canada, capitale delle sabbie bituminose! Una disastrosa alluvione ha colpito la capitale dell’Alberta, causando 75.000 sfollati. Un curioso contrappasso per uno stato che sta grandemente contribuendo ai cambiamenti climatici con l’inquinamento generato dalle sabbie bituminose

La massa d’acqua che si riversò con furia sconvolgente sulle terre del Polesine fu immane. Si calcola che la portata complessiva delle rotte sia stata dell’ordine dei 7.000 m³/s (6.000 m³/s secondo alcune stime, più di 9.500 m³/s secondo altre) a fronte di una portata massima complessiva del fiume stimata in quell’occasione in circa 12.800 m³/s. In pratica, circa 2/3 della portata fluente, anziché proseguire la sua corsa verso il mare entro gli argini del fiume, si riversò sulle campagne e sui paesi. Come peculiare effetto di ciò si produsse, immediatamente dopo le rotte, un repentino decremento del livello idrometrico del fiume, riscontrato nelle stazioni di misura a monte e a valle: tale fenomeno si definisce “effetto svuotamento”.

Ebbe quindi inizio una catastrofe di enormi proporzioni le cui ripercussioni si riflettono sino ai nostri giorni, segnando per sempre la storia del Polesine. Fu essa infatti, per estensione delle terre allagate e per volumi d’acqua esondati, la più grande alluvione a colpire l’Italia in epoca contemporanea.
Così scrissero allora e ritrovo le stesse parole ora, ora che penso a questa scena e la metto a fianco a quella di Calgari. Da una parte le casette di marzapane dei contadini e dall’altra i grandi palazzi multipiani, i centri direzionali, le grandi vie di scorrimento, contro le strade battute di campagna e gli argini dei fiumi. Il benessere e la miseria ma entrambi un alveare di insetti in allarme, gli uni e gli altri, minuscoli davanti alla furia del cielo e della terra.
L’alluvione, tra l’altro,  è una buona metafora per aprire uno sguardo su un appiglio. E’ l’alluvione e la ricerca di qualcosa/qualcuno la fune a cui ci si aggrappa per ricostruire un percorso a ritroso, non certo perduto nell’evento, ma in sé stessi. Quell’urna cercata e data per dispersa, le ceneri che essa raccoglieva, altro non sono che l’urna di una relazione, la polverizzazione di una relazione, le cui ceneri  sono state prodotte da un mancato rapporto, da un mancato dialogo nel tempo e l’alluvione, non quella delle acque, ma quella intima, reale, vera, rischia di essere proprio la perdita di una memoria non salda, capace di sfasciarsi come quel piano- forte di suoni e note conosciute, sinonimo di un piano-programma che si era previsto e poi non è stato seguito, dalla vita, dai fatti di cui la vita si compone,  perché non abbiamo in mano nessun piano, nessun programma, solo dei tasti e degli arpeggi, che nella mente suonano in un modo e poi, per una qualsiasi disgrazia, diventano uno zoo di voci stridule, ossessive, lamentose, mostruose, incomprensibili, irriconoscibili, che si sfasciano mettendo a nudo le nostre perdite.

In comune, qui e là, anche una colpa riconosciuta, la stessa, anche se cambiano le dimensioni i danni danno gli stessi lutti: troppi boschi abbattuti!
La demenza che affiora, dalle acque di memoria del libro di Harrison, non è relativa al padre, alla fine del percorso che esso ha  promosso, è lucidissimo quel padre, che inquadra scorci di prospettiva nitida nelle sue battute scarne, lucidissimo quando dice che ci pensa la vita, meglio di qualsiasi altra cosa, a prendere l’iniziativa, a metterci davanti ad un fatto, a costringerci a riflettere sulla nostra imbecillità nel vivere in questo pianeta rincorrendo cose che non ci salvano.

