silvia camporesi – planasia 2013
In un giorno di fine gennaio, nel 2017, più di cinquecento persone sono entrate in questa storia verso le nove e alle diciassette, quattrocento di loro, ne sono uscite. Ottanta sono rimaste chiuse nelle loro celle. Le altre hanno oltrepassato diversi cancelli, prima serrati, poi aperti e subito dopo richiusi. Tra uno stridere e l’altro, delle inferriate, le quattrocento hanno camminato per lunghi corridoi, con le finestre senza maniglie e con le sbarre. Rosse. Superata l’ultima soglia, hanno potuto guardare il cielo, senza alcun limite. Azzurro. Solo una trentina è entrata ed è uscita, come fa ogni giorno, perché dentro ci lavora. Alcuni in divisa blu, altri senza, i volontari. Visi come tanti. Una moltitudine di personaggi, in questa storia che si chiama: Carcere.
Quel giorno, per otto ore, nella stessa grande scatola di cemento, un campo di basket, tutta quella gente ha condiviso sguardi, pensieri, riflessioni, lettere, sul tema: fine pena mai o pena di morte nascosta. La maggioranza ha seguito seduta, altri in piedi sugli spalti. C’erano anche quelli che curavano l’audio, quelli che riprendevano con la telecamera, quelli che seguivano la vendita dei libri e dei calendari della cooperativa: Altracittà, quelli che alle tredici hanno dato da mangiare agli affamati e alle quattordici, offerto te e caffè. Anche alle quindici, alle sedici, fino alle diciassette. Perché, in quella scatola di cemento, il freddo era un tormento e intorpidiva le membra. Alla regia degli spostamenti, coordinatrice e infaticabile donna-ponte tra il dentro e il fuori, Ornella Favaro, direttrice, da diciotto anni, del giornale Ristretti Orizzonti, il bimestrale dei detenuti del Due Palazzi di Padova.
Tra tutti c’è un testimone infreddolito, che ascolta le parole dei relatori, sull’ergastolo ostativo, marchingegno terribile che pone in essere la fine di ogni possibile speranza, per chi mai potrà uscire dalla scatola di cemento. E mentre ascolta gli rimbalzano, nelle orecchie, le parole della sua vicina di casa, che ha salutato prima di andar via.
– Ma come va in carcere? E che ci va a fare? E non ha paura?
– C’è un convegno.
– No. No. Io non ci andrei. Non si sa mai, quello che può capitare. Mica…
– Mica?
– Mica sono buoni, quelli. Stia attento.
Si gira attorno, il testimone infreddolito, sa che i cattivi sono seduti in modo sparso tra tutti. Ma per quanto si sforzi, non riesce a identificarli. Tutti indossano sciarpe e giubbotti, cappotti e guanti. Chi saranno? Intanto alza gli occhi al soffitto e vede che le due lastre di cemento, che lo costituiscono, sono tagliate e unite da un plexiglass curvo che permette alla luce di entrare, non con grande enfasi, protetto com’è da una rete metallica a maglie strette. Ebbene su quella superficie opaca, sopra al cemento, nell’aria, vede delle zampette che compaiono e scompaiono. Parti di un corpo, il resto invisibile. Come non pensare agli uccelli e alla loro libertà. Il testimone infreddolito, lo fa.
