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Sulla copertina del libretto ci sono le corde tese di una chitarra e il tondo vuoto della cassa armonica. Il titolo è “Il ricercare”. ‘Ricercare’ è una forma musicale risalente all’età barocca che ha trovato il suo più grande esponenente in Girolamo Frescobaldi, veneziano. La caratteristica principale della composizione – io so poco di musica, ma sono sulle tracce di similitudini illuminanti, di una chiave per interpretare quest’opera poetica – è la struttura monotematica con la possibilità di sviluppare il motivo principale in una serie successiva di improvvisazioni e variazioni.
Allora mi viene subito alla mente l’immensa opera di Johann Sebastian Bach, le variazioni Goldberg, ovviamente, e “L’Offerta Musicale” in cui il sommo compositore ha inserito un ricercare a tre o a sei voci. A questo punto non posso eludere la classica domanda, mai risolta: un poeta, trovato il suo nucleo pulsante, l’atmosfera sua propria, la sua immagine sacra o la sua maschera demoniaca, non consumerà il resto della sua scrittura a riproporre il suo leitmotiv e le parole evocate, l’incatenarsi più o meno saldo dei versi, non saranno in fondo una riproposizione variata di quell’unico tema? Come il canto di un uccello mattutino o l’ululato notturno del lupo? Ci sono vari tipi di poeti che avanzano nella loro ricerca e sono pronti a rinnegare il materiale passato, la lezione dell’avanguardia e dello sperimentalismo ha mischiato ulteriormente le carte, ma di fronte all’opera di Aurelio Polo io resto esterrefatto, perché la sua voce, seppure proposta con diverse modulazioni, è rimasta la stessa per più di quaranta anni. L’unico suo libro di poesie pubblicate è appunto “Il ricercare – poesie scelte dagli anni Sessanta al Duemila”( Biblioteca Indipendente, Genova 2004). Le poesie incluse nella raccolta sono 42: quarantadue componimenti in quarant’anni. Questo non significa ovviamente che l’autore non abbia scritto altre poesie: Aurelio Polo ha lavorato a lungo nel settore farmaceutico e questo defilamento rispetto all’ufficialità letteraria ha fatto sì che i suoi lettori fossero medici e che la selezione avvenuta per “ Il ricercare” sia stata influenzata da un suo amico primario di Genova. In questi tempi di scrittura massiva – tre milioni di pretesi poeti in Italia, secondo una recente indagine de L’Espresso – di composizione bulimica e sovraesposta, di rapidissimo consumo, il rigore di questo poeta mi stupisce. Dallo stupore all’entusiasmo il passo è breve e le poesie che sto leggendo mi conquistano per un controllo stilistico assoluto, in cui il fine lavoro artigianale sulle parole e sui loro legami arriva a costituire un’unità forma/contenuto forte e convincente. Il lavoro artigianale potrebbe proprio essere quello di un liutaio che intaglia ed incastra, dopo un’attenta selezione, i legni incurvati e diritti, sino alla fabbricazione di esemplari ammirevoli in cui i vuoti e i pieni si collegano, si sfidano, arrivano ad una eccelsa armonia di forme, si riuniscono in un oggetto che non suona mai falso. Solo dall’associazione del pieno e del vacuo si ottiene la musica. Ma lo strumento musicale è anche il segno tematico di queste poesie così simili e costanti: un segno antico che compariva nei dipinti a natura morta dell’età barocca e che indicava, insieme ad altri oggetti dilavati e verminosi, la fragilità effimera dell’esistenza umana. VANITAS. Io non so se le poesie di Aurelio Polo seguano un andamento cronologico, ma gà la prima – a voler insistere su questa fissazione forse da me strumentalmente individuata – potrebbe essere l’ultima e le note dell’esordio potrebbero essere quelle della ripresa finale.
ELEGIA
E’ in ottobre, che dal vuoto
sereno e al mare teso
una pausa si fa, di specchio
al refolo che salta oltre le case.
E sterili pollini di carte
t’avvolgono; se ti aggiri e domandi
scopri la chiara indifferenza
e al primo freddo aggiorna
nel sorriso smarrito, l’aura
dell stagione cara.
Tornano i pescatori al traino
profili affratellati
dal gesto alterno sulla lunga
scia, dove ribolle il piombo e presto
nella raffica smuore, a eguali
scaglie di correnti. E già non più
di veri e di presenti – di noi due –
del nostro vano avvicendarsi
s’è rinchiuso il solco ed ogni traccia
si quieta.
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L’elegia è la poesia del ricordo e della nostalgia, del momento intensamente vissuto un tempo e che non si riesce più a ripetere se non in una versione svuotata ed umbratile…barlumi, fiori spenti, gusci vuoti, semi che sono grigi fiocchi di un vecchio pullover…le elegie dei poeti latini, quelle duinesi di Rilke, ma anche Montale, nei suoi squarci di donne e strade che rifulgono un attimo nel passato per ricadere come carte stropicciate ai piedi del muro dei giorni, è un duro poeta elegiaco. Di quella scorza terrestre, non liquida e piagnucolosa, è anche Aurelio Polo, genovese sebbene di adozione. Un altro punto di riferimento è Kostantinos Kavafis, nel suo volgersi ad un passato ancora palpitante e commovente, sotto le incrostazioni dell’archeologia.
