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Giosué Carducci chiama una delle proprie figlie Libertà, eppure sostiene il governo liberticida e colonialista di Francesco Crispi; è repubblicano convinto, ma accetta di essere il padrino del circolo universitario monarchico.L’11 aprile 1901 arriva a Bologna, città dove Carducci risiede ed insegna, il divino Gabriele D’Annunzio per rappresentare la sua “ Francesca da Rimini”. In men che non si dica si allestisce un sontuoso banchetto nella sede del “ Resto del Carlino” dove il cantore civile e il raffinato esteta gozzovigliano. L’uno pulisce le labbra all’altro. Sono le due facce opposte e combacianti della poesia italiana già diventata accademia. Giovani poeti travestiti da camerieri si avvicinano ai due commensali e cercano, tra un bicchiere alzato e una forchetta affondata, di porre alcune domande fondamentali. Ma cosa si chiede a un poeta famoso che ancora le sue opere non abbiano rivelato?
Scrittura e cibo, mente e corpo. Un parere interessato lo offre François Rabelais in “ Gargantua e Pantagruele”. Panurge, si rivolge al vecchio poeta Ruminagattone (Raminagrobis) per avere un consiglio decisivo riguardo ad una decisione che cambierà la sua vita. Innanzitutto bisogna onorare adeguatamente il poeta:
“ Panurge, salutandolo, gli mise al dito anulare della mano sinistra, come semplice dono, un anello d’oro, nel cui castone stava uno zaffiro orientale bello e grande; poi, a imitazione di Socrate, gli offrì un bel gallo bianco, il quale, non appena posato sul suo letto, alzando la testa, con grande allegria, si scrollò le penne e cantò alto e chiaro. Fatto ciò, Panurge, gli chiese cortesemente di dire ed esporre il suo giudizio, sul dubbio del suo progettato matrimonio. Il buon vegliardo comandò che gli si portasse carta penna e calamaio. Il che gli fu prontamente dato. E lui scrisse quanto segue:
Prendetela, non la prendete.
Se la prendete, ben fatto;
Ma se poi non la prendete,
non sarà certo mal fatto.
Galoppate, ma di passo;
Rampicate, e andate abbasso.
Prendetela, non la prendete,
Ecc.
Digiunate, fate un bel pasto.
Fate quel ch’era disfatto,
Poi rifate anche il già fatto,
Augurategli vita e trapasso.
Prendetela, non la prendete.
(…) “
(F. Rabelais, Gargantua e Pantagruele, Einaudi, Torino 1993, trad. di M. Bonfantini, pp.389-390)
Sagge parole. Tutto quello che ci si può aspettare da un poeta. Un consiglio e il suo esatto contrario. L’alloro con cui si intrecciavano le corone per i grandi autori Rabelais lo usa per i mastodontici arrosti descritti nelle sue pagine. Dopo l’era gloriosa di Dante e Petrarca, Rabelais dissacra la figura del poeta e gli dà scarsissimo credito. Poi tornano i barocchi marinisti a prendersi un po’ troppo sul serio, poi gli illuministi a satireggiarli, poi crescono le anime belle dei romantici, poi pare che il colpo di scure definitiva sulla poesia sia data dai dadaisti, ma ecco che nascono nuovi poeti laureati e ancora a smerdarli beat generation e novissimi, fino alla attuale espansione galattica di miriadi di stelle nane, la sterminata blogosfera dove ognuno è poeta. L’unico infinito florilegio è la Rete in cui non è più possibile nessuna classifica di merito. La Rete è l’antologia senza possibilità di selezione. Ogni scritto è risucchiato nel collettore interspaziale: non so se sia un grave crimine o un’enorme libertà. Resta il dato di fatto. Alla luce di questa nuova evoluzione della scrittura è ovvio che il concetto di autoralità vada completamente ridefinito.
Ma allora, perché quando un autore presenta al mondo il suo ultimo libro di poesia, il suo discorso, come cento anni fa, ha lo stesso segno di una pomposa ‘lectio magistralis’? Perché le posizioni sono così fortemente segnate, il pubblico seduto da una parte e il poeta dall’altra dietro un tavolo, una cattedra, su una pedana, davanti a un microfono? La disposizione contrapposta prevede che la voce esca amplificata per raggiungere le file più lontane, gli ascoltatori più appartati. Il flusso verbale così congegnato prevede aura e isolamento per il poeta, soggezione e mescolamento coatto per gli spettatori. Se a poeta sganciamo la ‘p’ iniziale e la poniamo davanti ad aura, ecco che si forma la parola ‘paura’. Il poeta ha paura di fatto della posizione acquisita con la pubblicazione del suo libretto di versi, ha paura di mettersi in mostra e di incepparsi, di essere frainteso, di non arrivare. Ma la paura svolge essenzialmente un ruolo conservativo e così nessuno pensa che ci possa essere un altro modo di presentare le proprie poesie. Se la phoné non deve essere autoritaria , procedere cioè dall’autore a chi fruisce del suo privilegio, la disposizione fisica delle persone che partecipano all’evento deve essere del tutto diversa: ci si dovrebbe sedere a circolo, in modo che il fallo parlante venga evirato e messo da parte e che il poeta possa parlare e leggere liberamente come si fa di solito tra le pareti domestiche. Ogni partecipante deve essere poi dotato di una copia del libro e l’autore invita chi è disposto, a leggere una poesia tratta dall’opera, a rifletterci, a spiegargli il senso dal suo punto di vista. La poesia una volta scritta non è più cosa propria, se ne lascia finalmente il possesso ad altri ed è assai facile che il lettore possa illuminare l’autore attraverso un’interpretazione personale del tutto giustificata, coerente, profonda.
