T9. LE PAROLE INCOMPLETE- Milena Nicolini e Paolo Gera sul sonetto proemiale di Francesco Petrarca.

gyorgy kepes

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Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

 

 

Milena:-Il sonetto proemiale del Canzoniere di Petrarca è interessante per ragioni che anche oggi coinvolgono la poesia e i poeti. Petrarca, proprio qui, nel sonetto proemiale, continua a rivolgersi ai lettori come se fossero presenti alla sua voce: “Voi ch’ascoltate”. Ma il sonetto (circa del 1350, dopo la seconda redazione del Canzoniere) è – decisamente una delle prime volte –  un’introduzione a tutto quanto segue, che è un libro, che è stato scritto, che sarà letto. In distanza di tempo, spazio, affinità elettive. E proprio la finzione del colloquio diretto col lettore è la prova di una nuova consapevolezza autoriale. Perché ciò che cerca è un nuovo tipo di intimità col lettore che favorisca non tanto il perdono o il compatimento della colpa, ma la complicità con emozioni ed esperienze interiori che non ha affatto né rinnegato, né cancellato.

Paolo:-Non so. Ma a che gioco sta giocando Petrarca? Si rivolge ai suoi lettori come fossero una giuria di catechisti, esperti delle dinamiche erotiche di una coscienza, solo per avvisarne dei pericoli e condannare il comportamento del soggetto caduto in errore. Qui ci sono due codici che agiscono: quello della poesia delegata a indagare tormenti, inquietudini, zone oscure dell’io e quello della morale religiosa del tempo che condanna senza appello le derive di un’anima. È come se Petrarca si autoaccusasse e chiedesse clemenza davanti al tribunale dell’Inquisizione e i Torquemada schierati sono il suo pubblico! Cinquecento anni dopo, nel componimento iniziale de “Les fleurs du mal”, “Au lecteur”, Charles Baudelaire, a secolarizzazione ormai avviata, annullerà completamente le distanze: “Hypocrite lecteur – mon semblable – mon frère!”. Ma nel sonetto proemiale l’ipocrisia è ben maggiore! Che bei tempi, quelli della cristianità! Si viveva intensamente, per usare un eufemismo, e poi ci si si pentiva! Come si gustava meglio il peccato! Sant’Agostino docet!

Milena:- La finzione è doppia, da autore a lettori e da lettori ad autore: non a caso lui, i lettori, li seleziona: solo “chi per prova intenda amore”, dice, può capire. Li associa al suo peccato, li fa complici – meno apertamente di Baudelaire, ma abbastanza chiaramente: perché è chiaro che del passato rimpiange l’effimero sparire, non il peccaminoso apparire (ahi!, dice alla fine, ciò che più ci piace- “al mondo” idest  io e voi lettori che state al gioco- dura così poco!). Loro, quelli che leggono, lo sanno. Allora sono o non sono complici? Allora, solo per il fatto di essere IN POESIA/ IN ARTE, passa tutto? Mica è solo questione di quei tempi, Paolo! Forse qui è nata– no, è solo diventata esibita, e consapevolmente esibita, la ‘falsità’ dell’arte. Che è incredibilmente anche ‘innocenza’ dell’arte o ‘neutralità’ dell’arte. ‘Aseità’ dell’arte. Così, oggi, il sottotesto (vero? falso? insignificante? essenziale?) di certi quadri di Balthus, le idee o le scelte di certi momenti di Pound, Ungaretti, Malaparte, ecc.ecc., non contano. Giustamente. Perché il contrario, il controllo etico dell’Autore, ha portato ad esperienze di tirannia estetica e politica terribili, come il realismo socialista o la condanna nazista dell’arte degenerata. Essendo che l’Etica non può essere definita inequivocabilmente senza cadere nel Potere che, come dice Louise Michel, è maledetto e non lascia altra via che l’anarchia.
Oppure no?

