blind lemon jefferson
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Sì, lo so: il titolo può suonare un tantinello blasfemo. Che cosa c’entrerà mai il padre fondatore della poesia occidentale, l’autore dei due poemi epici che per secoli i Greci venerarono come pilastri della loro cultura, con un cantastorie e cantante gospel, figlio di poveri agricoltori afroamericani, che negli anni Venti si esibiva nelle bettole del Texas e che morì nel 1929, a trentasei anni, forse avvelenato da un’amante gelosa?
28Apparentemente nulla, a parte la cecità che li accomuna. Eppure, a ben guardare, i cantanti blues che ai primi del Novecento giravano, chitarra in spalle, per le campagne degli Stati Uniti meridionali non dovevano essere poi tanto diversi dagli aedi che, nella Grecia arcaica, si esibivano nelle corti dei palazzi, raccontando le vicende di Achille e di Odisseo.
Intendiamoci: le differenze tra le due figure ci sono. L’aedo era una figura sacra, il suo pubblico era composto di aristocratici e i suoi canti riguardavano le storie sacre degli eroi e le genealogie di uomini e dèi. Il bluesman apparteneva a un gruppo sociale emarginato, si esibiva nei juke joints – i locali da ballo riservati ai neri – e le storie che cantava avevano ben poco di eroico.
Ma le somiglianze esistono eccome, a partire dalla tecnica narrativa e musicale. I bluesmen, come gli aedi greci, improvvisavano i loro versi su un canovaccio di formule tradizionali (quelle che a scuola ci hanno inculcato come i celebri “epiteti omerici”), che avevano sostanzialmente la funzione di aiutare la memoria e permettere di tessere, a seconda dell’estro del momento, un’infinità d variazioni estemporanee. Sono tecniche ben note, sin da quando studiosi come Albert Lord, Milman Parry e Walter Ong le hanno individuate e analizzate in numerose tradizioni orali del mondo, dall’Africa alla Jugoslavia fino, appunto, al Medioevo ellenico.
E comunque, non è un caso che l’antenato più prossimo dei cantanti di blues sia il griot, il cantastorie africano che, per ruolo e considerazione sociale, si può considerare il perfetto analogo dell’aedo greco o del bardo celtico, e che come loro deteneva il compito di tramandare la memoria di un’intera società.
Senza contare che, come l’aedo parlava per bocca degli dèi, così in molti blues emergono le tracce di un’antichissima concezione religiosa, secondo la quale a far cantare il bluesman fossero i loa, i potenti e arcani spiriti del voodoo (sia detto per inciso: il voodoo è una religione vera e propria, che ha poco a che fare con l’immagine vulgata fatta di zombi e di pittoreschi stregoni).
Insomma, per strano che possa sembrare, Son House e Charley Patton, dal profondo dei campi di cotone del Mississippi, possono vantare una sorprendente parentela con i cantori che, tre millenni prima, declamavano le gesta di Aiace Telamonio durante i banchetti degli nobili di Tebe e di Micene.
E come tra gli aedi ci saranno stati sicuramente i mediocri e i geni, così tra i bluesmen non tardarono a emergere figure che, per originalità e potenza stilistica, spiccavano sugli altri: Huddie “Leadbelly” Ledbetter, Blind Willie Johnson, Mississippi John Hurt, Tommy Johnson, Blind Willie McTell, Skip James, e tanti altri i cui nomi si possono ritrovare nei tanti testi dedicati a questa musica.
Poi ci sono coloro che entrarono nella leggenda. E qui il nome inevitabile è quello di Robert Johnson, la cui figura è stata colorita con connotazioni a dir poco mitologiche: dalla vita debosciata alla morte in giovane età – appena ventisette anni –, fino al famigerato, faustiano “patto con il diavolo”, al quale egli avrebbe venduto l’anima per diventare il più grande chitarrista e cantante del mondo. Ma non è di questo che voglio parlarvi, anche perché se n’è parlato già fin troppo.
Quello che mi interessa è il contenuto specificamente musicale e poetico delle canzoni di Robert Johnson. Che poi costituiscono un corpus singolarmente esiguo: una trentina di brani, registrati in un paio di sedute d’incisione fra il 1936 e il 1937.
Questi brani dimostrano la straordinaria abilità di Johnson, che piega la chitarra alle inflessioni di una voce umana (non a caso, c’è stato chi ha detto che Jimi Hendrix deriva dritto dritto da lui) e allo stesso tempo compone testi sbalzati e visionari, intrisi di un’oscura e affascinante melancolia.
Ve ne presento uno per tutti: Come On In My Kitchen, in cui una vicenda personale raccontata per allusioni – un uomo abbandonato dalla sua amante – diventa il cupo presagio di un inverno lungo e buio, che sembra voler coprire l’intero mondo.
Qui di seguito, il testo inglese, una mia traduzione, l’esecuzione di Johnson e infine una rilettura contemporanea, dal carattere più rockeggiante, di Keb’ Mo’.
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Come On In My Kitchen
You’d better come on in my kitchen
Babe it’s goin’ to be rainin’ outdoor
Ah the woman I love
Taken from my best friend
Some joker got lucky
Stole her back again
You’d better come on in my kitchen
Babe it’s goin’ to be rainin’ outdoor
Oh-ah she’s gone
I know she won’t come back
I’ve taken the last nickel
Out of her nation sack
You’d better come on in my kitchen
Babe it’s goin’ to be rainin’ outdoor
When a woman gets in trouble
Everybody throws her down
Lookin’ for her good friend
No one can be found
You’d better come on in my kitchen
Babe it’s goin’ to be rainin’ outdoor
Winter time’s comin’
It’s gonna be slow
You can’t make the winter babe
That’s dry long so
You’d better come on in my kitchen
Babe it’s goin’ to be rainin’ outdoor
Vieni nella mia cucina
È meglio che vieni nella mia cucina
tesoro là fuori sta per piovere
La donna che amo
l’ha presa il mio migliore amico
qualche bel tipo ha avuto fortuna
se l’è rubata di nuovo
E’ meglio che vieni nella mia cucina
tesoro là fuori sta per piovere
Oh è andata via
lo so che non tornerà più
ho preso l’ultimo nichelino
da dentro il suo portafortuna
È meglio che vieni nella mia cucina
tesoro là fuori sta per piovere
Quando una donna si mette nei guai
tutti la gettano via
cerca il suo buon amico
non trova nessuno
È meglio che vieni nella mia cucina
tesoro là fuori sta per piovere
Sta arrivando l’inverno
e sarà lento a passare
non puoi farcela con l’inverno tesoro
sono tempi duri
È meglio che vieni nella mia cucina
tesoro là fuori sta per piovere
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P.S.: giusto un paio di consigli bibliografici, per chi volesse approfondire. Il primo è “Il blues”, Vincenzo Martorella – Einaudi, 2009, il testo più completo, aggiornato e approfondito presente sul mercato italiano. Il secondo, che tratta specificamente i testi del blues, è “Blues On My Mind”, Luciano Federighi -L’Epos, 2002, che purtroppo è fuori catalogo causa fallimento dell’editore, ma che si può ancora reperire in qualche libreria online, o magari su qualche sana, vecchia bancarella dell’usato.
P.P.S.: Vi lascio con una domanda: c’è stato un Omero del blues? In altre parole: c’è stato qualcuno che ha saputo traghettare il blues fino nel reame della letteratura (mettiamo il termine tra un sacco di virgolette, perché lo odio) “alta”?
Sì, c’è stato. Ma chi è, ve lo dico la prossima volta.
Sergio Pasquandrea