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alexander milov
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Una volta terminata la presentazione oggi ci si sottopone all’imbarazzante momento delle domande da parte del pubblico. Silenzio. Qualcuno alza la mano. Si mette in azione un movimento a ping pong asfittico o ridondante, un colpo il poeta, un colpo il pubblico, ma tutti accolgono con grande sollievo la fine della partita ed il conto alla rovescia verso il buffet o altre urgenze. Nella disposizione a cerchio invece non esiste cesura e passaggio tra il momento della presentazione e quello delle domande, la phoné ‘circola’ liberamente tra tutti i componenti del gruppo di lettura, tutti possono leggere, intervenire, suggerire, contestare…ci sarà del vino da bere a disposizione per chi ha la gola secca e per favorire la comunicazione.
Sono ingenuo? Ma perché? La poesia è l’unico settore letterario che non prevede il raduno di masse oceaniche per ascoltare le sante parole dei primi in classifica e dunque il modulo suggerito non presenterebbe grossi problemi di organizzazione. Una volta forse la folla si radunava per ascoltare Montale o per partecipare ad un meeting organizzato dal gruppo 63, quando spiravano venti di battaglia e di rinnovamento. Ma quale poeta oggi raccoglie alla sua presentazione più di una trentina di persone? La morte della Storia della letteratura, epifenomeno fra i tanti della crisi postmoderna, ha fatto in modo che la mancata antologizzazione smussasse la popolarità degli autori, i poeti coltivano un proprio campo spesso distante da quello degli altri, ognuno sparge il becchime per i propri uccellacci e uccellini. Oggi il campo è recintato di solito dai paletti virtuali di un blog on line, da una fruibilità e da una discorsività quasi esclusivamente regolata dall’accesso alla bacheca della Rete.
Esiste in effetti un altro aspettuccio da tenere in considerazione, l’elemento che mette in crisi a priori ogni tentativo di approccio comunitarista e condivisivo. Mettersi in cerchio? Ma dai! L’unico cerchio di cui molti si intendono è quello variopinto e stupefacente che riescono a formare con le penne della loro coda di pavone. Il narcisismo non prevede nessuna soluzione innovativa, la vecchia e consolidata contrapposizione io da una parte e voi dall’altra rimane la sola che possa permettere l’appagamento di un istantaneo effetto specchio.
Ma io invece sono per una poesia no selfie.
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alexander milov
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Anna Maria Farabbi l’otto aprile a Modena, non ha presentato il suo ultimo libro di poesie, ma la sua esperienza. Ha disposto nella sala che l’accoglieva i lavori degli ospiti della struttura psichiatrica di Torre Certalda. Li ha disposti a terra e lei era guardinga, preoccupata che qualcuno potesse calpestare quei fogli vergati di scrittura. Ogni tanto interveniva come a scacciare delle galline che le invadessero l’orto, ma sgridava con allegria e delicatezza. Forse sarebbe stato opportuno lasciare all’ingresso le scarpe, come per entrare in una moschea: la presentazione si svolgeva nell’atrio di un cinema in disuso, ma lì nella piazza, che è solo uno svincolo rotatorio per auto rumorose, si erge la mole esotica del Tempio. Sempre più si chiudono cinema e si costruiscono rotatorie.
