jeanne hébuterne- ritratta da amedeo modigliani e foto d’epoca
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Parto, per parlare di questo complesso, affascinante lavoro di Loredana Magazzeni intitolato Volevo essere Jeanne Hébuterne (Le Voci della Luna – Dot.com Press, 2012) citando la poesia Mater divinae gratiae et amorosa, che rappresenta il punto culminante di tutti i discorsi poetici contenuti nelle quattro sezioni tematiche Il Martorio della bellezza, La bambina o serie del colesterolo, Poesie per dire la verità, Le porte blu. Poesie per guarire.
La sezione Preghiere laiche, contenuta all’interno de Le porte blu. Poesie per guarire, precede l’ultima sezione del libro, la quinta, dal titolo Tutte le forme dell’amore, ovvero Transonetti, sonetti d’amore transessuale. Questa poesia è il punto d’approdo per la donna e la poetessa che ci racconta, nelle sezioni precedenti, i complessi tormenti del suo corpo/anima.
Si parte dai desideri: nella poesia Tentativi di seduzione della poetessa che invecchia (p. 11) si racconta di come lei, novella Jeanne Hébuterne, avrebbe voluto (scrive con ironia) essere la meravigliosa Musa di un grande artista, darsi anima e corpo a qualcuno in una donazione totale; ma – insieme-, come donna del suo tempo, poeta ed intellettuale, esprime il rammarico per l’incapacità/impossibilità di Jeanne di sopravvivere all’uomo amato. È il rammarico per l’incapacità di tante donne, anche geniali e di grande intelligenza, come senza dubbio era Jeanne, di attivare la parte maschile/pragmatica della propria anima, in soccorso della parte femminile tutta amore e dono. La poesia si chiude infatti con “Se solo ( tu) avessi potuto, avessi saputo, sopravvivergli”. È per me importante quell’ ”avessi saputo”. È infatti dal “sapere” (su di sé, sul proprio essere nel mondo) che può nascere la salvezza: cioè dalla consapevolezza di possedere anche una forza virile che può essere attivata rendendoci autonome e capaci di salvarci, anche quando siamo preda delle sabbie mobili di un grande, profondo, totalizzante sentimento d’amore. Amore dunque è il filo rosso che attraversa tutte le sezioni di questo libro. Nella poesia Corpo perfetto (p. 14) si afferma: “ in fondo, non importa come uno è, ma l’amore che ha […]. Non importa la linea che c’è, ma la pace che dà”. Amore e pace sono due parole collegate tra loro e fondamentali. Magazzeni desidera innanzitutto per se stessa che l’amore che sperimenta, che dona, l’amore che sente sovrabbondante sia accolto, capito, contraccambiato e le regali quella pace del cuore che spegne le angosce, le contraddizioni, il senso di vuoto negativo e di impotenza che la tormentano. Nella poesia Non sembra eppure passa (pag. 16) afferma chiaramente: “Lancio ponti di liane amorose/ I tralicci d’acciaio fanno male” e, sicuramente, i tralicci d’acciaio hanno attinenza più col potere che con l’amore, non sono certo portatori di pace. Amore dunque, amore lieve che si dona, ma spesso non si riceve in cambio, e questo per un’anima sensibile è terribilmente pericoloso. Ma chi vive e soffre perdite, subisce sgarbi e sconfitte è una poeta, e così “ogni volta che qualcuno non la ama, (la poetessa/Loredana) scrive poesie (p. 25). Poesia come riparazione: scrivere, raccontare sulla carta serve a lenire le ferite che ci vengono inferte in ogni età e in tante diverse situazioni. Scrivere per non precipitare in depressioni così profonde dalle quali poi diventa quasi impossibile uscire; scrivere per non morire e, per merito della poesia, volgere in positivo la sofferenza: la Bambina, “mentre scrive, filtra la vita, produce miele” ( p. 35). Quel “produce miele” è il punto di arrivo di un processo complesso. Il poeta è un alchimista, ma è anche un muratore, non costruisce palazzi di pietra ma di parole, “la sua casa di carta” (p. 38). L’amore è anche il fulcro per il cambiamento in positivo della storia umana, che potrà così diventare “storia della pace”:
“Dimenticheremo le date delle guerre./ Impareremo solo quelle delle paci.” (La nuova storia, p. 50). La storia narrerà il superamento dell’egoismo, dell’inesausta sete di profitto, fino a raccontare il culmine della maturità personale e umana: saremo finalmente in grado di porre attenzione a non infliggere dolore ai nostri simili.
