roberto kusterle – mutazione silente
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Vittoria Ravagli ci porge una parola di grande forza. Crone. Che se considerata parola inglese viene tradotta con vecchiaccia, megera, strega, befana et similia, ma in un inglese antico, ci dice Mary Daly, indicava una donna saggia in quanto anziana; e “lucidamente vecchia” -media Luciana Percovich – punto di riferimento per la famiglia, la comunità, i giovani, proprio perché “più vicina alla dimensione da cui arrivano al mondo i bambini”. Luciana Percovich, però, la riprende come parola “nuova”, italiana, che significa una “donna che, entrata nella fase della vita che inizia dopo l’ultimo sangue, non si vergogna di invecchiare, ma anzi rivendica le sue rughe e impara a distillare la saggezza accumulata negli anni”. Mi piace la nuova parola ‘crone’. Ho lasciato che mi agisse dentro. E’ femmina, affonda le radici nell’antico del mito, è nella pancia del tempo. O fa il tempo nella propria pancia. E mi piace anche la parola vecchia, nonostante la consunzione dell’uso e abuso nel simbolico attuale. Quasi una parola proibita, oscena, una parolaccia. Mi lascio guidare dal mio poco paludato dizionario etimologico: ‘vecchio’ deriva dal tardo latino veclus, che viene dal più classico vetus e vetulus, che affondano nell’indoeuropeo weto, il cui significato si porrebbe nei dintorni del concetto di ‘anno’ (vatasas in sanscrito è l’anno, vatsâs è il vitello di un anno; etos in greco è ancora l’anno, così come vétuchu in antico slavo). Una parola legata alla vita dei campi e delle bestie: ‘veterinario’ deriva dal latino veterinus (che porta una soma) e questo da vetus, in origine un animale vecchio che andava bene solo per portare la soma. Be’ la parola ha nella sua pancia proprio il tempo: sia quello materico, ciclico, prevedibile nel suo eterno ritornare uguale (che forse oggi siamo riusciti, infine, a interrompere per dirottarlo su inaspettate(?!) e sconvolgenti catastrofi climatiche), sia quello che affastella esperienza lungo la durata della vita, ‘soma’ che può portare solo un corpo che il tempo l’ha vissuto e quasi lo conosce. E quindi non lo teme, si limita a percorrerlo tutt’intero, fino a. Dico ‘quasi’ perché la vita, infatti, a tutti e a tutte dovrebbe permettere di tenerlo come un sentiero, con le sue lente faticose salite e con le sue velocissime ripide discese, con le sue viste panoramiche dall’alto in avanti e indietro e con i suoi meandri labirintici di durata interiore. Un sentiero che poi si ferma. Forse per ricongiungersi a quell’altrettanto sconosciuto inizio che è la nascita, vero grande mistero della vita, dice Edoardo Boncinelli, a differenza della ‘naturalezza’ della morte. Ma le circostanze del vivere, con i traumi e le felici distrazioni, con la continuità consueta dello scorrere dell’oggi da ieri a domani, con il desiderare che apre all’infinito orizzonti e prospettive, ci fanno perdere il senso del sentiero. Che quasi si stacca da noi e che ad un certo punto ci può presentare un’interruzione della corrente, una specie di chiusa da superare, come “la soglia della vecchiaia”. Aspettata, rimandata, ignorata, temuta, innaturale.