Ma quando ha iniziato a raccontare della sua esperienza di poeta, degli esordi e dell’indifferenza del padre, di come la vera poesia nasca dal trauma e poi all’altro capo della storia, di come come essa si diriga erratica ed eretica verso gli altri e soprattutto verso gli ultimi, Anna Maria Farabbi parlava davanti ad un pubblico contrapposto e usava un vecchio microfono col cavo che ogni tanto fischiava come un vecchio serpente per il Larsen. Le auto sfrecciavano rombando , un’autoambulanza metteva in azione le sirene e il nostro incontro di poesia era separato dal frastuono solo da sottili lastre di vetro che, incardinate, costituivano le porte d’ingresso del foyer. La poesia è resistente, è un presidio, una tenda nel deserto, un igloo tra il ghiaccio che si scioglie, una fluida e salda riflessione in mezzo al caos della città. Anna Maria Farabbi è un poeta no selfie, condivide la poesia con i suoi matti, resiste come un giunco affilato di fronte ad ogni possibile tempesta segnica. Avrebbero dovuto farlo gli spettatori – una trentina – uscire rabbiosi e fermare il traffico, urlare che là dentro c’era la poesia e non bisognava disturbarla a quel modo. Oppure portarli fuori i lavori e gli scritti dei matti, disporli con cura sull’asfalto ed attendere un miracolo veicolare.
La vocazione poetica di Anna Maria Farabbi- passi che battono la terra e segnano un cammino da seguire – mi riconduce all’esperienza di Franco Arminio. Franco Arminio è un ‘paesologo’, si occupa cioè di borghi italiani e delle comunità residenti che corrono il pericolo costante della dispersione e della scomparsa. Nel suo ultimo libro “ Cedi la strada agli alberi” , lo smarrimento dilaga nel mondo della poesia dove la rarefazione informatica – le isole su cui i poeti retaioli piantano la propria bandierina, le nuvole su cui ognuno di loro si scatta il selfie – rende molto difficile l’aggregazione di arcipelaghi o, per rimanere nella metafora, l’accumulo temporalesco, aggressivo e fertile nello stesso istante. Ci si dà la voce da una vetta all’altra, ma non esiste nessuna possibilità di contatto fisico, nessuna possibilità di una phoné circolare, nessun progetto disobbediente e ribelle. Invece Arminio nei suoi manifesti posti in conclusione della sua opera vuole accreditare un solo tipo di scrittura: quella che contro l’attuale e mediocre sovraesposizione mediatica possa realmente “gettare scompiglio nella parata”: “ La letteratura non può ridursi a un ballo in maschera. Gli scrittori devono mettere la propria faccia in ogni riga che scrivono. Scrivere è un martirio oppure non è niente. Per divertirsi e per divertire ci sono altre cose, forse, La letteratura è un luogo in cui ci si affanna a costruire nuove percezioni dell’umano. Chi si sporge, chi si pone in bilico è meno elegante e per questo merita di essere consolato. (…)
Ci sarà sicuramente un giorno in cui neppure un filo d’erba parteciperà alla parata. La nostra mente può andare già adesso in quel punto, farsi fecondare da quel buio e con quel buio stare nella luce che abbiamo adesso, la luce degli angeli e del sole, la luce delle piante e degli occhi. Scrivere significa gettare scompiglio nella parata, non lasciarla fluire come fosse una volgare scampagnata”
( F. Arminio, Cedi la strada agli alberi, chiarelettere, Milano 2017, p.145)
E proprio alla fine: “ In Rete non c’è un nostro testo, il nostro testo entra in un libro infinito a cui ognuno aggiunge la sua pagina. A volte sembra quasi che per avere la sensazione di essere letto devi strapparla la tua pagina, devi sparire. L’unica pagina che viene letta è la pagina bianca”. ( ibid., p.149)
Sono punti di vista coraggiosi che condivido in pieno. Peccato però che in quarta di copertina siano stampigliate in verde queste parole: “il nuovo libro di Franco Arminio, le più belle poesie del poeta italiano più seguito sulla Rete”. Ma di questo chiederò conto all’autore alla sua prossima presentazione.
Sono stato invitato a presentare il mio libro di poesie a Genova. Grazie. Il luogo che mi ospita è una stanza piccola e bellissima, di fianco a Palazzo Ducale, sulla centralissima Piazza Matteotti. Non posso iniziare prima che un corteo di manifestanti finisca di celebrare con tutto il chiasso possibile l’Antifertility day. Ora posso. Ma mentre leggo le mie poesie arriva un gruppo di suonatori di bongo africani. Che ritmo! Mi trovo a disagio: io dentro con il microfono, lo sparuto gruppo di ascoltatori seduti di fronte a me, fuori la confusione della piazza. Per un istante mi passa per la testa un’idea folle che blocco e controllo a costo di copioso sudore e di crampi allo stomaco.
La soluzione non sarebbe invitare tutti là fuori e provare a comunicare ciò che penso e scrivo alle donne indignate, ai senegalesi che fanno festa, a tutti i cittadini colpiti dai raggi del sole che sta tramontando?
