festival carta carbone – treviso 2017
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Nel Festival Carta Carbone, giunto alla sua quarta edizione, Bruna Graziani, la sua direttrice artistica, ha mosso migliaia di lettori e scrittori nei punti più belli di Treviso, dando vita, con le sue collaboratrici e volontari, ad una vera e propria festa per la letteratura con danze, musica, cibo e vino, oltre a incontri interessanti di riflessione artistica. In un convegno, il 14 ottobre 2017, nella Sala dei Trecento ci si è interrogati sulla attività letteraria di Giuseppe Berto ne: Il Cielo è rosso e Il male oscuro. Nel mese di gennaio abbiamo esplorato la grandezza dello scrittore ne Il male oscuro, romanzo della maturità artistica con la scrittrice Elisabetta Baldisserotto.
Questa volta esploriamo il romanzo d’esordio, scritto a trentadue anni, nel campo di prigionia di Hereford, in Texas, Il cielo è rosso, concluso dall’autore nel 1946.
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copertina del romanzo (prima edizione 1949)
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Molto probabilmente, l’idea del romanzo era nata quando, con le dita aggrappate al reticolato della sua prigione, Giuseppe Berto scambiando alcune battute con due militari italiani, dall’altra parte del campo, aveva saputo, che Treviso, in un bombardamento, era stata completamente distrutta. Nella condizione di prigioniero aveva avuto modo di riflettere sulla sua militanza politica, sull’aver dato consensi al fascismo e viveva un senso di colpa profonda, senza sapere cosa stesse avvenendo in Italia e come si stesse organizzando la Resistenza. Non conosceva il modo in cui si reagiva alla sconfitta. Così in quell’internamento, che era seguito al suo arresto da parte degli americani in Nord- Africa, racconta la vita allo sbando di quattro giovani, Carla e Tullio, Daniele e Giulia, rimasti senza casa e senza affetti, dopo il bombardamento e l’incendio del quartiere Sant’Agnese, in cui vivevano a Treviso, abitato da poveri e straccioni, prostitute e ladruncoli. I quattro giovani si arrangiano, e cercano di sopravvivere nella zona dei morti. E tutto sembra possibile, soprattutto con l’amore che cresce tra i ragazzi. Ma nell’ultimo capitolo trionfa il male, anticipato già nelle pagine iniziali:
“E non era solo per la miseria e la fame, e per l’odio e le vendette e la paura, che non potevamo più essere gli stessi di prima. Non sapevano bene neanche loro la ragione per cui si sentivano sempre stanchi e cupi nel fondo, e scontenti di sé e di vivere. Forse quella parte del male universale che era loro toccata si era accumulata dentro di loro, e restava senza poter più andarsene. Forse era la certezza di aver perduto per sempre cose di tutta la gente, che avevano trascurato prima. Si erano smarriti nella grande guerra, e non riuscivano più a ritrovarsi.”
Non a caso il titolo del romanzo era La perduta gente: che uno dei collaboratori della casa editrice Longanesi mutò in Il cielo è rosso, aprendo a caso la Bibbia. Un titolo che piacque moltissimo all’autore e che si appoggia a una citazione evangelica molto aspra e penetrante:
“Di sera voi dite: Tempo bello, perché il cielo è rosso; al mattino, poi: Oggi tempesta, perché il cielo è rosso cupo. Ipocriti! Voi sapete distinguere l’aspetto del cielo e non sapete conoscere i segni dei tempi! Una generazione malvagia e adulta domanda un segno, ma non le sarà sdato altro segno che quello di Giona”. MATTEO, XVI, 2, 4
Nel sito Anobi il romanzo ha collezionato quarantaquattro recensioni, che oscillano dalle quattro alle cinque stelle. Quindi un romanzo amato nonostante la sua tragicità. Ci aiuta nel percorso di esplorazione la scrittrice Saveria Chemotti, che nel convegno del 14 ottobre 2017, ha esaminato il romanzo, nella sua duplice veste di scrittrice e studiosa del 900 letterario italiano.
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copertina del romanzo – longanesi 1965, rizzoli 1972, rizzoli 1974, superbur 1994
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- Il cielo è rosso, che dal 1947 ha avuto diverse edizioni fino all’ultima del 2014, continua ad essere letto con molto entusiasmo. Qual è il motivo?