Paolo:- La falsità dell’arte, tu dici? Forse la menzogna in poesia è legata indissolubilmente al problema della forma. Non so, quando un poeta scrive si pone volente o nolente di fronte a dei modelli preesistenti che riguardano il ritmo, la metrica, le figure retoriche. Per esprimere quello che sento a volte basterebbe un urlo, ma io questa esigenza primale la devo educare e coltivare se devo presentarla ai miei lettori. Mi succede spesso di sentire come se le mie poesie fossero ‘bonsaizzate’. E siccome sto parlando di piante piccole e grandi vorrei ricordarti una pagina de “Il piccolo principe” di Saint-Exupéry. Di fronte alla richiesta pressante dell’ometto – ne andrebbe addirittura di mezzo la salvezza di tutti i bambini che viaggeranno ignari sugli asteroidi dell’universo – lo scrittore gli disegna un magnifico-terrificante baobab. “Per avvertire i miei amici di un pericolo che hanno sempre sfiorato, come me stesso, senza conoscerlo, ho tanto lavorato a questo disegno. La lezione che davo, giustificava la fatica. Voi mi domanderete forse: perché in questo libro non ci sono altri disegni altrettanto grandiosi come quello dei baobab? La risposta è molto semplice: ho cercato di farne uno, ma non ci sono riuscito. Quando ho disegnato i baobab ero animato dal sentimento dell’urgenza”. Ecco! Uno deve scrivere esclusivamente quando è animato dal “sentimento dell’urgenza”! Ma che urgenza c’è nel sonetto proemiale di Petrarca?
La sua urgenza è esclusivamente cerimoniale. È come quando sei andato giù un po’ pesante con una mail e subito, accorgendotene, ne mandi un’altra in cui ti giustifichi per gli argomenti affrontati e il tono troppo crudo. L’urgenza di Petrarca è da pronto soccorso, è un’urgenza da vigliacco e ti concedo la complicità dei lettori perché, in una società dai codici ristretti, tutti si è vigliacchi.

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gyorgy kepes

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Milena:- Parliamo di ‘sta urgenza, che mi risuona come lo spirto-spirans romantico dell’ispirazione. Che giustifica ogni azione dell’arte, in quanto viene ‘da fuori’/ ‘da dentro’ – non c’è differenza – ma praticamente estranea all’Autore. Lui, come i profeti e gli scrivani delle Sacre Scritture, è solo medium di bocca e penna per una voce ben più alta, universale, sacra, ecc. ecc. Quante parole ragionevoli abbiamo studiato e sviluppato noi, dopo!!!, noi soprattutto sessantottini variamente strutturalisti, formalisti, sperimentalisti ecc. ecc., per ban-dire l’irrazionale puro ed unico in arte che troppo lasciava e concedeva ad un extra-umano, un extra-terrestre, un extra-sociale indefinito, indefinibile, pericolosamente limitrofo di tutta la genìa dello spiritualismo, dell’onirico, e via via degradando nella pratica scrittoria, del surrealismo, del veggentismo, del soggettivismo, del lirismo… In tempi di ‘tutto è politico’ (lo so che dicevamo ‘la fantasia al potere’, ma pensavamo solo in termini di ‘potere con un po’ di fantasia’), tutto diventava oggettivo, anche il soggetto. Be’, voglio dire che invece, alla luce di ‘ste domande su Petrarca, mi viene da dire che forse sul serio c’è una menzogna in arte e poesia specialmente, perché – per fortuna, evidentemente – l’Autore non riesce a mettere nella sua opera il sé sociale, politico, personale più becero, con tutti i terrificanti limiti di ogni essere umano, ma – dici tu per il filtro dei ‘codici’, della ‘forma’, aggiungo io della ‘tradizione’ culturale (dai miti alla concezione del mondo) di un’entità corale-popolo o più in generale solo della specie umana – ma lo guida, lo spinge, lo inspira e lo espira dopo avergli respirato dentro,  qualcosa di più vasto di lui, più profondo, corale che salta anche le personali vedute o disvedute sue proprie, per fargli dire largo, dire vastamente a tanti-tutti… Ci ho tanto pensato, non mi è venuta in mente nessuna opera –che abbiamo, noi-coralità, giudicato arte (altro bel problemino che rimandiamo altrove) – la quale sia oggettivamente nefasta, portatrice di male ecc. ecc. pur se prodotto di un Autore, lui sì magari, nefasto, peccatore, maniaco, arrivista, ipocrita… Come se l’arte lo ‘saltasse’, lo usasse soltanto per dire cose COMUNQUE positive. Questo sonetto è bellissimo. Perché salta la corte inquisitoria e va dentro al bene che c’è, davvero, sotto la dicitura ‘peccato’ del suo tempo, nell’amore. Nonostante Petrarca. Kant diceva che abbiamo un imperativo categorico al giusto, ma vuoto. Eppure capace di darci moralità, sostanzialmente se siamo capaci di riempirlo col farci coralità, specie, tutti. Anche dal fondo di un soggettivissimo, più o meno chiuso, più o meno inconscio, io. Milena dixit e su questo non altro più.   