Paolo Gera
Caro Paolo,
ho letto il tuo intervento intitolato Poesia no selfie. Siccome non sono riuscito a ricavarne con chiarezza il cui prodest, vorrei tornare su alcuni punti con qualche domanda, esponendoti anche il mio sentire. Il primo (ma forse l’unico) punto riguarda la figura del Narciso. Consentimi già su questo una nota leggera (Oh, la leggerezza! Non è più quella di una volta!). Due amici si trovano a caccia, una lepre fugge dal covo, quello che ha l’arma prontamente la punta ma poi l’abbassa. L’altro gli chiede perché non ha sparato e lui, sorridendo: cosa vuoi che gli spari, a quella velocità prima o poi s’ammazza da sola. Già, di che o di chi stiamo parlando? Il primo Narciso che si conosca è il Serpente della mela, il quale continua a nascondersi nei posti più impensati: l’Enotrio o il Vate, evidenti, ma di loro che cosa si continua a leggere? (Io mi sento grato con ogni poeta che sia riuscito a lasciarsi dietro una manciata di testi leggibili, e gli abbuono pure i suoi riti spenti). Perché perdura l’attrazione dell’Angue? Perché ha fatto un capolavoro! Non ci sono Narcisi nel web poetante, nei circoli, nelle espansioni, nelle esposizioni, nelle performances poetiche, nelle ritualità altre? Magari nascosto nella selva poetica piena di “esperienze”, umanitarismo, emarginazione, sofferenza umana, guerre, naufragi, ingiustizie sociali, alienazione…(brutto mondo! Tutte cose che anche fanno star male, lasciano meditabondi con sensi di colpa).
Già che ci sono, voglio dirti che la maggior parte delle “cose” che leggo per mio interesse o come inediti da esaminare o sul web, più che poesia mi sembrano, quando non un andare per libere associazioni, un catalogo, magari talvolta ordinato e “montato” discretamente, di “materiali” grezzi (quanto narcisismo gratis in soluzione), che si potrebbero affidare a qualche Narciso in gamba per trarne della poesia. Mandel’stam, che se n’intendeva, trascurando quello Apparente, ha insegnato a individuare senz’altro il Narciso Effettivo che, guarda caso, coincide anche con il poeta mediocre o nullo. Lo ha fatto, per esempio ne Dell’interlocutore (1913), citando testi di Boratynskij (E’ povero il dono e timida la voce,/ ma io son vivo; dunque è cara a qualcuno…) e Bal’mont (Saggezza non conosco valida per altri…), con queste parole: “ Quale contrasto tra il tono sgradevole di questi versi, che tradiscono il tentativo di cattivare la benevolenza del lettore, e la dignità modesta” dei primi. “Bal’mont si giustifica, quasi si scusa. E questo è imperdonabile, inammissibile per un poeta: è l’unica cosa che non si possa perdonare. Poesia è coscienza della propria raagione. Bal’mont non possiede questa coscienza. Ha evidentemente perduto il punto d’appoggio…”
(Tutto ciò che ha scritto Mandel’stam sulla poesia andrebbe continuamente tenuto sotto mano, insieme con le sue poesie, profonde e leggere, che gli hanno accelerato la morte in Siberia per ordine di Stalin, genio delle migrazioni, il quale ha consunto qualche milione di russi facendoli andare da una parte all’altra sui treni, fino all’ ultima fermata nel gelo artico. Ed erano poesie “innocue” ma non perciò meno eversive, come tutte le poesie-poesie, che pur trattino di un respiro, di un fiore). Ma procediamo con ordine (nel disordine della questione, beninteso). Incontriamo altre manifestazioni del pericoloso Narciso: uno che fa una “pomposa lectio”; uno che “ ha paura del libro che ha scritto” (che sia un seguace di Bal’mont?) e, finalmente, un “fallo parlante” (scusa, ma non ho potuto non sorridere pensando al parricidio e all’invidia del pene, bazzecole, anche se tu ben presto prevedi l’evirazione). Per forza Rabelais castiga tutta questa marmaglia, compendiata nel Nasciso! Ogni tanto ci vuole, come sottolinea il tuo commento alla sublime canzonetta del francese: tutto quello che ci si può aspettare da un poeta… Beh, qui, devo dire, si capisce, tanto più che affermi che il “concetto di autoralità” dev’essere ridefinito. Un po’ dottorale, ma efficace: il poeta non esiste più, dove lo trovi? L’ “individuo” non esiste, in questo porcaccio mondo! Arminio, che tu citi più volte, non sembra d’accordo, piuttosto propenso ad esporsi, a prendersi le sue (Annamaria Farabbi rimane più defilata ma attivissima). Ma tu lo becchi subito in castagna perché si è lasciato sfuggire quella frasetta in verde che manifesta la pericolosa tendenza ad attirare l’attenzione sul suo libro. Posso dichiararmi subito dalla sua parte? Verde! Via libera! Leggete il mio libro! Al contrario di Rabelais (sia detto con rispetto) e di te (pure) io da un poeta mi aspetto anche questo, a patto che abbia scritto qualcosa di leggibile. Ecco il punto, come dicevo all’inizio: di chi e di che cosa stiamo parlando? Tutto dipende da questo, e di questo ti chiedo ragione.