Berto costruisce un affresco corale dove identifica la rabbia e l’esasperazione per una guerra disastrosa e per una generazione perduta di adolescenti: i ragazzi si sono spesso identificati in questo libro. Ma i motivi sono anche legati alla sua matrice biblica e a una scrittura che evoca lo smarrimento, la sconfitta, il male di vivere su uno sfondo di macerie e di cadaveri in cui si muove la gente disgraziata più volte citata nel testo. Una singolare cecità del corpo e dell’anima sembra pervadere i personaggi protagonisti che non a caso spesso chiudono gli occhi per non vedere il cielo che si chiude impenetrabile allo sguardo impedendo ogni ipotesi su un futuro possibile: «Quasi tutti avevano gli occhi chiusi e un’espressione assente o sottomessa sul volto.» In questo deserto di rovine l’io narrante si interroga sull’uomo, al di qua e al di là della storia: così in una sorta di crocevia si incontrano e si intersecano i destini di quattro ragazzi, Carla, Tullio, Giulia e Daniela, costretti dalle circostanze a crescere più in fretta per restaurare un mondo sgretolato e svuotato dal dolore e dall’inappartenenza. Due sono i temi portanti del romanzo, l’esigenza di una giustizia sociale, incarnata da Tullio il ragazzo di origine popolare, contrabbandiere, ma generoso e idealista e il messaggio cristiano inteso in senso evangelico di cui si fa portavoce Daniele, la voce del narratore, anzi una specie di alter-ego. Un messaggio anch’esso impastato di solidarietà e pietà per il dolore degli uomini. Il suicidio di Daniele è pregno di disperazione e di speranza e i suoi gesti finali sottolineano l’intenzione di offrirsi in sacrificio per trasmettere agli altri il senso della sua esperienza.
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locandina e manifesti del film- 1950
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Il cielo è rosso è un susseguirsi di scene, che potrebbero far pensare ad una scrittura cinematografica, ma anche questa definizione non dà contezza della grandezza di Giuseppe Berto. Lui ebbe modo di distinguere la narrazione filmica da quella romanzesca, affermando che: “Il romanzo è un racconto che si concretizza in un mondo, il film è un mondo che si organizza in un racconto.” Ci aiuti a capire meglio.
Berto arriva al cinema attraverso i racconti, proprio grazie al ritmo cinematografico della sua scrittura che colpì Leopoldo Trieste, il famoso caratterista prediletto da Fellini, che gli offrì di collaborare a una sceneggiatura. La carriera di Berto si sviluppò quindi sotto il segno di una specie di schizofrenia, sei mesi scriveva sceneggiature, gli altri sei scrive per sé e di sé. Confesserà: «Un mestiere “vile” per campare e uno nobile per realizzarsi: cinema e letteratura.»
L’attività di recensore e di sceneggiatore cinematografico copre un intero delicato passaggio esistenziale e creativo alla fine degli anni Cinquanta, permettendogli di continuare il suo esercizio di scrittura appoggiandolo alla forma dell’articolo giornalistico, senza per questo disperdere la sua predisposizione al racconto, semmai incanalandola e vivificandola in una nuova dimensione.
Ma non si può certo affermare che egli si svesta completamente degli abiti del narratore per indossare quelli del critico di settore: il critico e il giornalista si mescolano di continuo con lo scrittore in forma eccentrica rispetto ad altri interpreti di quel periodo.
Il suo intuito nei confronti dello specifico filmico, si esprime sempre attraverso uno sguardo curioso e inconsueto che non rinuncia mai ai riflessi della sua esperienza di narratore. Anzi, nei suoi interventi lo statuto dei film è la storia: la parte preminente è riservata al resoconto particolareggiato, sequenza dopo sequenza, della trama del film, che occupa fino al 70-80 % del pezzo, al «trattamento degli elementi della fabula», e così la recensione diventa anche un singolare e vivido racconto breve. Permane la sua identità di affabulatore.
Giuseppe Berto rifiuta l’etichetta di scrittore neorealista ed afferma che lui ha un inconsapevole approccio neorealista. Come può rendere visibile al lettore questa distinzione?
Il suo neorealismo nasce più dalla riflessione che dall’azione. In questo romanzo, che è un romanzo d’esilio, cioè scritto in una condizione di isolamento, realtà, memoria e immaginazione si contemperano e anche il dato storico viene riprodotto in una dimensione simbolica, più mitica che realistica. Del resto lo stesso neorealismo è diventato spesso un’etichetta storiografica più che una scuola, un fenomeno che nasce sulla spinta dell’esperienza diretta e che non ha canoni propri. Berto era in America, non poteva conoscere un fenomeno che è esploso a ridosso dell’esperienza testimoniale della guerra e della Resistenza, ma che affonda i suoi sintomi addirittura negli anni Trenta. Come affermerà rispondendo a un’intervista rilasciata a Cibotto, «La condizione di prigioniero, tristissima in sé, esalta la capacità emotiva dell’individuo.» Ecco questa capacità emotiva mi pare la cifra caratterizzante di questo libro, ma anche di tutta la produzione narrativa di Berto, il suo originale punto di vista. Alla fine il cosiddetto neorealismo in lui diviene metafisico, una inconsapevole affinità, disancorata dai limiti della contingenza collettiva.