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-Il violento nubifragio nello stato dell’Alberta, Canada, per la prima volta nella sua storia, aveva  sopreso i suoi abitanti per la rapidità con cui sono salite le acque. 75.000 persone sono state evacuate...La peggiore crisi nella storia dello Stato, nell’Alberta non abbiamo mai visto nulla di simile. Dovremo convivere con questo per sempre.-

Come si vede le conseguenze sono le medesime solo che in più, nell’Alberta, ciò che aggrava il disastro è la componente non certo eco-logica, ma frutto di una logica del profitto che gli affari avevano messo in primo piano, prima di ogni componente umana.
La violenza delle acque ha causato  danni all’oleodotto che trasporta 345.000 barili al giorno di greggio sintetico prodotto a Fort Mc Murray dalle sabbie bituminose. Sono fuoriusciti nell’ambiente 750 barili di greggio, prima che l’oleodotto venisse chiuso, forzando una riduzione della produzione delle aziende impegnate in tale “sforzo”.

I cambiamenti climatici, aumentando il rischio di alluvioni, segnano una specie di “contrappasso” , come per quel piano-forte sfasciato, per chi deve purgarsi di una emissione di elementi inquinanti che ci rendono tutti più fragili. CO2, non è una navicella spaziale anche se si trasporta nell’aria dovunque, ed era ed è funzione principale degli alberi trasformarla in ossigeno e in lignina da ardere. Per una tonnellata di petrolio, non ancora bruciato, solo per lavorarlo si emettono 0,58 tonnellate di CO2.
Un bitume la vita, o meglio un pantano?
Hanno molti, moltissimi punti di contatto, le due alluvioni non colpiscono un territorio, che sa come sanarsi, dopo ripetute glaciazioni, desertificazioni, terremoti di incredibili dimensioni, dopo millenni di scorticazioni ed eruttive digestioni di rocce e oceani. Chi è scomparsa è ogni altra forma di vita e noi, come quei precedenti tiranni-sauri, abbiamo lo stesso destino.
I contatti tra le due storie si tracciano chiare relativamente all’alluvione delle persone, quelle che restano, a chiedersi come mai e dove e da quando e chi e cosa avviene, senza dare l’unica risposta da dare: l’avidità per qualcosa che non è la vita.
Ed è la vita, invece, che in quel disastro, cercando di recuperare le ceneri del padre, permette a Richard Harrison di recuperare tutto il pregresso, suo ma anche nostro, un mondo comune, un territorio non solo nazionale ma storicamente databile come nostra pre-istoria , uno studio istologico sulle cellule cancerogene e no che in noi si sono innestate in una sequela di perdite, di confuse tracce, di acque che, nei versi, si vedono spostarsi da una illusoria riva sinistra e avanzare verso destra. Una riga dopo l’altra, in una esondazione continuata.
Ognuno e tutti  incatenati alla propria ora, in un cortocircuito verbale che sale, es-onda nel parco selvatico di una selva di persone, ombre, che non sente se non per colossali accidenti, spesso anch’essi ingigantiti dagli interventi mediatici ma che ci fanno chiedere: – noi, noi dove siamo in tutto questo disordine?
Un magia cruda e crudele la vita, non ci permette di guardare troppo oltre  e allo stesso tempo ci invoglia a spingerci così lontano perché questo è l’uomo: un sogno da cui nasce e si sviluppa il parco di un amore che speleologa sé stesso ma anche si supera, oltre i ghiacci di ogni logica. Tiranno non è il rex-destino, con le zampe superiori di un topo, ma noi, il nostro pensarci piccoli, ancora piccolini tra pause di gelo e una  carne che brucia stelle, ancora come sempre immersi, in una notte che ci inghiotte.

Dice Harrison:- E, con la sua morte- riferita alla morte del padre di cui il libro parla- mi stava insegnando l’ultima cosa che dovevo sapere, che la poesia o l’arte era la nostra risposta alla morte.
Nel libro, infatti, l’autore riflette sì sulla morte del padre, sull’alluvione dell’Alberta ma anche su ciò che la poesia presenta, come una vita vissuta intorno ad essa, l’alluvione personale a cui tutti andiamo incontro, attimo dopo attimo e r(iv)elazione dopo r(iv)elazione.