Lasciamo stare il poeta, per un momento, anzi no, perché qualcuno deve averla scritta, la benedetta poesia a cui vorrei arrivare, a meno che non siamo alla phonè
che se ne va per l’aria senza scomodare nessuno, dopo l’illusione storica della comunità poetante. Naturalmente so che ci sono tante poetiche quanti poeti e di più, ma tutti quelli che con la poesia hanno un rapporto serio si rendono conto di certe condizioni che la riguardano: è merce rara; si arriva a sfiorarla grazie a lunga pratica di lettura, applicazione, lavoro, insuccessi… aggiungo: individualmente, anche se talvolta in dialogo con persone affini; e s’ impara a riconoscerla nel gran bazar. Allora si capisce che è come una goccia dell’ultima boccettina dell’aceto balsamico, partito dal contenuto d’una grossa botte, negli anni evaporato e ridotto al meglio dell’essenza. La poesia è sintesi. Si “sa” che è lei, non solo e non tanto perché emoziona, ma perché si capisce che non può essere che così. Sì, certo, non è mai finita, perfetta, lo scacco è la sua natura, la morte ecc. Ma è quella. Il poeta? Ma sant’iddio, tu che poeti frequenti? So che in giro ce ne sono d’insopportabili, ma non è obbligatorio andarci dietro. Se non ci s’andasse sarebbero meno noti e meno insopportabili. Io, come ho già avuto occasione di dirti, sto con un gruppo di amici poeti che lavorano con dedizione al servizio della poesia, persone tutt’altro che piene di sé, che si portano in giro i libri che pubblicano (come editori soprattutto, ed autori) per esporli ai 24 astanti, che ne acquisteranno alcune copie. E queste vendite consentiranno, forse, di sopravvivere, di pubblicare e far conoscere altri testi meritevoli di essere letti. Un lavoro pazzesco, sulle spalle di uno o due, alla fine, senza scopo di lucro, puro volontariato, passione, abnegazione, sacrificio, amore, realizzazioni stupende, senz’altro sotto il profilo grafico-editoriale. Annamaria te ne può dire. A chi spariamo? Già la poesia è qualcosa che non comunica, non è suo compito, che si esaurisce nell’atto di essere se stessa. E gran parte di quel diffuso scrivere sotto questa etichetta, di pubblicare, di comparire in tutti i modi (altro che Narciso!), sarà bene “comunicazione” con elementi poetici, per carità. Mi piace pensare che la poesia sia come le pagliuzze d’oro nel torrente (rarissimo il filone nella roccia). Ma da una parte il flusso, dall’altra il silenzioso cercare, il magro bottino, il faticoso procedere, probabilmente la fine nel silenzio. Domando ancora: a chi spariamo? Nel tuo pamphlet il destinatario della palla sembra essere il Poeta Emergente (o Emerso), che in quanto tale dev’essere un Narciso, che in quanto tale dev’essere un Individuo. Si vergogni! Vuoi mettere la poesia scritta da Nessuno (ce n’è tanta in giro): molto meglio!
Luigi Bressan
carissimo Gigi, hai spalancato porte, finestre, hai aperto ponti e minato con l’affilata grafite della parola tesi per costruire sintesi e non ti sei fermato nei campi degli “elisi” tagliando la testa alla serpe che, tra tutti, dichiaratamente si serve di quel pungolo che tutti abbiamo in corpo ed è la sua lingua, biforcuta e ricca, trasgressione che ci con-sente di guardarci allo specchietto dove le allodole cantano la loro lode o cadono perché la notte le inghiotte. Così le parole, tutte, tessute annodate, ritorte, bruciate o arse vive, pur sono tutte vuote, vuote di quel noi, che mai prende il posto dell’io, uno ion-e che si guarda nel fiume, dove scorre ogni attimo pur essendo di-versa-mente il medesimo, una goccia senza volto e senza storia, se non quel fruscio del vento, che soffia, che soffia o…sibila dal suo tronco qual- cosa.
Sono stata volutamente ambigua e os-cura, ritengo ogni parola un vano, come in un’architettura ma è “nel vano della parola” che ancora ci perdiamo restando ciascuno un’isola, si-lente o silenziosa.
…
Ahimè! Ah vita! Di queste domande che ricorrono,
degli infiniti cortei senza fede, di città piene di sciocchi,
di me stesso che sempre mi rimprovero (perché chi più sciocco
di me, e chi più senza fede?)
di occhi che invano bramano la luce, di meschini scopi,
della battaglia sempre rinnovata,
dei poveri risultati di tutto, della folla che vedo sordida
camminare a fatica attorno a me,
dei vuoti ed inutili anni degli altri, io con gli altri legato in tanti nodi,
a domanda, ahimè, la domanda così triste che ricorre: che cosa
c’è di buono in tutto questo, ahimè, ah vita?