E’ normale che la limitazione delle forze, la maggior fatica a muoversi e a fare, i mille disagi di una diminuita (ed uso un eufemismo) lucidità mentale, i mille dolorini (altro eufemismo) della consunzione di ossa, organi, funzioni, portino a sentire pesantemente il cambiamento, e a sentirlo come cesura, quando non vera e propria fine della vitalità/vita. Ma non è bene. Per chi lo vive, certo, e non pensando a tutte quelle forme della nostra attualità che cercano di nascondere, negare la vecchiaia vendendo cure miracolose, modelli di comportamento e d’immagine giovanilistici, illusioni di giovinezze più o meno cibernetiche protratte ad aeternum. Con la conseguente sospensione dell’evenienza ‘morte’. Le quali forme, paradossalmente, addirittura creano, inventano l’orrore della vecchiaia. Se da sempre, infatti, si è sentito e descritto con rammarico (nell’arte come nella scienza come nel buonsenso comune) il declino fisico e spesso mentale della vecchiaia, però, in genere, era rispettato, ammantato di mitiche forme e qualità proverbiali: Dio e molti profeti o santi e importanti dei sono stati per lo più rappresentati come Grandi Vecchi, e ‘Grande Vecchio’ si diceva di un anziano che ancora distribuiva sapere ed esperienza; la “gallina vecchia fa buon brodo” diceva la saggezza popolare; i bravi re e molti buoni saggi maghi (Merlino in testa) delle favole erano vecchi canuti (non vale lo stesso per il genere femminile, ma questa è un’altra storia, di cui parleremo prima o poi e che riguarda un’altra invenzione, quella delle ‘streghe’).
Non è bene, dicevo. Perché ci porta via quell’ancor molto di buono che ci può essere nel tempo dopo “l’ultimo sangue”. Riprendo questo modo di denominare di Percovich perché è bello e mi fa sorridere della fatica con cui un gruppo di amiche ed io abbiamo a lungo cercato un nome da dare alle nostre riflessioni sul tempo da noi provvisoriamente denominato “del dopo-menopausa”, “del post-menarca”, che giustamente non ci piaceva, arrivando però solo ad un’“età forte”, da Beauvoir, che non ci diceva del tutto e che rischiava di associarsi a qualche spot pubblicitario di integratori alimentari. Comunque, quegli incontri sono cominciati con grandi lamentele su rughe, dolori articolari, perdita di memoria, ma anche perdita della capacità di mettere al mondo figli; poi hanno virato verso risate autorironiche liberatorie, e alla fine ci hanno condotto alla stupefazione l’una dell’altra. Perché pian piano è venuta ad emergere di una la gran voglia di ballare e amare liberamente, come mai aveva potuto o si era concessa da giovane; di un’altra la nuova capacità di riscoprire il mondo con un passo ed un tempo diversi nei viaggi in bicicletta attraverso deserti, isole, paesi lontani; di un’altra ancora la libertà dai vincoli canonici del sapere che adesso le permette associazioni d’idee originali, ipotesi nuove, curiosità e scoperte insospettate; di quell’altra l’assumersi ed il sentirsi dea potente antiteticamente al disamore per sé e alle delusioni giovanili; di quell’altra ancora il sentirsi comunque bellissima, l’amarsi, senza bisogno di occhi altrui o trucchi o diete o vestiti. E tutte con un gusto speciale del ritrovarsi tra amiche, capaci di ammettere rivalità o invidie o antipatie che un tempo sono state barriere invalicabili. Capaci ancora di litigare, s’intende, ma quel litigare che fa bene ai bronchi e poco male al cuore. E tutte, se non felici, almeno quietamente ben disposte a vivere l’età della minore sottomissione agli impulsi ormonali, dipendenza che prima portava via tanto tempo ed attenzione e che ora è così ben governabile da lasciare emergere tanto altro del desiderare e del guardarsi. “sono io che ‘guido’ – dice Vittoria- non portata come mi sono sentita sempre, quasi obbligata”. Com’è bello dirlo e sentirlo dire. Certo, occorre stare almeno da “insomma”, come saggiamente ci diciamo tra noi, per non richiamare l’invidia degli dei, ma anche per minimizzare i problemi di qualche recente referto medico; occorre non dipendere da pensioni da fame; occorre non essere monopolizzate da nipoti o genitori/mariti variamente disabili; occorre non essere depresse o pre-dementi; occorre avere smesso certi abiti nascosti di confronti, rivalità, manie di possesso: un bel po’ di occorrenze, certo. Ma secondo me, quello che ci potrebbe essere tanto ancora di buono e di NUOVO e di esperienzalmente vitale nell’età dopo l’ultimo sangue, è un messaggio da soffiare nel mondo degli ‘anziani’ (orribilissima parola): prima per le donne, ma subito poi ai maschi, così malconci nell’affrontare l’invecchiamento.
