TRA LA PAROLA POETICA E LA MUSICA- Sergio Pasquandrea: Zefiro torna.

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Questa rubrica parla di poesia e musica. E quindi ci sono almeno un paio di scogli inaggirabili: il madrigale rinascimentale e il lied romantico.
Cominciamo dal primo.
Difficile spiegare in poche parole che cosa sia il madrigale. Innanzi tutto, ha poco a che fare con l’omonima forma metrica, praticata sin dai tempi di Dante e di Petrarca e legata a particolari schemi di rime.

Il madrigale musicale nasce in Italia nel XIV secolo e consiste in una composizione polifonica, inizialmente a due o tre voci, che potevano anche essere sostituite da strumenti (esistono persino madrigali interamente strumentali). Il genere conobbe la sua massima fortuna nel Cinquecento, quando fu praticato da alcuni dei sommi musicisti dell’epoca, sia fiamminghi (Jacques Arcadelt, Philippe Verdelot, Cipriano de Rore, Orlando di Lasso) sia italiani (Luca Marenzio, Pierluigi da Palestrina, Gesualdo da Venosa, Andrea e Giovanni Gabrieli, Claudio Monteverdi).

Il madrigale è un genere aristocratico, nel quale l’interesse del compositore si concentra sul complesso intreccio delle voci, che vengono abilmente variate nel ritmo, nella tessitura e nei colori per ottenere effetti il più possibile vari e raffinati. I testi, quasi sempre d’argomento profano, perlopiù amoroso, sono spesso tratti dal canone letterario, da Petrarca a Torquato Tasso.

I compositori ponevano una particolare cura perché la musica riflettesse fedelmente il contenuto poetico, arrivando a vertici di virtuosismo rappresentativo: ad esempio facendo salire la melodia in corrispondenza della parola “cielo”, o utilizzando due note nere accostate per la parola “occhi”. Sono i cosiddetti “madrigalismi”.

Quello che vi presento oggi è Zefiro torna e di soavi accenti, un madrigale del 1632, composto dal sommo Claudio Monteverdi su parole di Ottavio Rinuccini (1562-1621).

La poesia è un sonetto, di stretta ispirazione petrarchesca (il modello è RVF CCCX: Zephiro torna, e ‘l bel tempo rimena). Come nell’originale, anche qui la prima parte (le quartine e la prima terzina) descrivono il ritorno della bella stagione, mentre l’ultima strofa introduce, per contrasto, la tristezza del poeta abbandonato dalla donna amata.

Ecco il testo di Rinuccini:

Zefiro torna e di soavi accenti
l’aer fa grato e ‘l piè discioglie a l’onde
e, mormorando tra le verdi fronde,
fa danzar al bel suon su ‘l prato i fiori.

Inghirlandato il crin Fillide e Clori
note temprando lor care e gioconde;
e da monti e da valli ime e profonde
raddoppian l’armonia gli antri canori.

Sorge più vaga in ciel l’aurora, e’l sole
sparge più luci d’or; più puro argento
fregia di Teti il bel ceruleo manto.

Sol io, per selve abbandonate e sole,
l’ardor di due begli occhi e’l mio tormento,
come vuol mia ventura, hor piango hor canto.

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La composizione è basata su due voci da tenore, che per gran parte del brano si rispondono e intrecciano gioiosamente, sorrette da un basso ostinato strumentale, ripetuto sempre identico (è quella che in termini tecnici si chiama una passacaglia). Da notare come, in corrispondenza del verso “raddoppian l’armonia gli antri canori”, le voci si echeggino l’un l’altra, a mimare l’effetto dell’eco nelle grotte. L’ipnotico andamento si interrompe solo in corrispondenza dell’ultima terzina, dove la musica assume una tonalità più intensa e patetica, ricca di dissonanti cromatismi.

È un bellissimo esempio della seconda pratica, ossia dello stile maturo di Monteverdi, che si è ormai liberato dall’austerità del madrigale cinquecentesco per adottare uno stile più vario, che già prelude decisamente al Barocco.

A titolo di confronto, si può ascoltare un madrigale sempre di Monteverdi, scritto vent’anni prima sul testo originale di Petrarca. Qui, lo stile è ancora legato al fitto e rigoroso intreccio di voci tipico del madrigale cinquecentesco e primo-seicentesco.

Ecco il testo, e di seguito la musica:

Zephiro torna, e ‘l bel tempo rimena,
e i fiori et l’erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne et pianger Philomena,
et primavera candida et vermiglia.

Ridono i prati, e ‘l ciel si rasserena;
Giove s’allegra di mirar sua figlia;
l’aria et l’acqua et la terra è d’amor piena;
ogni animal d’amar si riconsiglia.

Ma per me, lasso, tornano i piú gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;

et cantar augelletti, et fiorir piagge,
e ‘n belle donne honeste atti soavi
sono un deserto, et fere aspre et selvagge.

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Vi propongo anche una bellissima versione di Luca Marenzio (1554-1599), basata sempre sul testo petrarchesco, e una variazione sul tema di Bartolomeo Tromboncino (1470-1535), in forma di “frottola” per voce e liuto.

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Buon ascolto.

Sergio Pasquandrea

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