Intanto si alternano ai microfoni, quelli che studiano i diritti dei detenuti, per riflettere sul come combattere il male, che tutti sono in grado di fare, e individuare il percorso rieducativo che si può intraprendere, perché, come scrive in una lettera, inviata alla coordinatrice, Agnese Moro: dentro ognuno c’è qualcosa di buono che deve essere illuminato. Subito dopo, il magistrato di sorveglianza, che prende la parola, rende chiaro come i permessi di uscita non possano essere dati a chi vive in regime di ergastolo ostativo. Poi la parola passa a una figlia di un ristretto, in regime di 41 bis, che racconta la sua vita di bambina, che fino a sette anni non ha mai toccato le mani del papà, se non dietro ad un vetro. E diventata ragazza, ha conosciuto il disprezzo di chi l’additava, come la figlia del carcerato a vita. L’ergastolo non è solo di chi sconta la pena, ma anche dei famigliari, costretti a seguire il proprio caro nelle città in cui viene trasferito. Il detenuto, soggetto a una pena lunga, non può mai rimanere per tanto tempo in uno stesso carcere. Il testimone infreddolito, alza gli occhi al soffitto. Ora gli uccelli posati sul plexiglass sono tre. Chissà quante volte uno degli ergastolani ha guardato quel cielo opaco, con le zampe di uccello libere e ha desiderato sfondarlo. Chissà quanta rabbia e quanto dolore, inimmaginabili.
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silvia camporesi – planasia 2013
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La donna-ponte chiama uno dei detenuti. Guido, dove sei? Vieni al microfono. E guarda nella direzione del testimone infreddolito. Che ha un moto di sorpresa e smette di prendere appunti. Guido dove sei? Guido gli è seduto accanto. Se solo lo sapesse la sua vicina! Guido si alza, mette pochi passi e va dietro al leggio. Ha gli occhi belli, verdi, pieni di sorriso.
Da sedici anni sono in carcere e mi sono accorto di essere ergastolano da pochi anni, perché il carcere era quello che vivevo fuori, quello delle regole spietate, le stesse regole che imponevo io ad altri. In questi sedici anni ho girato quattordici carceri, molte del Sud. Spaventosa quella di Catanzaro. In isolamento, io parlavo con me stesso e quel carcere mi aiutava a vivere la mia condanna, un po’ mi proteggeva e mi dava la forza di andare avanti. Nelle carceri del Sud si sta spesso in isolamento e la mia solitudine la vedevo negli occhi di mia madre, quando veniva a incontrarmi. Avevo la quinta elementare, però proprio in un carcere del sud, ho trovato una donna coraggiosa, un’insegnante, si chiamava Francesca, era calabrese. Io non riuscivo a capire a cosa potesse servirmi la scuola, in carcere, ma la sua insistenza mi ha permesso di accettare l’idea che io potessi studiare. Lei mi faceva sentire diverso da quelli che erano in quell’ambiente. Francesca mi ha fatto scoprire la bellezza della scrittura e ho incominciato a scrivere a mia figlia, che sta qui, in mezzo a voi. Ha ventitré anni e ho iniziato a dialogare con lei, grazie alla scrittura, certo con tutte le restrizioni. Poi mi sono iscritto al liceo artistico. E un giorno sono stato trasferito a Padova, in questo carcere. Qui le celle hanno le porte aperte. L’agente mi accompagna e chi chiude la porta sono io. Questo a me non era mai successo, in nessun luogo. Qui le persone parlano di lavoro, di scuola, di cose che io non conoscevo. E mi sono incuriosito. Ora faccio un lavoro che mi porta a parlare con gli altri, sono in un call-center, prima usavo solo tre parole, invece ora sono uno che ascolta e dialoga. Poi negli incontri, nella nostra redazione, ho a che fare con gli studenti, ne vengono tanti e ogni volta, invogliato da Ornella, che è tosta, parlo con gli studenti. Le domande che mi fanno i ragazzi sono a quelle che potrebbe farmi mia figlia, mia madre. Prima di addormentarmi, sulla branda, da solo, m’interrogo spesso, ma il confronto con la gente che sta fuori, mi porta altre domande. A volte penso che l’ergastolo sia l’assassino dei sogni e voglio allontanare mia figlia da me perché lei, mia figlia, non deve perdere i suoi sogni. (Si commuove e ritorna al suo posto, vicino a me, per nascondere le lacrime.)
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silvia camporesi – planasia 2013
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Tra gli altri relatori, che si alternano ai microfoni, che spiegano gli aspetti complessi del problema e aprono finestre sulla paura liquida che ogni giorno sembra moltiplicare la sua portata, suscita interesse la presenza dell’ex ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick. Dapprima favorevole all’ergastolo ostativo, ora, non più.