Paolo:- In chiusura e in sintesi, tu Milena dici che Petrarca in questo sonetto riesce a trascendere, forse senza neppure volerlo, il suo io poetico per arrivare a coinvolgere attraverso il suo messaggio la coralità dei lettori che si riconoscono nella realtà dell’amore, al di là delle convenzioni e delle proibizioni del suo tempo; io invece di questa poesia critico la sua postdatazione, la sua natura posticcia, la sua posizione strategica. Il sonetto proemiale è un figlio morganatico ed è stato invece imposto come primogenito del “Canzoniere”, in un gioco artefatto di giustificazione morale, tartufesca e codina. La questione è apertissima. Di Petrarca trovo straordinario un altro sonetto che attraverso la lavorazione finissima di una serie impressionante di figure retoriche – spiccano le antitesi e gli ossimori – riesce a dare ragione di una condizione umana mitica e dunque ancora attualissima. Sto parlando di “Pace non trovo e non ò da far guerra”. Qui necessità e strategia formale contraggono uno straordinario patto poetico. Altra questione che tu poni è quella della mancanza di nocività nell’opera di un autore che invece è già in partenza nefasto, ipocrita, arrivista. È una posizione idealista che non condivido per nulla e ti potrei citare valanghe di titoli che l’industria dello spaccio librario fa circolare tra adulti e giovani lettori solo per avere i più altri riscontri economici. Ma immagino che tu non intendessi come arte opere quali “Il codice Da Vinci” o “50 sfumature di grigio”.  Il gioco in questo caso è conoscere in anticipo i gusti di chi ascolta in righe fitte il suono e tenergli i testicoli in una morsa di ferro, facendogli credere invece di stare godendo. Scusa l’utilizzo di questa metafora sadicamente maschilista. Nel mondo di Big Brother si proibiva l’uso di quaderni vuoti, da riempire di libera scrittura, mentre erano imposti quelli già controllati e predisposti dal potere costituito, per controllare il pensiero degli individui e massificarlo. Ždanov non è morto, anzi si è moltiplicato, ha il volto simpatico e gli abiti alla moda dei tanti editors sparsi per il mondo.

 

Paolo Gera

N.B. – Chi vuole intervenire può farlo utilizzando lo spazio dei commenti. Per il prossimo numero di T9 aspetto nuove proposte di testi su cui appassionarsi e discutere.

 

11 Comments

  1. Tra le due posizioni estreme di lettura c’è l’eco diplomatica del sonetto, che ha funzione introduttiva, come l’incipit in un discorso di corte. Per questo è spesso considerato scadente, ma il verso finale è potente e basta a elevarlo in alto, oltre per quanto detto da Milena.

  2. Be’, caro Paolo, le ‘robette’ che porti ad esempio di una vastissima produzione bestselleriana , più che proposta, imposta alla lettura oggi, proprio non c’entrano con l’idea di Opera e di Autore a cui si faceva riferimento. No, si aveva in mente persone magari un po’ grige, un po’ matte, un po’ ambigue, un po’ reazionarie (ma oggi pare non essere un disvalore) nella loro vita, come – che so – Salinger, Borges, de Sade… E’ la prima volta che ci penso e non credo sia idealismo: tra quanto il tempo (tendo a fidarmi di un filtro come il tempo che ‘salta’ alla lunga ideologie e altro – vero che si perde molto dei ‘vinti’ – così che certe condanne o promozioni del contingente diventano nulla nel risultato a posteriori) ci ha consacrato come Opera d’Arte, quasi niente o niente è davvero inquietante per motivi etici. Perché? Anche i quadri di Balthus, che mi fanno stare davvero male. Sul sonetto proemiale di Petrarca, scritto dopo tutta l’opera, c’è da pensare. Certe questioni, te le poni in corso d’opera o alla fine, quando la licenzi per gli Altri? Mi chiedo sul serio cosa si aspettava da questo sonetto, luilui, cosa voleva davvero, cosa temeva o non temeva. Sarebbe bello che qualcun altro si intermettesse tra noi e ci togliesse dall’impasse di questo approdo poco – davvero- terrafermato. O stiamo cincischiando con bazzecole? O in realtà in questo universo T9 esistiamo solo in due o tre?!!!!!! Aiuto!