LO SCRIBA
Non frugatemi ancora
con avide dita
sono un albero vecchio
non so dare che foglie.
La mia ricchezza è altra
che le spoglie dei rami;
sono ombre, segreti,
sono storie narrate
a bassa voce, povere quasi
ma la vita soffrì
come un dono dovere
il raccontarsi, eguale
nei suoi simili diversi
e seguitare, anche con voce
flebile o lamento.
Ho visto
le vite come nubi
andare al mare, perenne
a disegnare un regno
a dileguarsi…
non voltarsi è la fine.
Siamo archivi viventi
dell’umano, ma la mano è uno stilo
fragile, che si consuma.
I personaggi evocati da Polo, avatar del’io poetante, risiedono tra l’erosione del presente e la sospensione del tempo mitico. Sono gli sconfitti e le vittime dell’epos: Orfeo, Dafne, Icaro, la vita bloccata in uno sguardo volto all’indietro, in una fuga bloccata, in un volo spezzato.
(…)
Librando
vedevo sfilare stagioni; del tempo
sfilai l’ignorato segnale.
Al fine fui desto, cadendo
intriso in un mare di voci, irriso
per l’ala incompiuta, disperse
le piume nell’aria, le verghe, la cera
colando disfatta nel fuoco, pietoso.
Al sole umiliato mi scaldo, da vecchio.
( in ICARO, p.49)
L’esistenza umana non è che un’interiore esposizione di dettagli su cui il mito iscrive il suo monito: inutilità e rinuncia.
(…)
Lo so
non puoi più volgerti a tornare
confitta nel tuo buio di cornici
rare accese da fari e temporali,
e dai rivali specchi illudi la sembianza
certo mutata al tempo e ormai reclusa
se ad essa in mute schegge,
sparse frazioni per i giorni eguali,
dilacerate immagini rimanda, a Orfeo
se il capo volge.
(in DEI DISUNITI PASSI, p.43)
Per tutta la raccolta le composizioni si attengono ad una cadenza di parole necessarie, mai stonate, impreziosita dal gioco sonoro delle allitterazioni. L’insistito rivolgersi all’enjambement mi ricorda le salite e le discese per le tortuose scalinate di Genova – un passo dopo l’altro su e giù per i tornanti – Genova, città feticcio, correlativo oggettivo di tutta un’esistenza, cammino quotidiano tutto dal lato della disillusione, dell’incompiutezza, dell’approdo finale non al mare aperto, ma alla chiusa pozzanghera della darsena.
(…)
E che ci fossero mostri o ridondanze
di suoni, al tutto agibile quel vento
da una città adottato, mi spingeva
per le sue strade valli e discendevo
fischiando, e non sapevo
che alla fine dei passi un’acqua tetra
reclusa all’infinito mare che annotta
nelle oleose darsene attendeva
e l’indistinta voce nel volgermi
a tornare
(in A TORNARE, p.47)
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A conclusione del percorso ogni oggetto dell’umana vanità si è consumato nella cenere, il ricercare ha steso la sua nota finale, ma resta un minuscolo faro acceso che pulsa intermittente e indica ancora viva l’irragionevole speranza di ogni umana esistenza. Una breve musica che passa, ma che non si può fare a meno di provare a suonare. “Esorcismo di oculata distruzione”, come lui scrive. Che sia vita, che sia poesia.
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CENERI
Ma quanta cenere ho sparso…
caduta da sé, scalzata dal gesto
rimossa a piccoli tocchi,
piovuta su stoffe, ardente
o fredda, come una lava antica
a lievi affioranti tumuli.
Quante torri e giardini, uscirono
dalla mia bocca; anelli, volute
nel vuoto
raggio del bianco e nero e poi
nell’ombra la mano sfiorava
in cenere l’amore, pulsando i ricordi…
E vecchio
con dita che incollano ancora
alle labbra
acceso quel piccolo fuoco
un lume nel buio, a me
condotto alla cenere, l’odore
del mondo svanito,ma caldo
ancora dammi, bruciando per poco.
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Aurelio Polo ha 87 anni, ha avuto il potere di sposare gli elementi e di farli reagire. Non so bene come la pensi invece sull’amore. E’ musico: qualche serenata credo l’abbia suonata.
Aurelio Marco Polo, libero prigioniero genovese,
chissà quali dolomie bianche sogni oltre la linea buia dei forti
ma non voltarti alla voce che inbonisce
segui diritta la calata fino alla pulsazione
della marina lanterna
o in alto ai cieli fissi con la pietra silente
che porta il tuo nome.
Paolo Gera
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Aurelio Polo, Il ricercare- Biblioteca Indipendente- Genova 2004