Certamente queste mete sono ancora utopia, ma sappiamo che l’utopia ci precede e ci sostiene nel tentativo costante di costruire un mondo migliore. Per la costruzione di questo mondo nuovo e diverso la poeta non si limita a esprimere il suo desiderio attraverso parole poetiche/politiche che le premono dentro ma, pragmaticamente e, secondo me, molto femminilmente, si prende cura di chi le è affidato: “Oggi Amir ha imparato a cantare e Fatima sa l’italiano”.
Certamente, per poter cambiare noi stessi e il mondo che ci circonda, dobbiamo usare “parole selvagge” ossia vere, non stereotipate, parole che“ urlano senza far rumore” e conservano nel silenzio una lunga traccia. Parole dunque autentiche, fuori dalle mode, parole che possono superare il tempo presente e rimanere, correndo davanti a noi e aprendoci orizzonti nuovi.
È molto importante qui il rapporto tra “selvagge e silenzio”, questo rapporto allude a profondità fuori dagli schemi. Queste parole, selvagge e nello stesso tempo silenziose, sono le sole che per misteriose strade giungono al nostro subconscio: luogo deputato a tutte le vere, profonde trasformazioni.
La trasformazione di sé e del mondo passa anche attraverso un faticoso e profondo lavoro di conoscenza: “ Mi sei padre e anche madre/ e mi leghi al comprendere/ come unica forma di libertà praticabile.” Così si rivolge la poetessa al proprio analista e, con le parole di Pasolini, afferma che “oggi non solo il conoscere conta/ quanto l’avere amato e l’aver conosciuto”. Ora sa che potrà convivere con “l’ombra”, con quelli che lei chiama “ i suoi demoni”, perché li conosce, li ha guardati in faccia. Angeli e Demoni ci accompagnano come Lari, ha imparato ad amare entrambi, sa che la perfezione e la luminosità che si richiedono, in particolare alle donne, sono nient’altro che una pericolosa trappola. Ora sa che positivo e negativo convivono in un equilibrio complesso che è la vita. Ha accettato l’imperfezione, l’incompiutezza, l’errore. Questo capire, questo accettare la rende libera, libera anche – e io direi soprattutto – dal bisogno ossessivo di luce (Angelo custode, p. 68): “ Libera anche dal bisogno ossessivo di luce / luminosa della mia sola trasparenza / che tu mi spingi testardamente ad amare”. Ella dunque abbandona l’inseguimento di una luminosità/perfezione di facciata e abbraccia la profonda conoscenza di sé, ossia la trasparenza. Una trasparenza di sé a sé che dovrà amare, conquistare e mantenere giorno per giorno, lungo tutto il cammino della vita. Per questo le due ultime Preghiere laiche sono per il padre: quella meravigliosa forza/ energia protettiva che ci fa ritrovare la strada di casa quando ci perdiamo e ci fa ritrovare soprattutto la gioia profonda della vita che la poeta simboleggia col vino sulla tavola. L’invocazione “Mater Divinae Gratiae/ porta del nulla/ luogo di colui che è senza luogo”, poesia che citavo in apertura, è una composizione di vertiginosa bellezza e profondità, culmine di questo complesso cammino di conoscenza. Ora ha conquistato la propria anima: territorio che non ha luogo e nello stesso tempo è fonte di ogni divina maternità/paternità (divinae gratiae). Territorio, l’anima, in comunione col Sacro che è, come sappiamo, tutta la vita che vive ed è interconnessa. L’anima è luogo di Eros / Amore, che vive avvinto a lei; Eros /Amore: povero, pellegrino, mendico, colui che non ha nulla e non sa nulla: l’interrogante per eccellenza. Amore è, come scrive, “Colui che non ha luogo”, (il senza luogo). Il vuoto a cui si è approdati non è più il vuoto che genera terrore, il vuoto che ci fa sentire morti dentro; è esattamente il contrario: è lo svuotamento che nasce dalla comprensione della nostra complessità. L’io che prepotentemente ci teneva avvinti si è allontanato e risiede ai margini; noi siamo liberi dalla sua tirannia pur riconoscendone il ruolo.