Risposta:
che tu sei qui, che esiste la vita e l’individuo,
che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi
con un tuo verso..
Walt Whitman
Ti abbraccio forte e aggiungo non un narciso ma un ranuncolo che mi è spuntato dal piede
ferni
sono solo frammenti
per me non ho niente
nemmeno le idee mi appartengono
loro vanno vengono
di tempo in tempo
da un luogo all’altro
da questo e quello
sono solo un estremo
e ciò che faccio è sconfinarmi
f.f.- scatti rubati
Non mi addentro nei criteri di distinzione-giudizio circa la ‘vera’ poesia; il mio grande maestro Luciano Anceschi restava saggiamente sospeso e più o meno concordava che il filtro del tempo era attendibile; quasi sempre, aggiungo io, se è pur vero che storia, civilltà e cultura, le fanno i ‘vincitori’, di guerre o di classi. I poeti, allora diciamo: più o meno poeti, sono comunque donne e uomini; quindi, tra l’altro, vanitosi o modesti, sobri o barocchi, altruisti o autocentrati, invidiosi o solidali, ecc. Credo che sia giusto e possibile, indipendentemente dal valore dell’opera – o forse proprio per il valore dell’opera? – guardare criticamente il loro modo di proporsi e di stare nella comunità, così come facciamo con giornalisti, politici, vicini di casa, amici. Cui prodest? Alla nostra capacità di sguardo autonomo (per quel che può) e di giudizio, indipendentemente dalle aure, dalla fama, dall’appariscenza. Il nostro tempo storico è il tempo dell’ ‘apparire’ al grado massimo degradato (c’è un senso, infatti, ‘normale’ del bisogno di apparire, se il sapiens è animale sociale, a cui necessita il riconoscimento del gruppo, e che ha comunque bisogno del rapporto con altri simili-diversi per ritagliarsi anche individuo): intendo, cioè, che si tratta dfi un apparire molto in superficie, se non proprio inattendibile, in quanto conforme più ai canoni mediatici, spesso inquietanti e deleteri oggi, che alla necessità di far conoscere e accettare la propria realtà. Come se, a volte, non ci fosse più nessun ‘essere’ dietro l’ ‘apparire’. Credo che di questo Gera fosse soprattutto preoccupato, viste anche le sue continue indagini nella comunicazione attuale più diffusa e più acriticamente assorbita. Nello specifico, poi, penso che la POESIA non sia così al di sopra di tutto da non tollerare uno sguardo critico all’autore. Se è vero che conta l’OPERA (ma lo intenderei nel senso di un possibile -forse auspicabile – anonimato della stessa), però mi permetto di manifestare un’enorme simpatia per chi, ad esempio, fu poeta in una vita di grande rigore e coerenza e partecipazione, il quale, magari, se poi lo ottenne dal suo tempo e dal tempo successivo, comunque si diede da sé il riconoscimento del suo essere poeta, addossandosene la responsabilità: “I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando”, certo con orgoglio, ma senza dimenticare di riconoscere il valore di un altro poeta, fosse questi maestro (“il padre/ mio e di altri miei miglior che mai/ rime d’amor usar dolci e leggiadre”), o fosse solo l’amico che avrebbe meritato “per altezza d’ingegno” di essergli accanto. E confesso un’altrettanto grande insofferenza per chi, con sospettabilissima contrizione, chiede a “Voi, ch’ascoltate in rime sparse il suono/ di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core/ in sul mio primo giovenile errore,/ (…)/ spero trovar pietà, non che perdono (n.b. l’anacoluto che di soppiatto sposta il riflettore da ‘voi’-lettori a ‘io’-poeta)”, quando poi sollecitò a lungo dalle capitali della cultura la laurea ufficiale di poeta. Certo: tempi diverse e diverse opportunità, le loro. Come per ogni vita, aggiungo. E a questo proposito vorrei precisare, per fare un esempio, che non definirei un generico tenersi in disparte quello di Anna Maria Farabbi. La quale sceglie spesso piccole e quasi invisibili case editrici non a caso; e non a caso frequenta pochissimo le grandi kermesse della visibilità autorale. Senza rinunciare al contatto con chi la legge, che avviene spesso senza grandi clangori, in gruppi anche piccolissimi di lettori, in modo comunque molto profondo, occhi negli occhi e parole scambiate, come dice Gera dell’incontro a Modena. Ma non è questo per me che fa la differenza. ‘ invece che dietro, a fianco, intrecciata alla sua poesia c’è una importante azione civile e amorosa di accoglienza degli esclusi dalla nostra comunità sociale, accoglienza fattiva faticosa ostacolata non conosciuta non esposta sul webb, accoglienza che non attiene a quel buon fare che tanti di noi attivano una tantum per beneficenza o similia, ma si fonda su scelte etiche e civili profonde, non ultima la lezione di Aldo Capitini. Mi si permetta: chapeau!