  3. Voi ch’ascoltate
    in rime
    sparse il suono
    di quei
    sospiri
    ond’io
    nudriva ’l core
    in sul mio primo
    giovenile errore
    quand’era in parte altr’uom
    da quel ch’i’ sono,

    del vario stile
    in ch’io
    piango et ragiono
    fra le vane speranze e ’l van dolore,
    ove sia chi
    per prova
    intenda amore,
    spero
    trovar pietà, nonché perdono.

    Ma ben veggio
    or sì
    come al popol tutto
    favola fui
    gran tempo,
    onde
    sovente di me medesmo
    meco mi vergogno;

    et del mio vaneggiar
    vergogna è
    ’l frutto, e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
    che quanto piace al mondo è
    breve sogno.

    Non è eco, piuttosto un tratturo dove mi permetto, dal basso dove sto senza dubbio, nel mio corsivo ri-tratteggiare il passo di un uomo che sa bene, almeno a me così pare, che chi lo leggerà è volubile e ascolta come folate, o onde le voci che qui dentro, tra le rime si fa riva di un tempo passato il cui suono ha sparso in rime il suono, profondo in chi l’ha udito, sentito per primo, e di cui si è nutrito come solo i giovani sanno fare, anche se poi può sembrare un errore. Ma chi è lo stesso uomo, in tutte le età che servono per fare di ciascuno un essere umano e al tempo stesso alieno a quel se stesso mai medesimo? Favola siamo noi tutti davanti a chi ascolta le onde, le stesse, onde per cui chi le descrive nacque in sé e progredì, potendo poi tornare a quell’istante, in ascolto profondo, comprendendo il mutamento e comprendendo che quel segno fattosi frutto sarà sentito semplice-mente un breve sogno mentre è terra fertile e la vergogna che F. sente forse è la vera gogna a cui lui sottopone sé a se stesso.
    E credo che questo accada sempre perché di desiderio e paura ci nutriamo, tutti, ancora, mentre vane sono le speranze e il vano dolore.

    Grazie per questa T9 e…sempre la notte schizza il suo inchiostro!
    f.f.

  4. A me il sonetto proemiale del Petrarca ha sempre affascinato: non lo trovo affatto posticcio e falso, invece credo sia una consapevole arresa all’umanità, alla fragilità della condizione umana, al fatto che nonostante “’l conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno” per lui, come per tutti noi, vale la pena vivere solamente per quel breve sogno: il sonetto proemiale è una dichiarazione quanto più vera del fatto che il cammino verso la piena redenzione è impossibile; la santità per chi ama il mondo è ben lungi dal venire. Pertanto si rivolge chi PER PROVA INTENDA AMORE, colore che come lui hanno provato il Furor amoroso che può portare a commettere atti contro la salvezza dell’anima, ma che in fondo sono gli unici per cui vale la pena di vivere. Egli al termine della propria vita, proprio a proemio della raccolta poetica in cui raccoglie tutti i momenti della sua vita amorosa e peccaminosa e che vorrebbe essere il suo percorso personale verso la redenzione, confessa il fallimento di questo percorso: scrive infatti nella prima terzina: ” Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono /di quei sospiri ond’io nudriva ’l core / in sul mio primo giovenile errore / quand’era IN PARTE altr’uom da quel ch’i’ sono”: iIN PARTE: non è dunque cambiato IN TOTO, è ancora il peccatore che era da giovane, non è possibile accedere alla purificazione completa, nonostante tutta la vergogna e il pentimento che confessa avere provato, non è possibile né per lui, né per noi, finché si è in questo mondo. A riprova di ciò, egli chiede “pietà, nonché perdono”, non tanto del suo “giovenil errore”, ma letteralmente, dal punto di vista sintattico, chiede perdono “del vario stile in ch’io piango et ragiono”: a senso tutti attribuiscono la richiesta di pietà per gli errori commessi, di fatto egli dichiara lo stile rivoluzionario che utilizza e chiede apertura e comprensione a un pubblico a cui sta per presentare la sua UNICA opera in volgare: Petrarca infatti credeva che avrebbe avuto gloria per le sue opere in latino, non per il De rerum vulgarium fragmenta, ossia il Canzoniere, scritto più che altro per sé.