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amedeo modigliani- jeanne hébuterne
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Il vuoto che si crea è quello di cui parlano i mistici occidentali e le filosofie orientali come il TAO. Sentiamo: “Tu ( anima) , luminosa / anfora d’assenza, fa’ che il mio vuoto/ sia luogo di sapienza”. Questo vuoto ci consente infatti di cominciare un lungo cammino verso la sapienza, che ha caratteristiche insieme di semplicità e profondità. La sapienza ci traghetta al di là, oltre, verso quella conoscenza sempre più profonda dell’esistere che noi chiamiamo Dio. Ed è in questo senso che leggo l’ultima parte del libro, che si intitola Tutte le forme dell’amore/ transonetti/ sonetti sull’amore transessuale.
L’amore è un “demone”, “un mutante”, dicevano i Greci, perciò non ha un sapere definito, un aspetto definito, un modo definito di porsi. Egli è più potente degli Dei e degli uomini e li assale, li circonda, li interroga col fine ultimo di destrutturare le loro certezze e ricomporle poi in modo diverso e assolutamente imprevisto e imprevedibile. Tutto questo sempre nell’ottica di servire l’anima, che per i greci è Afrodite: Bellezza/Bontà, da non intendersi in senso morale, ma esistenziale. È un pericoloso passaggio quello che Eros ci assegna; possiamo anche perire. Ma se attraversiamo il guado ne usciamo completamente rinnovati nell’anima e arricchiti profondamente.
Ripeto che Anima è per i greci Afrodite: Bellezza / Bontà con cui vive Eros che la destruttura per arricchirla. Parlare di EROS/AMORE è di indicibile difficoltà perché l’AMORE è per eccellenza TRANS, cioè AL DI LA’, al di là delle nostre limitate capacità di coglierlo nella sua terribile/meravigliosa possibilità di metamorfosi. “La poeta prova in questa ultima sezione a parlarci di EROS/AMORE, e lo fa raccontandoci di un amore complesso, impossibile, sognato, inseguito, di una donna per una donna che sta cambiando sesso. In questa relazione con l’altra simile a sé, e insieme diversa, impara la difficoltà di comprendere ed esprimere la metamorfosi: non siamo più, quando Eros ci coglie, preda dell’IO, ovvero di un luogo, un senso, un sapere definito e codificato, di un sesso codificato. Come Lui, noi accediamo alla capacità di cambiare, di interrogarci continuamente. Come Lui non riusciamo con le parole a far capire cosa proviamo, cosa sentiamo: “può la parola dire l’indicibile?/ Come può nominare il Senza Nome?/ Dove la lingua interrogata tace/ e sopra più livelli si traduce (p. 75). EROS è la complessità in assoluto: sentiamo ancora la poeta che viene gettata in territori sconosciuti: “Dell’umano sentire ha ribaltato/le strade certe, e quelle sconosciute/ mi apre, finora a me precluse.// Così come la nebbia il suolo copre / vita celava a me senza il suo incanto/ le tante forme estreme dell’amore” (p. 79). In questo luogo di diversità/novità si interroga su chi siamo veramente e ci dice: “Trasalimenti siamo, corpo e corpi /sconfinamenti dentro e in mezzo al genere/ schegge vaganti, nugoli, frammenti/ a custodire la traccia di un segreto”. Il segreto è forse il nostro continuo DESIDERARE, che ci traghetta fuori di noi e dentro di noi per trovare il senso del nostro esistere: “Ancora desiderando, riscopriamo/ d’essere umani, più profondi e forse/ più vicini alla sostanza di noi stessi”. Ma colui che amiamo, colui che ci sta davanti è l’Altro per eccellenza: “Questa realtà non ha parole ancora/ È misteriosa non ha lingua né voce”. Ella comunque spera di trovare parole che, lanciate come sassi, generino seme di parole nuove, capaci di raccontare la complessità.