Milena Nicolini
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roberto kusterle- le spose del mare
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La morte in me cuce i suoi punti
di luce. Non è non è dura sposa.
Rimbalza la sua eco infinita
da lontananze così di mistero
cede tutto il mio campo
per un’aurora nuova, mai vista
e non c’è solo un sole ma mille
e mille di polvere d’oro. Vero
il suo nido il suo becco che cuce
e vero il guscio dove il mio volo
nasce all’amor vero intero.
Uovo che lei piano cova
suo poema alla luce sono
io.
Mariangela Gualtieri, da Le giovani parole
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roberto kusterle – madreperle
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dentro il palmo della nonna
le vene hanno i pesci
vedo perfino la morte
di un salmone
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mentre deposita le uova nel suo cuore
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ti rivelo un segreto nell’infinito
labirinto del tuo orecchio
cuore
presto divento morta
perché è giusto l’inverno
il mio epitaffio di pane dice
che la mia neve annuncia il petalo
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Anna Maria Farabbi da Asilo in Abse
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roberto kusterle-offerta alla terra
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Sono arrivata troppo tardi e ancora arranco
i miei fratelli sono già lontani
l’errore è stato di ripartizione.
Ho sempre avuto dubbi su mia madre
diceva troppo spesso che ero bella
ma aveva lenti doppie e poi mi amava.
Da quando se n’è andata non mi guardo
non serve, tanto so che faccia fare.
I denti del giudizio li ho lasciati
dentro una scatolina di cartone
con un foglio che spiega chi non sono
bruciatemi se muoio, col vestito
quello nero che mi fa tanto snella
ultimo vezzo di femmina ostinata.
Lucia Marilena Ingranata da Io e Lucia
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roberto kusterle – il corpo eretico
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Notato che
se non ci si veste in maniera
elegante, accurata e “firmata”,
se non si ha un tono, un atteggiamento
sicuro, in altre parole: se non si è
un pallone gonfiato che sgomita
per farsi valere, da vecchi
(ma solo da vecchi?),
non si conta niente.
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Così si fa l’esperienza del mondo
da una nuova prospettiva
-finalmente.
Non si è più oggetti di desiderio,
e nemmeno si incute soggezione
con il proprio potere e denaro.
Non si “produce”, si è solo peso
al contribuente. Si diventa invisibili
per quasi tutta la gente.
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(…)
Dal fondo del barile
vedi il mondo per quello che è.
Ma questo privilegio
gli altri te lo fanno pagare.
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(…)
A cena da amici, per rispondere
a una domanda, mi capita di dire
-en passant, senza drammatizzare-
che per fortuna non mi aspetto più
niente dalla poesia, non sento più
il bisogno di dimostrare alcunché
a me stessa o a chicchessia, e,
per finire, non sono nemmeno più
curiosa né di questo né di quello,
sto benissimo da sola. Tutto ciò
lo vivo come una bella vacanza
insperata, una vera liberazione
-aggiungo, con una lunga “ooohh”
di soddisfazione.
Mentre parlavo, notavo gli sguardi
aggrottati, di disapprovazione, di certi
commensali. Ma a differenza degli altri,
il volto della pittrice seduta di fronte a me
esprimeva sorpresa e adesione. Quando ebbi
terminato io, fu lei a dare il colpo
di grazia alla conversazione, dicendo:
solo il cancro mi ha dato quel senso
di vacanza!
Come riferire con maggiore efficacia
dell’inferno interiore di certi artisti,
della loro continua lotta, della loro
sofferenza a oltranza?
Giulia Niccolai, da Frisbees della vecchiaia.