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“L’Acchiappatopo, se puoi, leggilo ad alta voce, a mezza voce, muovendo le labbra… Soprattutto ‘Il trasporto”. Anzi no – tutto, tutto.
E’ scritto come il Prode, direttamente a partire dalla voce. Io vivo – e di conseguenza scrivo, ad orecchio (…) e questo non mi ha mai ingannato”.
Marina Cvetaeva, lettera a Boris Pasternak 1926
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Prendo a prestito dal bel romanzo di Serena Vitali “Il bottone di Puskin” il titolo di questo mio breve appunto per segnalare la ristampa del poemetto di Marina Cvetaeva “L’accalappiatopi”, ad opera della casa editrice A/O, luglio 2017.
L’utopia comunista e la civiltà dei consumi, il conflitto tra l’Anima-poesia e il corpo, tra l’arte e la dura quotidianità dell’esistere, la vita da migrante, la natura insubordinata del poeta: quanti temi si accavallano e intrecciano nella partitura di questo poema!
E’ il 1925, sono passati sette anni dalla rivoluzione d’Ottobre e la Cvetaeva, lasciata la Russia, si trova a Praga. Dopo gli anni terribili di Mosca – ha patito la fame, ha visto la figlia morire per denutrizione, è rimasta per anni senza notizie del marito in guerra – Marina vive un periodo sereno e di grande creatività, nonostante le ristrettezze economiche, che per tutta la vita la assillano. “Mi vergogno a chiedere sempre – scriverà ad un’amica – ma non è mia la colpa, è colpa del secolo, che darebbe dieci Puskin per una macchina in più”.
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marina cvetaeva
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Il denaro e la vita, l’avere e l’essere sono proprio il tema su cui si sviluppa il pometto “L’accalappiatopi”, divertita e feroce satira lirica del filisteismo borghese, ispirata all’antica leggenda del pifferaio magico.
Il tema della fiaba nordica viene dalla Cvetaeva scandito in sei canti. I primi due sono una sarcastica descrizione della pingue e soddisfatta cittadina di Hammeln, che anche nel sogno non riesce a vivere la piena libertà della fantasia, ossessionata com’è dal cibo e dal guadagno. Ed è proprio “l’abbondanza ossessiva di cibo, segno dell’inquinamento spirituale della città” (cito dalla bella introduzione di Caterina Graziadei, cui si deve anche la traduzione) a richiamare la “baraonda spelacchiata” dei topi “- in divisa/-in rosso”, così scandisce il ritmo serrato e giocoso, che “tutto il mondo vuole inghiottire”. Ma ecco, sul finire del III canto, che “in città entra pian piano un uomo in verde, con un piffero in mano”.
Gli impauriti abitanti di Hammeln gli promettono la mano della figlia del borgomastro pur che li liberi dal flagello che minaccia i loro averi e lui col suo flauto incanta i topi grassi e imbolsiti, risvegliando in loro il desiderio di un’eroica epopea. Al falso richiamo di miliardi di topi schiavi che attendono di essere liberati nell’azzurro Indostan, i “topacci rossi” si lasciano condurre ammaliati nelle acque di uno stagno. “Nessuno c’è più: /cerchi sull’acqua”, così si conclude il IV canto.
Il pifferaio torna a reclamare il compenso, ma ora che si sentono al sicuro i ricchi borghesi della città si guardano bene dal mantenere la parola data e, manifestando il loro disprezzo per la musica (“che cos’è?/ Inutile tintinnio di corde”, V canto), scacciano il suonatore di flauto. Questi allora si vendica attirando a sé con la musica tutti i bambini della città che, affascinati, gli vanno dietro, ognuno inseguendo il suo sogno, fino allo stagno:
“Non pensare, ma segui, non pensare, ma senti…
E il flauto più dolce, e il cuore più sordo…
– Mamma, per cena non chiamare!
Bolle d’acqua”
Così si chiude il poemetto attraversato da una corrente di azzurro, colore del sogno, che arriva sulle note del flauto e inonda la città chiusa nel suo torpido egoismo, portandole via ciò che ha di più bello: i bambini e il loro universo fantastico. Così muore Hammeln, città che non sa più sognare.
Toni biblici, poesia liturgica, la ripresa sarcastica della propaganda sovietica, il linguaggio tenero e sognante delle nenie si mescolano e alternano in questi versi dove, attraverso lo scavo negli alvei fonetici della lingua russa, si svela “la parentela di sangue tra le formule magiche e gli esorcismi che custodiscono il segreto di un’oscurità che da sempre giace sul fondo della poesia” (cito sempre dalla prefazione di Cristina Graziadei).
E i bottoni, che c’entrano i bottoni?
I bottoni diventano l’emblema della chiusura di un mondo che vive di traffici meschini e allontana da sé “poveri, geni, versaioli, /Schumani, musicanti, galeotti”. Nel corso del primo canto, si colloca la divertita Piccola digressione a proposito del bottone. Nell’Eldorado di Hammeln, ci dice ironicamente la Cvetaeva, dove “non esiste anima,/ ma che corpi in compenso!/ Solidi, saldi”, tutti se ne stanno ben abbottonati. Il bottone ciondolante, la camicia strappata, la cerniera e l’orlo scucito, piccole crepe attraverso le quali trapela la sovversione, non possono trovare spazio in una città dove tutto è a posto, tutto è in ordine. “Tutto l’ordine del vivere si tiene/col bottone. Il sobrio è abbottonato”.
Resta solo il poeta che la Cvetaeva, sornionamente, esorta:
“Sei dei démoni sei consanguineo,/ bardo, sbottònati tutto! ”
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Marina Cvetaeva, L’ACCALAPPIATOPI- A/O edizioni luglio 2017- Collana: Assolo
Traduzione Caterina Graziadei