Sono convinta che se un libro è generoso non lo è solo per ciò che di suo ti porta lo scrittore, ma per tutto quanto apre e ti mostra dentro di te, alluvionando le tue terre di memoria e traghettandoti in luoghi che altrimenti non avresti percorso, se non a casaccio, tracciando qui e là segni di grafite che disegnano ponti, archi di volta e ti sostengono in tutto il tragitto per raggiungerti, nelle profondità più fertili di te stesso.  Il mondo, penso, è quel posto in cui  i personaggi di un romanzo possono sfuggire a tutto/tranne che alla loro storia.
Penso anche, a conclusione del percorso, che quelle ceneri del padre, che si sarebbero potute perdere nell’alluvione, indichino anche una lettura diversa e cioè la possibilità che il pianeta, il padre, e quel che resta dopo escavazioni, triturazioni, prelievi, frane,…siano quelle ceneri (noi stessi, carne della sua carne) che in una alluvione prossima, come uno zoo in panico, noi tutti, potremmo perdere.

Fernanda Ferraresso

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This Son of York

All the world’s a phrase,
and of all the phrases in the world, my father loved best
Now is the winter of our discontent
made glorious summer by this son of York.

It sprung from his lips I know not how oft,
and it leapt among the last he said
the day they mended his shattered hip, and,
fearing his heart would fail on the table,
the doctors asked me what they should do.

My father’s will was the last whole thing he had, I knew:
Let him go, I said, and signed the page.

And then I walked to where he waited and took his hand.

Now is the winter of our discontent,
he began again, his voice with Shakespeare
made glorious summer.

It has taken me all this time to ask, why
those words and not some others – or his own?

And I have written of him having a divine and terrible beauty
I could not help but praise.

My father answered with this soliloquy that
begins the play where Richard, who would be Third,
though not yet king, humpbacked, gross and loathing
every beautiful thing he beautifully describes,
longs for war’s reprise when he,
rudely stamped, unfit for love or joy,
could be monarch among men at their monstrous height.

My father longed, too,
for the days of youth and war
as the last time in his life he knew exactly what to do.

What comes to me now is how out of place a man
such longings make,
how little peace could offer him when he put down the gun,
and all the words he lived by then lay down their meaning beside it.

And all my writing around his name became a losing argument for the beauty
of a man who found beauty everywhere but in himself.

My father taught me a poem is not its words, but the ringing it leaves behind.

And when my father from his hospital bed spoke the usurper’s lines who
put every molecule of rage into laying waste to what he saw,
I understood it then: my father was never reciting this precipitous rant,
he was rewriting it,
replacing every word with one that reads the same but means the opposite.

He looked me full in the face, the way I look at my own daughter and my son,
glorious summer he’s said to me for almost half a century,
and with that clutch of words
this son of York held on.

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Questo figlio di York

Tutto il mondo è una frase,
e di tutte le frasi del mondo, mio padre preferiva
Ora è l’inverno del nostro malumore
fatto estate gloriosa da questo figlio di York.

Tuonavano dalle sue labbra non so quanto spesso,
e abbassava il tono sulle ultime
il giorno in cui aggiustarono l’anca frantumata, e,
temendo che il cuore sarebbe collassato sul tavolo,
i dottori mi chiesero cosa dovevano fare.

La volontà era l’unica cosa intera che gli restava, lo sapevo:
Lasciatelo andare, dissi, e firmai il foglio.

E poi andai dove mi stava aspettando e gli presi la mano.

Ora è l’inverno del nostro malumore,
cominciò di nuovo, la sua voce insieme a quella di Shakespeare
fatto estate gloriosa.

Impiegai così tanto tempo a chiedere, perché
quelle parole e non altre – o le sue?

E ho scritto di lui che ha una bellezza divina e terribile
che non posso fare a meno di lodare.

Mio padre rispose con questo monologo che
inizia la scena dove Riccardo, che sarebbe stato Terzo,
sebbene non ancora re, gobbo, brutto e odiando
ogni cosa bella che descrive magnificamente,
anela la ripresa della guerra quando lui,
aspramente segnato, inadatto all’amore o alla gioia,
sarebbe potuto essere monarca mostruoso al pari degli altri uomini.

Anche mio padre desiderava
i giorni di gioventù e guerra come
l’ultima volta in vita in cui sapeva esattamente cosa fare.

Ciò che ora comprendo è quanto renda un uomo fuori luogo
così tanto desiderio,
quanta poca pace possa offrirgli posare la pistola,
e tutte le parole vissute da allora depongono il loro significato accanto ad essa.

E tutto il mio scrivere su di lui è divenuto un tema inutile per la bellezza
di un uomo che trovava bellezza ovunque tranne in se stesso.

Mio padre mi insegnò che una poesia non è le sue parole, ma la melodia che si lascia dietro.

