margaret woodward
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Provengo da Le beatitudini della malattia di Roberta Dapunt, incontrata nelle sue poesie per caso, dalla mano di un’amica che mi porgeva sostegno.
Lei, Roberta, affronta anche nei versi il faticosissimo vivere a fianco di chi per alzheimer – ma non sarebbe diverso se per demenza senile o giovanile, o se per altre forme di grave impedimento fisico o mentale – ci è vivo accanto, ma non c’è più, o ce n’è solo un pezzetto dell’intero che dovrebbe – corpo, mente, sensi, voce. Anima, aggiungerei. Come in tante amiche e in tante donne che incontro a far la spesa o in autobus, e in tante altre che ne hanno testimoniato nella scrittura, assisto anche nei versi di Roberta a questa straordinaria capacità di darsi senza tregua o remissione nella cura più difficile, e di continuare ad amare. La cura più difficile, sì. Perché da una parte l’ininterrotta disperazione di un male che offende l’integrità, l’interezza, l’umanità della creatura cara, disfa e lacera dentro chi in questa cura si spende. Un chi il quale non è da pensare solo come madre, figlia, parente, ma anche come badante, come infermiera, come operatrice, naturalmente se, nel tal caso, si tratta di una persona che sente e sa di accudire una persona. Non importa se la cura è per mestiere o per vicinanza parentale: la cura, parola antichissima, implica anche preoccupazione, interessamento, curiosità per chi è oggetto di cura. Nessuna forma di indifferenza professionale, per me, è giustificata, anche se raccomandata dagli ‘esperti’, quelli che, magari, hanno anche quantificato i movimenti di un operatore per arrivare a stabilire il numero massimo di pazienti di cui si può occupare in un preciso tot di tempo. Ho visto in strutture pubbliche di assistenza ospiti impotenti lasciati per ore in situazioni che a dire disagiate è poco. ‘Tanto non se ne accorgono’. Oppure: ‘Vengono prima quelli più gravi.’ Ho anche visto, però, un’operatrice, guarda caso non italiana, che, per quanto spaventata dalla dura capa-capò, quando passava accanto alla donna con l’alzheimer, che gridava sempre e per questo la mettevano in carrozzina con la faccia al muro, le faceva sempre di soppiatto una carezza al viso e le sorrideva. Le ricordava la sua nonna lontana, mi disse. Non voglio né demonizzare, né santificare per partito preso. Ma davvero, se non vogliamo ritornare striscianti a concezioni che ricordano le ‘soluzioni finali’ naziste, dobbiamo ricominciare a parlare del dolore e della cura e degli aiuti che la comunità dovrebbe farsi carico di dare, con spirito di comunità, però, mettendo cioè al primo posto la persona che soffre e la persona che la cura, soffrendo con lei. Vorrei tanto, qualche volta, nelle discussioni teoriche e teologiche su testamento biologico e affini argomenti, sentire nominare anche la condizione di chi si prende cura. Niente, infatti, è più devastante che il non potere avere e dare spazio alla speranza, che l’essere impotenti se non per accompagnare il dolore ai suoi esiti più o meno vicini, e spesso con la morte come unico sbocco. Eppure quante quasi- sempre-donne se ne fanno carico, capaci di amore o anche solo di sorellanza, di attenzione, di rispetto. Bisognerebbe ogni giorno levare altissime lodi a queste quasi-sempre-donne che si spendono forse nel più profondamente sacro e santo degli impegni, perché senza la ricompensa di un orizzonte, di una qualche leggerezza, e spesso anche senza riconoscimento. Da parte della persona accudita, che magari non sa più chi sia che le sta a fianco, o pensa sia un pericolo, o non pensa proprio nulla. E da parte della società, della comunità, distratta dietro i bisogni reali e indotti, che cancella, rimuove, dimentica queste ‘brutte’ cose che sporcano il video dei sogni, l’illusione del bello e giovane a qualunque costo. Anche se, magari, l’anziano demente o il ragazzo ‘psichicamente labile’, o la conoscente immobilizzata in carrozzina, ce l’hanno in casa o sul pianerottolo. Ma soprattutto viene dimenticato chi invece non dimentica, chi sta lì di fianco, chi non si muove dal suo ruolo di cura. E allora, a questo punto, vorrei dire anche di quell’altra parte della difficoltà della cura. Che non viene quasi mai nominata, spesso anche proprio da chi la cura la pratica, mai indagata a fondo, perché quasi sempre è data per scontata. Dico la fatica a dimenticarsi di sé, a non lamentarsi se non sommessamente, con