  5. Bello! Contento che si sia aperto un piccolo dibattito! Vorrei scrivere qualche considerazione su ogni singolo intervento. Sono d’accordo con Michele sulla potenza dell’ultimo verso anche se non so se un verso in generale può riscattare una poesia nata storta. Non sto parlando del caso particolare del sonetto, ma in senso generale. Oggi, dopo aver passato intere generazioni di sperimentalismo,la poesia è uno sviluppo di parole in cui non mi pare possibile separare una parte dall’altra. Eppure…”che quanto piace al mondo è breve sogno” mi pare di un’attualità sconvolgente, ma la mia interpretazione è del tutto arbitraria proprio perché stacco il verso dal contesto e ne do una versione contemporanea. In questa epoca di comunicazione veloce, di testi-uccelli che non hanno il tempo di fermarsi su uno schermo e subito volano via, di fama misurata a minuti, veramente “quanto piace al mondo è breve sogno”.
    A Milena dico che certe questioni a mio parere te le poni in corso d’opera, si sviluppano insieme alla tua scrittura e al tuo pensiero. Come sosteneva Sanguineti e già qualche altro prima di lui, il linguaggio è già ideologia e non ha bisogno di chiose finali. Anche se a mente fredda, riprendi in mano la tua opera e magari ti sorprendi e ci vedi un senso del tutto diverso da quanto ti aspettavi.
    Fernanda infatti sottolinea la mutevolezza dell’essere umano, nella maniera che le è propria – un intrecciarsi sotterraneo e prezioso di parole suoni, uno scoprire continue analogie di passaggio tra la scrittura e la natura. Lucrezianamente tutto terribilmente si trasforma. Mi interessa molto come tu abbia mostrato il buio presente sotto la luce meridiana dei versi petrarcheschi. E quando scrivi F puntato, ti riferisci a Francesco o a te stessa?’ Lettore, autore o semplicemente essere umano ondeggiante?
    Alla sottile interpretazione dii Emanuela, risponderò in un secondo tempo, perché questo controcommento mi sembra già abbastanza lungo.

  6. Credo, Emanuela, che tu abbia colto una cosa importantissima: non solo della vicenda biografica si preoccupa Petrarca, ma essenzialmente del nuovo modo e stile e lingua in cui la esprime, proprio per le ragioni che tu dici (la priorità del latino ecc.). E qui è sincerissimo, perché davvero lui inseguiva fama e onori artistici. Penso comunque che abbia anche qualche preoccupazione etica. Abilmente aggirata per le tortuosità del rimpallo io- voi.