B.T.
Credo che la scrittura, anche quella poetica, non abbia reticolati. A meno che non sia scrittura di potere. Chi scrive (non) è colui che vive, intendo dire che potrebbe esserci un/a eremita che scrive senza per questo coltivare relazione pubblica con nessuno, ed avere profondità di contenuto ed ampiezza di sguardo indipendentemente dalla sua vita personale e soprattutto dalla sua esposizione pubblica: verso un/o, come un milione.
L’individualità della parola portata oralmente, si perde o si accentua, dipende, quando chi la porge la offre attraverso la scrittura, in questo caso non c’è alcuna figura che si pone allo specchio di chi ascolta, ma è il lettore stesso che nella scrittura-specchio si guarda. Se la prima, la parola portata fronte a fronte, la persona è l’esercente e l’esercizio da superare o da cui lasciarsi o no coinvolgere, nella scrittura l’incontro avviene nel sé di chi legge, non esiste l’autore e la sua storia personale, non esiste immagine, a meno che non si rincorra chi la pubblicità ha erogato fino alla nausea in canali mediatici per cui leggo la modalità con cui sono stato narcotizzato.
Penso che ci siano autori che hanno una grande offerta di contenuto e ampiezza di sguardo e mettano impegno in ciò che fanno senza però esporsi al pubblico, sia questo un cerchietto minimo o una folla da calcio! Il rigore è quanto pare non interessi e un lavoro sulle proprie muscolature cerebrali e …sensibili!
premetto che non sono poeta e leggo poca poesia. A mio avviso viviamo nell’era delle visioni. Ha vinto il nemico che Pasolini voleva uccidere: lo schermo e tutti i suoi attori. Siamo andati oltre la banale televisione, la rete sembra un demonio democratico, tutti spacciano e si spacciano. Finalmente il sistema ce l’ha fatta, ha creato un mondo di tossici, direbbe lo scrittore inventore. Forse lo scrittore politico vedrebbe questo fenomeno come la fase normale di una delle tante crisi culturali, pronte a scatenare caos e confusione. Io sono confuso ed ero indeciso se scrivere queste parole.
Penso che tornare a leggere per leggere sia la cosa più importante ( oltre ad essere ancora una delle cose più belle ). Leggere e condividere con più persone così come si condivide uno sciopero, una barricata, una cena amicale, la miseria sociale. Si condivide anche la bruttezza civile e noi viventi ne siamo testimoni. Possiamo provare tutto, tranne disturbare i soliti tiranni che incidono sulla circolazione delle idee, del pane e dei diritti. Proviamo la presentazione che descrive Paolo Gera o la presentazione a mano armata o tra intimi, vedremo. Credo che noi sapiens siamo una specie strana, diventiamo grandi senza essere adulti, con un discreto delirio di onnipotenza. Come sarà vista in futuro questa fase? Non lo so. Per ora resto con la voglia di leggere e con un grande punto interrogativo.
Mi scuso per la confusione ma è ciò che mi tormenta da tempo.
Lungi da me giudicare l’opera attraverso l’operato dell’autore. Mi piace la poesia del Petrarca. Ma non mi piace lui, Petrarca. E credo sia legittimo guardare all’autore, membro responsabile di una società, come a qualsiasi altro essere sociale, per come si muove, agisce nella società, verso cioè gli altri con cui è in comunità. E guardare a come si propone, a come si atteggia, ecc. Come guardo al mio vicino di casa o al politico di turno o a me stessa. Poeta non è sinonimo di inquilino di una ‘torre d’avorio’. Certo, come chiunque può starci, ma io, come chiunque, posso fischiarlo in piazza o in un commento di rete. Non in nome dell’opera, ma in nome di un bisogno che il nostro tempo ha.