un po’ d’ironia magari, con quei modi ellittici appunto dello scontato, del risaputo: ‘be’, capirai…’ ‘non c’è bisogno che stia a spiegare…’ ‘tocca a me e non posso dire niente’. La fatica, dico, a non farsi ingoiare dal gorgo che si avvita intorno, a cercare di mantenere vivi sogni, desideri, sentimenti. Perché è un darsi che prende spesso anche tanto tempo di vita, da non lasciarne quasi più qualche brandello proprio, autonomo. Tante donne già avanti con gli anni, che si trovano a impegnare tutto il loro tempo residuo, compreso di progetti e sogni, per accudire i loro ben più vecchi genitori o suoceri, sapendo di essere lì lì per arrivare a loro volta allo stesso punto. Donne giovani o appena meno giovani che sono costrette a rinunciare a lavoro, interessi, amori, per occuparsi di figli o parenti con gravi carenze, spesso lasciate sole, senza sostegno sociale o familiare. Donne che, per quaranta e più anni della loro vita, si muovono nell’orizzonte unico della morte, della sofferenza estrema, della demenza. La nostra società da tempo ha smantellato il cosiddetto ‘stato sociale’. Di molte di queste situazioni pesanti – come la malattia mentale, ad esempio – se ne deve occupare privatamente la famiglia e nella famiglia una donna, chi capita capita. E chi lo fa per lavoro, se, come ho detto prima, lo fa da persona, non è diverso. Il tempo sarà più elastico, ma il peso mentale e emozionale e affettivo non cambia. Magari potranno concedersi in più un sospiro di sollievo alla fine del turno o un’irritazione senza morire di vergogna o senso di colpa.
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margaret woodward
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Ho un’amica, una brava persona, nubile, che è sempre stata legatissima a sua madre; una di quelle ‘rezdore’ emiliane, sua madre, tutta famiglia e pasta fresca fatta in casa con la cannella, magari anche il lavoro fuori casa. Quando è invecchiata e sono cominciate disabilità che non le permettevano più di fare le solite faccende, come tante di queste ‘rezdore’, è precipitata nella demenza. Da accudire giorno e notte, compito della mia amica, pur con l’aiuto di una badante. L’incontravo, le chiedevo, lei scuoteva un po’ la testa, poi magari qualcosa con gli occhi umidi: ‘non mi conosce, sai’; oppure: ‘se penso che donna di battaglia è stata!’; o anche solo: ‘almeno il gelato, lo gusta ancora’. Non poteva mai per il cinema, una cena, una conferenza. Poi ho saputo che la mamma era morta. Quando le ho chiesto: e adesso, come stai?, lei è come esplosa, senza potersi trattenere: ‘meno male che è finita, non ne potevo più’. E io, lì, davvero, io ci sono rimasta male. Tutta la retorica del mondo addosso a quelle parole: ma come, la mamma!, ecc. ecc. Poi ci ho pensato. A tutto l’amore che sono sicura la mia amica ha dato a sua madre, a tutto l’impegno prodigato, anche a quel vischioso senso di colpa che forse le strisciava dentro se osava avere un po’ compassione anche di se stessa. E allora? Ho cominciato ad ascoltare in modo diverso i resoconti delle quasi-tutte-donne ‘curanti’, a leggere tra i versi di poesie che pongono al centro il tu sofferente. Per udire e poter testimoniare un nocciolo cardiaco che raramente è messo in luce. Sì, della fatica ci si può lamentare, sì, del disagio di certi momenti, sì, dell’abbandono di tanti. Ma quasi mai di quel vuoto che ti scava dentro, che senti allargarsi in testa ogni giorno, che non puoi nominare coi nomi dei dottori – depressione, esaurimento o cose simili. Senti solo che è capace di smorzare le cose vive, di togliere potenza anche all’amore, all’offerta di sé. Io voglio invece che si dica, si sappia. Perché, tanto per cominciare, non per questo le donne che dico io smettono di fare. No, tengono duro, tirano avanti coi denti. Salvo, poi – alcune, ne ho conosciute – arrivare fino a morire subito dopo che l’impegno era finito. Questa tenacia è da essere vista, considerata, è una cosa grande, importante. E parlare della sofferenza e fatica della cura non sminuisce la ricchezza del dono della cura. La rende semmai più preziosa, la cura. Anche se non può essere lasciata così, al campo etico che attiene all’eroismo, al martirio, alla santità. Se ne parli anche per smettere di ignorarle, di lasciarle sole, di considerarle in ruoli scontati e destinati, le quasi-sempre-tutte donne curanti. Inventarci alternative di non più normale, ma straordinaria civiltà.