Giuseppe Berto è uno scrittore che la critica ha rivalutato negli ultimi decenni. È cosi?
Nella sua opera postuma, La Gloria, il personaggio di Cristo a un certo punto prorompe: «Del resto in nessun posto un profeta è tanto disprezzato come nel suo paese, fra i suoi parenti e in casa sua.» Un’affermazione che ben si attaglia alla rimozione letteraria che la sua opera ha subito per decenni, ma non solo la sua. In particolare a suo sfavore giocò un certo ostracismo ideologico, (non gli fu mai perdonata la sua militanza fascista) che si trasformò in una simulata indifferenza spesso condita con inimicizia, nonostante persino Hemingway, intervistato da Montale nel 1954, lo avesse citato tra quelli che lui riteneva i maggiori romanzieri italiani. Berto non è mai passato attraverso i punti chiavi della storia letteraria del dopoguerra. Ha scavato nella sua esperienza personale, autentica, evitando di aderire a mode o a scuole. Anche per questo Il cielo è rosso e Il male oscuro hanno avuto un notevole successo di critica e tutte le sue opere sono tradotte con notevole riscontro in molti paesi.
Nella poetica di Giuseppe Berto si possono cogliere elementi di vicinanza con quella manzoniana, soprattutto nello scandagliare l’animo umano. Le pare avventata questa affermazione?
Mi pare un paragone azzardato. Manzoni ha un progetto legato alla salvezza dei suoi protagonisti. Berto affronta la voragine, la disperazione, l’isolamento. È lo smarrimento la linfa vitale che permea Il cielo è rosso e le altre sue opere. Senza tacere del senso di colpa che sfocerà nella nevrosi vivisezionata del Male oscuro. Berto è capace di interiorizzare un momento diffuso di disperazione a partire dal suo isolamento reale e simbolico, traducendolo con parole che sorprendono per la loro preveggenza rispetto alla coralità storica della narrativa di quegli anni. In qualche modo anticipa i tempi, coglie i sintomi dell’angoscia esistenziale che si esprimerà negli anni Sessanta, in letteratura e nel cinema dell’alienazione e ne paga lo scotto.
Quali sono le caratteristiche dello stile dello scrittore? Se ne può parlare in maniera generale o ogni romanzo presenta differenti scelte?
Sintetizzerei con estrema semplicità della forma, semplicità di scrittura, profondità di indagine e pathos. La coerenza e la franchezza della pagina sono la sua cifra di scrittore che ricerca in romanzi ogni volta diversi la fedeltà all’uomo, alle sue paure inconfessabili, alla verità nuda e spoglia di retorica. Difficile parlarne in termini generali: ogni opera ha una sua preponderante originalità strutturale e stilistica. Del resto lo stesso Berto nella premessa alla ristampa de Le opere di Dio (1965-66) intitolata non a caso L’inconsapevole approccio traccia con sottile ironia un itinerario speciale della sua storia fin qui, distinguendo tre fasi. La prima, il neorealismo di riflesso per esprimere il momento della disperazione (con Il cielo è rosso e Le opere di Dio), la seconda quella della speranza e dell’esodo neorealistico (Il Brigante) caratterizzate da una scrittura scarna, dura, aspra che rivelava qualche ascendenza americana, e la terza, dopo un lungo intervallo di tempo, caratterizzata da Il male oscuro, La cosa buffa, i racconti di Un po’ di successo, un periodo definito “della rassegnazione e della consapevole discesa al profondo”. Certo Il male oscuro segna un punto di evidente rottura con quella che era il rispetto per la tradizionale sintassi con i periodi regolari, la punteggiatura e la scansione del discorso. Qui l’io narrante si abbandona alle suggestioni dell’inconscio e cerca di dare loro voce in un flusso fluido, internamente concatenato, pervaso da un’intensa autoironia che attraverso un singolare «autorisanamento interiore» (G. PULLINI) trova conforto nella contemplazione della natura. Una riflessione particolare meriterebbe, in questa prospettiva, l’ultimo romanzo La Gloria (1978) che riprende la tematica religiosa dei primi anni identificandosi con Giuda, l’uomo che ricerca Cristo, crede di essere stato tradito e abbandonato, chiede aiuto, grida la sua angoscia e poi diventa ineluttabilmente traditore, vittima sacrificale. Questo grido documenta un percorso di vita e di sofferenza che si è fatto parola, testo, voce tangibile. Forse il messaggio primo e ultimo della produzione di Berto. Ancora da scandagliare. Con la meraviglia dell’inespresso da rivelare.
Elianda Cazzorla
copertina rivista tempo dedicata ad annamaria ferrero (nel cast d il cielo è rosso)
Nota al testo
1 Giuseppe Berto, Il cielo è rosso, BUR 2014, pag. 106