E quando dal letto d’ospedale declamò i versi dell’usurpatore
che mise ogni molecola di rabbia nei rifiuti di ciò che vedeva,
finalmente compresi: mio padre non aveva mai recitato questo rantolo precipitoso,
lo stava riscrivendo,
sostituendo ogni parola con quella che si legge uguale ma significa l’opposto.

Mi guardò pieno in faccia, nello stesso modo in cui guardo mia figlia e mio figlio,
estate gloriosa mi ha detto per quasi mezzo secolo,
e con quella cadenza che
questo figlio di York ha mantenuto.

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alberta- distruzione della foresta boreale per estrarre petrolio dalle sabbie bituminose

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The World Made New

When he realized that he would never leave the Home,
my father was as furious as
a man with a memory refined to minutes could be.

He flared out in short blasts at the knowledge,
then faded just as fast into puzzlement at where he was.

Then he’d figure it out again.

Watching him was like watching fireflies in a forest,
each one a fragment of light,
but not so great a light to keep away the darkness
that gives the light its meaning.

My father felt betrayed by the doctors who’d
repaired his busted hip, and for him, the old soldier,
betrayal was the greatest of sins.

It would only be a matter of time
before he’d forget the origin of his presence
among them who slept in their chairs to the soundtrack of the TV,

and though he never believed that he had always been there,
eventually he understood that dying was his only escape
from the piece of shit body he declared he had left.
The worst part was the argument
to explain the memory he no longer had
because you need a memory to grasp your memory’s loss.

I asked him about the day when he, filled with gratitude
for the surgeons, looked for something of himself to give to the intern
who was with him when he woke,
and, owning nothing else,
he took the ruined ball joint of his leg that
they had cut away so he could walk,
and offered that.

He answered he remembered, but when I asked
what he remembered later, he did not know,
and denied I posed a question.

Around we’d go
in that darkness together –
trapped in that terrible excellence
poets long for in every poem

that moment words have no past and in them is the world made new.

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Il mondo fatto nuovo

Quando realizzò che non avrebbe mai lasciato la Casa,
mio padre era furioso come un uomo
con una memoria tarata al minuto può essere.

Esplodeva in piccoli scoppi di consapevolezza,
poi sbiadiva rapidamente nella perplessità di dove fosse.

Poi l’avrebbe capito di nuovo.

Guardarlo era come guardare le lucciole in una foresta,
ognuna un frammento di luce,
ma non una luce così grande da tenere lontana l’oscurità
che dà alla luce il suo significato.

Mio padre si sentiva tradito dai medici che
avevano riparato l’anca fratturata e per lui, il vecchio soldato,
tradire era il più grande dei peccati.

Sarebbe stata solo una questione di tempo
prima di dimenticare l’origine della sua presenza
tra loro che dormivano seduti alla colonna sonora della tv

e sebbene non avesse mai creduto di essere sempre stato lì,
alla fine capì che morire era la sua unica fuga
dal pezzo di merda di corpo che dichiarò di aver abbandonato.
La parte peggiore era spiegare l’argomento
alla memoria che non aveva più
perché hai bisogno di una memoria per cogliere la tua perdita di memoria.

Gli ho chiesto del giorno in cui, pieno di gratitudine
per i chirurghi, cercava qualcosa di sé da dare al medico di guardia
che era con lui quando si svegliò,
e, non possedendo nient’altro,
prese la vite arrugginita della sua gamba che
avevano tagliato via così che potesse camminare,
e gliel’offrì.

Rispose che ricordava, ma quando più tardi
chiesi cosa ricordava, non lo sapeva,
e rifiutò che gli facessi una domanda.

Saremmo andati
ovunque insieme in quell’oscurità –
intrappolati in quella terribile eccellenza
che i poeti desiderano per ogni poesia

che in quel momento le parole non hanno passato e in esse il mondo è fatto nuovo.

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alluvione 1951- abbandono delle case

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Confessional Poem

Yesterday I wrote a confessional poem,
but my wife, who always reads me first, said it was just a journal entry.

It’s been years since I was that far from a poem and thought I was that close,
but I trust her.

Today, before class, a student was zipping through a Rubik’s Cube,
knuckling the box into panels of many colours, then a couplet,
then one            then many again.