Chiedo scusa a priori a Roberta Dapunt, se dovesse sentirsi sminuita per avere io preso dalle sue belle poesie, che testimoniano amore, coraggio, fede, alcuni sussurri che svelano un poco del vuoto di cui ho detto. Per diverse ragioni, riporto a volte solo parti delle poesie. Mi dispiace sottrarne la bellezza integra, ma conto che qualcuno vada poi in libreria o in biblioteca a cercare il libro: Roberta Dapunt, Le beatitudini della malattia, Einaudi, Torino 2013:
orazione della mente pag.6
Proteggimi dal dimenticare, proteggimi dal non sapere,
dal non aver sentito, ascoltato, visto, guardato.
(…)
rimangano le infelici domande e le risposte.
La volontà mi sia stendardo.
Riparami dal nulla, difendimi dal non essere,
meglio la morte. Meglio la morte.
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il lavacro pag. 7
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Poggiano ai vapori nell’intimo dell’acqua
la pelle, il tuo collo, i capelli intrecciati.
Come a deporre un segreto, la nudità che nulla finge,
le braccia piegate aprono al petto le mani,
nascondono ritrose i tuoi seni, il loro pudore.
(…)
Tra poco aprirai gli occhi chiedendo di uscire,
a stento alzeremo insieme questo corpo.
Aspetto il tuo consenso asciugandomi il triste osservare di dosso,
stiamo immerse, ognuna nel proprio acquaio.
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margaret woodward
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dei sentimenti pag.9
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Fallire ogni giorno davanti al foglio di carta
e non riuscire, seppure contro il vetro finiscono i sentimenti.
Uno dopo l’altro si posano. Io a guardare, vederli rimanere
e incontrarli uno ad uno nella mia miseria, o meglio dire
non ho che da dare loro lo sconforto.
Che stiano lì, ad aspettare allora, poiché
non li so testimoniare, io non so far loro fede,
io non ho i mezzi per farli ritornare,
deporli così, uno ad uno sul foglio di carta.
E sì che loro stanno lì sul vetro ad aspettare,
aspettano indifferenti.
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l’inverno denutrito pag. 19
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E intorno, intorno volano uccelli affamati, i loro canti,
nel loro canto la mia babele.
(…)
Niente chiedo, ho nulla da desiderare tranne che di passeri,
allodole e gracchiante corvo la costanza.
Ho da darmi a loro, che sulla mensa caleranno le ali,
dalle mie gote sazieranno un miserabile istinto.
Poiché dal nulla null’altro.
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pag.35
Infrango, amandoti nulla, qualsiasi legge,
che qui ci rimane di misurare il tempo con le stagioni
e colmare le ore con vuoti rancori.
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il dialogo pag.38
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A nulla io dico, nulla tu rispondi.
Così ora tu sai ciò che io non sapevo,
tu racconti ciò che io non avrei ascoltato prima,
tu ascolti ciò che io non avrei detto mai.
Ci siamo necessarie, dunque.
Così poco basta ad essere fondamentale nei giorni,
seppure nei tanti libri, scritture espongono discorsi ideali.
Ce li teniamo sopra la testa, mentre il silenzio,
tu e io, dimenticate prima di aver dimenticato.
Che sia poetico forse anche il nostro tempo, Uma?
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pag. 46
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Per nulla è gridare, mai avuto pianto più solo.
E la pietà per me stessa. Tutto questo non ha senso.
Ma intorno l’aria ferma è punizione e disciplina.
Uguale prova a confermare quella di ieri e ieri ancora?
Provo disgusto di fronte al mio umore adeguato,
giorno dopo giorno l’uguale rimanere
e la compassione, che non mi da ascolto.
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tre righe al nulla pag.47
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Ho la neve dentro, ghiacciate le membra e la morte,
essa mi dorme intorno, indifferente
e non comprende il freddo. Non lo sente.