Trovare parole nuove per esprimere nuove complessità significa trasformare la nostra mente, aprirla in direzione di EROS/ AMORE che vuole trascinarci verso una conoscenza di noi stessi e del mondo più profonda e vera: “Fare e disfare il genere è una pratica/ che ci fa umani in modo più totale”. Perché “umani” in modo più totale? Perché riconoscendo in noi la profonda complessità della nostra natura umana ci avvicineremo meglio a capire la natura del Divino che è in noi ed è complessità per eccellenza.
Nel sonetto XIII, per descrivere la persona amata e la sua complessità, scrive chi sia EROS: colui il cui solo scopo è portarci ad una capacità più profonda di SENTIRE. Cito: ”Signore (Tu) della compassione e del patire/femmina e maschio, a dirmi/ il mio bisogno di completezza/ e amore reincarnato”, lo chiama “ mio sciamano”, colui che apre dimensioni altre. E torna prepotente il problema di farsi capire, come nel sonetto XIV: “Il genere interroga la lingua e/ dentro più livelli la traduce,/ segue rotte meticce”. La lingua dunque, nel tentativo di liberare il genere e, col genere, di liberare Eros dalla staticità nella quale è culturalmente relegato, segue rotte nuove, incrociate, complesse. Per passi successivi arricchisce sempre più il quadro su EROS: “Amor lui è, (È – lui – Amore) e unisce me a me / mi fa femmina e maschio, mi fa una/ amor fa madre il figlio e il figlio madre// amor è ciò che sempre li accomuna,/ una lingua, una storia, una memoria/ amore è ciò che congiunge e disaduna ( disgiunge)”. Amore disgiunge (ricordiamo la spada di cui parla Cristo e il coltello delle fiabe) per ricongiungere sempre in modi nuovi e più ricchi di anima. Amore dunque parla anche la lingua della perdita: “Scialacqua patrimoni/ sola mi lascia sbigottita e pallida”. La poeta si interroga sull’assenza dell’amato/amata, sull’assenza dell’amore. Quest’assenza è insieme fonte di oscurità e chiarezza; nulla è più solo bianco o solo nero, ma complesso, così come lo è Eros e si avvia, direi serenamente, al superamento di questo amore che ha vissuto profondamente. Un amore che le ha regalato una nuova conoscenza di sé, ma soprattutto una profonda conoscenza di chi è Eros, della sua lacerante potenza.
Conclude infatti con questi versi: “Ho imparato da te ben altre cose/ di quelle che la grammatica consente./ L’amore pulsa nel nodo più profondo// dove la lingua i suoi confini perde;/ categorie non ha, né concordanze/ la voce, la parola, il libro e il mondo (p. 95), che io traduco così: “L’amore è fuori da ogni schema sociale dato, e quindi da ogni possibile grammatica. L’amore è quella forza unica capace di sovvertire ogni rigida regola stabilita. L’amore è l’unico, vero principio rivoluzionario”.
Roberta Parenti Castelli
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Loredana Magazzeni, Volevo essere Jeanne Hébuterne– Le Voci delle Luna 2012