Caro Luigi,
non mi par vero che il mio articolo abbia ridestato la vis polemica di qualcuno e soprattutto quella di una persona che stimo molto come te. Ne ho apprezzato l’ironia , con cui impallini la lepre che si è esposta nella radura senza correre via il più velocemente possibile: io. Il mio però non era tanto un attacco al poeta in sé , ma alle attuali possibilità di comunicazione della poesia, ad una sua necessaria ridefinizione ontologica : la disseminazione infinita su Internet, l’impossibilità di antologicizzare se non a breve periodo, la segregazione volontaria sulla nuvoletta personale e là sopra la masturbazione verbale, tanto praticata da diventare auto-aura. Un tempo Narciso si trasformava in un fiore, ma il fiore diceva il suo nome ad un poeta che già stufo a vent’anni del proprio narcisismo, dopo aver rincorso l’alba, si faceva mordere da altri serpenti immaginativi e correva a far danni in Africa. Ma non siamo stati noi, a caccia di geni bambini, a far diventare Narciso Rimbaud? Lui La sua scelta l’aveva fatta. Mandel’stam neppure scriveva le sue poesie sulla carta, ma le fissava nella sua memoria come un aedo. Eppure qualcuno è riuscito a leggergli nella mente e a punirlo severamente per i suoi versi. Il problema dei Narcisi di oggi è che sono bloccati allo stato primario di chi contempla il riflesso e poco propensi alla metamorfosi, che ovviamente comporta dei rischi. L’evoluzione informatica della comunicazione consente a ciascuno un posticino confortevole in cui rimanere a specchiarsi. Perché uscire da quel calduccio? Insomma, il mio era un invito, molto ingenuo probabilmente, a rimetterci in gioco e a ridare una finalità politica, cioè comunitaria, alla poesia. Scendere dall’Acropoli – quanti tempietti in cui ognuno celebra il proprio Io – per tornare all’agorà. Ognuno a suo modo. Anna Maria legge le sue poesie ai suoi matti, ne discutono, riceve risposta. Io a scuola provo a far scrivere brevi poesie alle mie alunne rispettando rime e ritmi, non va bene? Cosa definisce un poeta oggi ? La sua indiscutibile bravura o la sua appetibilità in vista di possibili e astruse operazioni di marketing? Ma forse non è più possibile neppure identificare una linea discriminatoria e allora vale la pena di ritrovarsi come fai tu con i bravi poeti che conosci a leggere le vostre cose e a discuterne. O forse come fanno quelli del Mep , attaccando in anonimo le loro poesie ai muri delle città ( anche se alcune sono oggettivamente orribili ).Sarebbe bello che questi nuclei resistenti però trovassero magari un filo telegrafico che li mettesse in comunicazione. Mi sento molto anni Settanta, sono assai solo e confuso deliro, muovendo spade immaginarie come Don Chisciotte. Probabilmente è un modo per reagire a tutta l’amarezza, anche quella che provo nei confronti dei Narcisi delle esperienze umanitarie. La conosci no, la poesia: “ In questo mondo colpevole che solo compra e disprezza/ il più colpevole sono io inaridito dall’amarezza”. E allora via, ci do dentro, mi butto e mi batto, smanio, spero di cambiare qualcosa, forse scrivo eresie…ma come sono invece insipidi, neutri e palliducci gli articoli su certi blog! Allora mi tengo il mio umore, il mio furore, il mio sale.
…e perché non nominarlo…anche lui ha la sua dose di coraggio, insomma che cosa sarebbe se si scrivesse senza cuore?
Interessante articolo e commenti.
Ho letto come semplice lettrice quale sono e devo dire che i selfie lasciano il tempo che trovano io guardo al mio sentire. Al mio sentire che nell’attimo che leggo la poesia, la “sento”. Ed è questo sentire che unisce il mio “essere animo” a quello del poeta.
Poeta che non sempre si conosce, ma in quel momento aprendosi porge il suo pensiero. Pensiero, si…perché non è solo anima e cuore la poesia: è la persona nella sua interezza dove sono interessati e partecipi tutti gli altri organi.
Penso, e mi scuso nel ripetermi in ogni dove, ai poeti sardi. I pastori erranti che dalla montagna scendevano nel campidano e che poetavano nel silenzio gorgogliante della natura.
I pastori mica sapevano scrivere, non erano laureati…la loro poesia era il quotidiano, era ciò che li circondava, era l’assenza della famiglia, erano le cibarie che portava con sè…E tante loro poesie si possono trovare ancor oggi tramandate solo oralmente e poi successivamente messe per iscritto dai nipoti scolarizzati.
Niente selfie ma una poesia di accompagnamento, per vincere la solitudine, forse.
E al rientro con gli amici “poetare” “Sa poesia a boghe”, poesia improvvisata e, quindi, cantata; poesia a “botta e risposta” ironica e pungente, salace per divertire.
Condivido la forma: nel presentare la poesia è importante, non fondamentale, il modo di porsi del poeta.
Ricordo sempre e sempre l’imbarazzo provato a una presentazione di poesia quando l’autore si è messo a leggere. Son strana…ma per me la poesia è una lettura intima, almeno con poche persone.
Io sono fuori dal mondo editoriale, dalle gare, dal narcisismo; come lettrice io bado alla poesia. Poi è chiaro se conoscono l’autore, il suo impegno e, soprattutto il suo essere persona umile beh…mi conquista.
Spero di non essere uscita fuori tema nel caso perdonate.
un saluto
.marta