Milena Nicolini
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Roberta Dapunt, Le beatitudini della malattia -Einaudi 2013
So di entrare in un terreno minato e ringrazio Milena per la sincerità con cui ha espresso un difficile punto di vista. Cito da ” L’Anticristo ” di F. Nietzsche, a proposito della compassione: ” Sia detto ancora una volta:questo istinto deprimente e contagioso intralcia quegli istinti che tendono alla conservazione della vita e al suo potenziamento di valore: sia come moltiplicatore della miseria che come conservatore di tutti i miserabili, esso è un essenziale strumento per l’incremento della ‘décadence’ – la compassione persuade al nulla! (…) Questa innocente retorica, proveniente dal regno dell’idiosincrasia religiosa e morale, appare subito molto meno innocente , se si comprende quale tendenza si nasconda sotto il mantello delle sublimi parole: una tendenza ostile alla vita.(…)
Nulla è più malsano , in mezzo alla nostra malsana umanità, della compassione cristiana”. ( F. Nietzsche, L’Anticristo, Adelphi, Milano 2011, p. 8-9 ). E’ terribile. Da un punto di vista personale sento in maniera così forte questo pericolo di annientamento della forza vitale o come direbbe Nietzsche della ‘volontà di potenza’ che faccio molta fatica ad accettare un incarico anche temporaneo che mi ponga alla custodia di una persona anziana non più integra nel fisico e nella mente. Cerco di prendere tempo, vigliaccamente invento altri impegni, se sono costretto sento il peso di quel rapporto coatto che mi spaventa nel rispecchiamento di chi è ancora persona ma già non lo è più.Scrive Simone Weil ” Vi sono esseri più sventurati , che, non morendo, diventano cose per il resto della vita. Nelle loro giornate non vi è alcun gioco, alcun vuoto, alcuno spazio libero per organizzare qualcosa di propria iniziativa. ( …) è un’altra specie umana, un compromesso tra l’uomo e il cadavere. Dal punto di vista logico è contraddittorio dire che l’essere umano è una cosa; ma quando l’impossibile si fa realtà, la contraddizione diviene lacerazione nell’anima”. (S. Weil, L’Iliade o il poema della forza,, Asterios, Trieste 2015, p.46). Ecco cosa vivo quando mi trovo accanto come è successo ad anziani in lungodegenza o a giovani malati terminali accolti in un hospice: una lacerazione dell’anima. Sento questa contraddizione terribile, questa cosalità che è implicita nell’essere umano diventare troppo evidente per essere sopportata. Chi vive tutti i giorni in questo stato di assistenza si espone alle radiazioni di questo nostro essere morti già vivi, a quello che Freud, debitore a Nietzsche di varie estensioni del proprio pensiero, chiama ‘pulsione di morte’. Io non sono cristiano: ho detto prima che mi costa enormemente, ma è chiaro che darei, se me lo si chiedesse, la mia disponibilità per qualsiasi persona fosse in una condizione di cosalità, per non parlare dei miei famigliari: nello stesso tempo scalpiterei per andarmene, per uscire all’aria aperta, per correre, fare sesso, sentire tutta la vitalità che mi fa uomo. E’ giusto indicare che esiste questa contraddizione e non rifugiarsi in un lacrimevole pietismo o negli obblighi legati ai vincoli di parentela. Quando si evidenzia questa contraddizione, si può correre ai ripari anche da un punto di vista sociale e non lasciare irrimediabilmente solo/a, chi si occupa della persona che persona non è più. Ma gli ammortizzatori sociali nella nostra società non sono sufficienti e quello di cui parlo entra in una prospettiva utopica che non riguarda soltanto la fine, ma lo sviluppo della vita nella sua interezza, a cominciare dalla scelta di legarsi per la vita ad un compagno/a o di invece decidere di vivere in una dimensione di singolo.
Cara Milena, ho letto e condiviso tanti passaggi del tuo scritto. In questo periodo ho accanto una giovane donna straniera che assiste una persona molto vecchia per me importante. Direi che questa giovane donna, con la sua energia vitale, trasmette a Giovanna (93) anni piacere, voglia di vivere, sorrisi; lei mi manda le foto via via ed io penso che mai avrei avuto la forza di fare come lei, così bene, in modo così positivo. Ma quando vado – a sentire i dottori Giovanna non capisce più niente –
ricevo baci e abbracci ed una gioia che mi dice che lei non sa bene chi sono ma sa che è felice di vedermi. E’ difficile tutto ormai ma l’amore – se c’è – trova le sue strade. E le donne, molte donne, sono esseri speciali. Un abbraccio anche a Roberta Dapunt, bravissima Vit