  7. Caro Paolo,
    rispondo al tuo allettante invito, che si annuncia subito con una scintilla, una gentile provocazione:
    bellezza o… importanza o… influenza o… che mi sembra molto umana, tenendo conto che abbiamo due
    gambe, due braccia, due occhi, e così via anche con qualcosa che non appare. Temo ci sia di mezzo
    l’effetto ottico, fino alle sue implicazioni biochimiche. Ma già nelle note coppie, tanto note quanto
    sconosciute, c’è un’identità limitata alla loro immagine speculare. Noi comunque siamo affezionati alle
    opposizioni, alle esclusioni, o inclusioni, a partire da un taglio, da una frattura. Sento il bisogno di cercare
    da un’altra parte. Effetto della vecchiaia, che ravviva i ricordi fisici, cosali, e li misura con la memoria
    riconciliata di un paesaggio scolastico già più volte disfatto e ricomposto entro sinopie musicali.
    Bisogna seguire monsignor Francesco di ser Petracco nel suo peregrinare per l’Europa, lontana dalla
    confusionaria UE, alla ricerca di che vivere: i libri, certo, anzi la libridine, che si portava dovunque
    quando in guardati cofani quando in più capaci bauli; e, beh, le laute ricompense, con cui talvolta
    sovveniva il più sfortunato amico Giovanni, che gli permettevano un agio consono alla sua condizione di
    chierico in vista. Voglio dire che zoppicava parecchio (il calcio d’un cavallo o una caduta dal medesimo,
    non ricordo) tra i suoi ospiti illustri e il suo buen retiro. Qui aveva andamento di casa, con orto, che
    curava personalmente, affidato in sua assenza alla servitù, animali che amava e coccolava (fu molto
    contrariato e addolorato per un’uccisione decisa dal famiglio per risparmio). Non di rado accudiva alla
    cucina, compiacendosene con gli ospiti. Sto divagando? Certo, mi trovo immerso nell’influenza
    petrarchista, che dura nei secoli sotto lo sguardo arguto di Zanzotto.
    Non voglio tediarti ma, pensaci, questo genio aretino ha vissuto settant’anni di buona salute, se non
    andiamo per il sottile, se li è guadagnati, se li è goduti, grazie a un fisico e a uno spirito eccezionali.
    Riguarda la sua poesia? Solo nel senso della “traspirazione” di Eco: Leopardi era deboluccio e ben in
    grado di sorreggere i macigni della sua opera. Direi che Petrarca era un macigno e ha eretto un
    monumento aere perennius, lo ha “imposto”, vivaddio, che si libra nell’aria. Le loro ragioni si perdono
    nelle radici.
    Dopo aver preso un po’ d’aria, torno alle opposizioni. Non le vedo più: le “o” sono state sostituite con le
    “e”. Troppo facile? Sì, ma perché no? Niente che non sia noto. Francesco voleva tutto quello che voleva
    anche don Francesco e viceversa: troppo bello, interessante, importante, indispensabile, allettante, pieno
    di scoperta, pieno d’avvenire..
    Il sonetto proemiale è paragonabile al primo canto della Commedia. Ci si perde nella selva, ma no: arriva
    la poesia a salvarti, la cosa più inconsistente; la bella donna, la Francesca e la mistica Rosa. peccare e
    esserne liberati. Come godere dell’agognato frutto altrimenti? Questa è la domanda-locomotiva che traina
    vagoni d’altre domande.
    A proposito, lo sai, no? C’è una forte interpretazione del Canzoniere (non ricordo l’autore,
    abbi pazienza) come criptoemulazione della Commedia. C’è tutto: Inferno, Purgatorio, Paradiso,
    coincidenze, rispondenze, numeri, piano generale e sue parti ecc.
    Ma naturalmente scrivere il proemio del libro catalogato Rerum vulgarium fragmenta
    per uno che si aspettava la corona dall’Africa (ma dai, sapeva di aver fatto il botto col Canzoniere
    cesellato fino alla fine) non dev’essere stato facile. A cose fatte una certa malinconia, sentimento del nulla
    e immegini d’antichi amori sul fondo, si capisce, e quella cena parca e genuina goduta in intimità con
    amici, e quella elegante in abiti condecenti tra i grandi… Una domanda io: come stiamo a strumenti critici
    per queste prelibatezze in epoca di fast food?

  8. Emanuela, io credo che quel “quand’era in parte altr’uom da quel ch’i sono”, non stia a sottolineare una condizione ancora presente, ma una attitudine del passato da cui si sia infine distaccato. La buona predisposizione d’animo la possedeva già sin da giovane, ma è stata traviata da pratiche secolari. Quello che di positivo ha raggiunto oggi era ‘in parte’ già nell’altro uomo di ieri, che faticosamente stava intraprendendo il suo percorso di rinascita spirituale. E’ una visione romantica sostenere che invece possa ancora provare da uomo maturo pulsioni che ritiene del tutto superate.

