TRA LA PAROLA POETICA E LA MUSICA- Sergio Pasquandrea: Mani d’ebano e tasti d’avorio

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La volta scorsa, vi avevo lasciati con una domanda: esiste un Omero del blues?

Sì, esiste, anzi ne esistono parecchi: perché il blues e il jazz hanno abbondantemente innervato la poesia americana (tutta, non solo quella afro-americana). E non parlo tanto della Beat Generation, che con tutto il rispetto ho sempre considerato fin troppo sopravvalutata, quanto degli autori che hanno saputo davvero fare i conti con le novità dirompenti introdotte dalla musica nera nella cultura del secolo scorso (sì, il Novecento è ormai il secolo scorso, è ancora dura ammetterlo per chi, come me, ci è nato).

La lista sarebbe lunghissima. Per chi voglia informarsi, e legga bene l’inglese, esistono due ottime antologie, edite un bel po’ d’anni fa ma ancora valide: “The Jazz Poetry Anthology”, a cura di Sacha Feinstein e Yusef Komunyakaa (Indiana University Press, 1991) e, degli stessi curatori, “The Second Set. The Jazz Poetry Anthology, Volume 2 (Indiana University Press, 1996). Di Sasha Feinstein, c’è anche “Jazz Poetry from the 1920s to the Present” (Praeger, 1997). Ci si trovano nomi come James Baldwin, Amiri Baraka, Gregory Corso, Robert Creeley, e. e. cummings, Rita Dove, Michael S. Harper, Ted Joans, Bob Kaufman, Philip Larkin, Vachel Lindsay, Charles Simic, e infiniti altri, purtroppo quasi tutti ignoti sugli italici lidi.

Oggi, però, voglio parlarvi (brevemente, perché è estate, fa caldo, e poi queste cose è meglio ascoltarle che non leggerle) di colui che si potrebbe considerare a buon titolo il padre della letteratura afroamericana contemporanea: Langston Hughes.

Hughes nacque a Joplin, Missouri, il 1° febbraio 1902. I suoi genitori si separarono poco dopo la sua nascita e Langston fu allevato dalla madre, che era una maestra elementare e una fiera sostenitrice dei diritti degli afroamericani, in un’epoca in cui il razzismo, la segregazione razziale e il linciaggio erano ancora pane quotidiano, specialmente negli stati del Sud. Frequentò le scuole fino al liceo, poi le sue condizioni economiche non gli consentirono di iscriversi, come avrebbe voluto, all’università, quindi cominciò a fare ogni sorta di lavori per guadagnarsi da vivere, compreso arruolarsi in marina, il che gli permise di viaggiare nei Caraibi, in Africa e in Europa.

Alla fine, si trovò un posto come cameriere in un albergo di lusso e lì, per puro caso, riuscì a far leggere alcuni suoi testi al poeta Vachel Lindsay. Fu l’inizio della sua fortuna: Lindsay rimase colpito e cominciò a farlo pubblicare su riviste. Hughes riprese gli studi, si laureò e divenne rapidamente uno degli intellettuali afroamericani più in vista.
Negli anni Venti e Trenta, le sue opere contribuirono a quel vasto movimento di rinascita che fu denominato “Rinascimento di Harlem”. Rimase un maestro fino agli anni Cinquanta e Sessanta, quando era guardato con rispetto persino dai giovani leoni del Black Power. Morì nel 1967, a causa delle complicazioni di un’operazione per un cancro alla prostata.

Quel che ci interessa qui è che la poesia di Hughes fu uno dei primi e – va detto – anche uno più riusciti tentativi di incorporare in letteratura i ritmi del jazz e del blues. Egli stesso collaborò più volte con musicisti e incise, ad esempio, un celebre disco con il gruppo di Charles Mingus, intitolato “Weary Blues” (MGM, 1959).

Vi propongo uno dei suoi più celebri testi, The Weary Blues, recitato durante un’apparizione del 1958 alla televisione canadese. Di seguito, il testo originale e una traduzione, opera di Stefania Piccinato, qua e là un po’ datata nello stile, ma bisogna considerare che è del 1968.

 

 

The Weary Blues

Droning a drowsy syncopated tune,
Rocking back and forth to a mellow croon,
    I heard a Negro play.
Down on Lenox Avenue the other night
By the pale dull pallor of an old gas light
    He did a lazy sway . . .
    He did a lazy sway . . .
To the tune o’ those Weary Blues.
With his ebony hands on each ivory key
He made that poor piano moan with melody.
    O Blues!
Swaying to and fro on his rickety stool
He played that sad raggy tune like a musical fool.
    Sweet Blues!
Coming from a black man’s soul.
    O Blues!
In a deep song voice with a melancholy tone
I heard that Negro sing, that old piano moan—
    “Ain’t got nobody in all this world,
      Ain’t got nobody but ma self.
      I’s gwine to quit ma frownin’
      And put ma troubles on the shelf.”

Thump, thump, thump, went his foot on the floor.
He played a few chords then he sang some more—
    “I got the Weary Blues
      And I can’t be satisfied.
      Got the Weary Blues
      And can’t be satisfied—
      I ain’t happy no mo’
      And I wish that I had died.”
And far into the night he crooned that tune.
The stars went out and so did the moon.
The singer stopped playing and went to bed
While the Weary Blues echoed through his head.
He slept like a rock or a man that’s dead.

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Blues di stanchezza

Mormorava un torpido motivo sincopato,
e si cullava a una dolce cantilena –
ho udito un negro che suonava.
A Lenox Avenue l’altra sera
sotto il fioco pallore d’un vecchio lume a gas
pigro oscillava…
pigro oscillava…
al ritmo di quegli stanchi blues.
Con le mani d’ebano a ogni tasto d’avorio
faceva gemere di melodia quel povero pianino.
Oh blues!
Avanti e indietro oscillava sul fragile sgabello
e suonava quell’aria triste e sbrindellata come un pagliaccio musicante.

Dolci blues!
Sgorgati dall’anima d’un nero.
Oh blues!
Con voce profonda di canto e malinconico accento
ho udito il negro cantare, gemere quel vecchio pianoforte:
“Non ho nessuno al mondo,
nessuno tranne me.
Stenderò le rughe della fronte
e gli affanni poserò sul canterano”.
Tump tump tump faceva a terra il suo piede.
Suonò qualche accordo, e cantò ancora:
“Malinconie di stanchezza:
non mi so rassegnare.
Malinconie di stanchezza:
non mi so rassegnare.
Non sono più felice
e vorrei essere morto”.
Fino a notte alta cantò sommesso quel motivo.
Le stelle si spensero, e così la luna.
Il cantante lasciò di suonare e andò a letto
e nella testa l’eco di quei blues di stanchezza.
Dormì come un sasso, o come uno ch’è morto.

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Buona lettura e buon ascolto.

Sergio Pasquandrea

 

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