Within two minutes, without looking, he was done.
I asked him to do it over so we could all watch, and, having watched,
have something with which to begin the writing of the day.

I wrote that the planes of the cube going in and out of order
as the student twisted the game were like the drafts of a poem,

sometimes deliberately torquing towards the opposite of the desired end
because the poem is a way we give in to a logic that lives within us
but is not our own.

I was thinking of that poem I couldn’t write,
an apology I wish I’d made years ago,
and carry with me even though two things are true:

the person I would have apologized to is dead now,
and what I want to apologize for is speaking badly of them
though it was only to my wife and so they never knew.

The poem was like having an argument with someone in a dream,
then going up to them in daylight wanting to make amends.

Last time I did that,
the other person reminded me
that I had done nothing.

But I apologized anyway
because they had done nothing
to deserve what I did not do.

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Poesia confessionale

Ieri ho scritto una poesia confessionale,
ma mia moglie, la prima a leggermi, disse che era solo una pagina di diario.

Erano anni che non ero così lontano da una poesia e pensavo di esserne così vicino,
ma mi fido di lei.

Oggi, prima della lezione, uno studente smanettava un cubo di Rubik,
trasformando quella scatola in facce di tanti colori, poi due soltanto,
poi uno,        poi tanti di nuovo.

In due minuti, senza guardare, aveva fatto.
gli chiesi di farlo ancora così che tutti potessero vederlo, e avendolo guardato,
avere qualcosa con cui iniziare a scrivere la loro pagina del giorno.

Io scrissi che le facce del cubo perdendo e ritrovando il loro ordine
mentre lo studente faceva roteare il gioco come la bozza di una poesia,

che a volte devia volontariamente verso l’opposto della fine desiderata
perché la poesia è un modo per arrendersi a una logica che vive dentro di noi,
ma non è la nostra.

Pensavo a quella poesia che non ho potuto scrivere,
una scusa che avrei desiderato dare anni fa,
e avrei portato con me sebbene sono vere due cose:

la persona con cui mi sarei scusato è morta,
avrei chiesto scusa per averne parlato male
anche se è stato solo a mia moglie e così non lo seppe mai.

La poesia era come avere un litigio con qualcuno in un sogno,
poi di giorno andare verso di questo a chiedere scusa.

L’ultima volta che lo feci,
mi ha ricordato
che non avevo fatto niente

Mi sono scusato comunque
perché non avevo fatto niente
per meritare ciò che io non avevo fatto.

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.calgari alluvione 2013 e polesine 1951

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Risultati immagini per richard harrison poet

Richard Harrison, poeta canadese, è nato a Toronto nel ‘57 , si trasferisce a Calgary nel ’95. Si è laureato presso la Trent University (in biologia e filosofia) e la Concordia University (in scrittura creativa). Ha insegnato alla Trent University, l’Università di Calgary e ora alla Mount Royal University, dopo essere stato Writer-in-Residence all’Università di Calgary nel 1995. Il suo libro più recente, On Not Losing My Father’s Ashes in the Flood, ha vinto il Governor General’s Award per la poesia in lingua inglese, il Stephan G. Stephansson Alberta Poetry Prize ed è stato finalista del W.O. Mitchell Book Prize per la Città di Calgary. Degli otto libri scritti da Richard Harrison, da ricordare anche il finalista del Governor General’s Award Big Breath of Wish e Hero of the Play, il primo libro di poesie ad essere presentato all’Hockey Hall of Fame. I suoi lavori sono stati pubblicati, trasmessi e visualizzati in tutto il mondo, e le sue poesie sono state tradotte in francese, spagnolo, portoghese e arabo. On Not Loosing My Father’s Ashes in the Flood, è il suo primo testo tradotto e pubblicato in Italia.

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Richard Harrison, Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione- ‘roundmidnight edizioni 2018

Traduzione di Riccardo Frolloni

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RIFERIMENTI IN RETE

https://www.rivistaclandestino.com/richard-harrison-on-not-losing-my-fathers-ashes-in-the-flood/

http://www.zestletteraturasostenibile.com/sul-non-perdere-le-ceneri-di-mio-padre-nellalluvione-richard-harrison/

https://www.roundmidnightedizioni.it/book/sul-non-perdere-le-ceneri-di-mio-padre-nellalluvione/

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