  9. Luigi scrive di parca mensa ed è invece un grande gourmet. Immagino una ricca tavola imbandita sotto una pergola su cui spira il venticello padovano euganeo, che alimenta sia la poesia di Petrarca che quella di Zanzotto che quella di Bressan. Luigi ha scritto una bellissima raccolta di poesie dal titolo “Quetzalcoatl”, in cui le creature dell’aria, i volatili, oppongono il loro stile alle delle attività umane, da cui purtroppo a volte sono impaniati. Io sono uomo di opposizioni e infatti il mio sonetto preferito è “ Pace non trovo e non ò da far guerra”, Luigi tesse ed unisce. Ad esempio, nel suo commento, è bravissimo a congiungere le vicende del poeta, alla sua costituzione arborea, al suo vario stile. E’ vero, l’uomo di grande animo non si accontenta e vuole tutto. Il De Africa e il Canzoniere. Come cogliere l’agognato frutto? Petrarca lo gusta e lo divora e poi è subito pronto a lanciare il nocciolo verso l’orizzonte della redenzione. D’altra parte scrivere di sesso in modo spiccio era impossibile per la poesia di allora, occorreva rientrare in un modello parodico, comico-realistico, oppure si abbandonava le vette della poesia e ci si inoltrava nelle pianura prosaica della novella. Petrarca è ancora pienamente influenzato dalla lezione dello Stilnovismo in cui per la prima volta la donna non era più considerata oggetto sessuale, ma ottimizzatrice degli impulsi del ‘mascolo’ e sua guida spirituale. Solo nel gioco poetico ovviamente, ma chi ci dice che alla fine quella poesia non abbia fornito modelli di comportamento meno barbari per la società comune? Mi è piaciuto molto che tu abbia messo insieme come una comitiva di amici Francesco, Giovanni e Dante. Nel gioco psicologico del lettore è impossibile limitarsi al dato di fatto delle opere, abbiamo bisogno di uno spazio biografico in cui possa scatenarsi un processo di riconoscibilità e poi di emulazione. In fondo anche in letteratura siamo ancora dei piccoli fans! Subito i gesti di un piccolo uomo diventano le gesta di un eroe e noi andiamo alla ricerca di tensioni aneddotiche in cui riconoscerci, in percorsi di vita su cui calcare le orme e prendere lo slancio. Il senso profondo che troviamo in una poesia, lo vorremmo ricevere anche da una storia esistenziale compiuta. Magari non è così, ma ci caschiamo sempre.Riguardo agli strumenti critici in tempi di fast food…beh, il dibattito che si è sviluppato sul sonetto proemiale non avrà l’acribia di un’analisi filologica accurata, ma ha dato segno di notevole appetito di lettura e interpretazione. In fondo invece di sedermi alla FRANCESCana, preferisco mangiare e discutere in una buona osteria lungo gli itinerari di Giovanni o anche in nuovo locale di contaminazione gastronomica in cui potrebbe trovarsi bene il vecchio attualissimo Dante.

  10. Ci ho pensato tanto, prima di tornare a dire qualcosa, dopo questi gran pilastri critici. Mi si perdoni, mi premeva quest’aggiunta, invero un po’ a latere. La stagione della cortesia finì presto e cominciò ad affermarsi una diversa immagine di donna, da temere: doppia, dicotomica, divisa tra benefica e malefica. Da una parte la femmina sensuale, con un corpo meraviglioso tentatore e demoniaco, un po’ strega e un po’ puttana, comunque fascinosa e desiderata; dall’altra la purissima, eterea, intoccabile, astratta, virginale donna degna del Cielo, simile ad angeli, destinata alla santificazione nel ruolo di donna-sposa-e-madre. Forse la prima grande DIVISAINDUE della letteratura è la Laura di Petrarca (Laura e l’aura), arrivando poi all’Angelica dell’Ariosto, fino alla Teresa dell’Ortis foscoliano, alle streghe della fantasia gotico-romantica e alle creature diafane dell’immaginario liberty, e alle tante angeliche diavolesse del nostro attuale cinema e panorama artistico. Una donna che fa paura anche quando affascina, perché sotto sotto E’ COLPA SUA. Da ammazzare ogni giorno.

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