È una pena illegittima nella sua stessa proclamazione: Fine pena mai. Bisogna, con la detenzione, dare rispetto alla dignità umana, bisogna creare una svolta culturale, combattendo con tutte le forze, le asprezze della 41bis. Tenendo presente quanto afferma l’articolo 27 della costituzione italiana potrebbe essere che il detenuto si sia rieducato, possa avere degli sconti di pena, possa uscire per brevi permessi dal carcere. Anche con l’ergastolo. Dal 2001, da quando si applica la 41 bis, non è possibile. Con l’ergastolo ostativo. Il discorso del Papa, dell’ottobre 2014, in cui si afferma la necessità di togliere la paura, mi ha fatto cambiare idea. Svegliatevi, ha detto il papa, il carcere è pericoloso per la dignità umana e va usato con estrema cautela. Da strumento legale che doveva limitare la vendetta privata è diventato la forma della vendetta pubblica; con l’idea di risolvere i problemi sociali, il carcere, che dovrebbe difendere la società, è diventato esso stesso un problema e così ho mutato quello che pensavo fino a 21 anni fa. L’ho fatto pensando al primato della vita rispetto alla pena di morte nascosta. È una pena fondata sul sospetto; è una pena degradante che trova la sua base nella tortura; è da rifiutare come abuso di potere rispetto alla limitazione della libertà personale. La dignità deve essere il limite e nello stesso tempo lo stimolo da perseguire con efficacia. È importante l’articolo 3 della Costituzione per capire che la dignità la si deve difendere sia nel momento in cui si applica la legge, sia nel momento in cui si giudica chi ha agito rispetto a quella legge. La parola dignità regge tutta l’impalcatura della Costituzione e la pena non può coesistere senza l’umanità, contro coloro che nutrono gli eserciti della paura.
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silvia camporesi – planasia 2013
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Dopo un discorso così coraggioso, commentato anche da Staino, una suora francescana, sistema il microfono dietro al leggio, per permettere alla sua voce di arrivare chiara a tutti. Non è tanto alta, sembra una bambina in un saio. È la sorella di un ergastolano, Demetrio, arrivata dalla Sicilia per raccontare la sua pena. Non ha molto tempo, perché fa la preside e deve ritornare a scuola. Si chiama Suor Consuelo.
L’arrivo di Demetrio a Padova è stato preceduto da ventitré anni difficili. La detenzione ha ucciso lentamente la speranza. Perché la 41bis è isolamento. Ho visto l’appiattirsi del cervello di mio fratello. E ho iniziato a pensare che lui era quello che doveva scontare la pena e basta. Finisci per vedere quello che vedono gli altri. Così abbiamo fatto tanta fatica a riabbracciarci. Poi ogni volta che era trasferito da un carcere ad un altro, dovevamo trasferirci anche noi… Ma nonostante tutto, in Demetrio ad un certo punto, c’è stata tanta forza di vivere. Lui cammin facendo si è reso conto della sua responsabilità. Ciò che ha determinato il suo cambiamento, ciò che ha fatto bene a lui, sono state le relazioni umane, non certo l’isolamento, perché solo nelle relazioni con gli altri è possibile dire ricominciamo. E noi, la sua famiglia, insieme a lui, siamo rinati, riappacificati con la nostra storia. Solo così si può ricominciare.
Altre madri, altre sorelle e figlie si alternano al microfono, altri studiosi di diritto e magistrati di sorveglianza e avvocati, illustrano la loro posizione, ma d’un tratto c’è silenzio. Il testimone infreddolito, si gira attorno, continua a guardare, vorrebbe riconoscerne almeno uno, uno solo di detenuto, per dire alla sua vicina, guarda era fatto così e cosà. No. Non ne riconosce nessuno. Vede solo Guido che ha raccontato la sua storia al microfono, che si accoccola e poi abbraccia la sua giovane figlia dai lunghi capelli biondi. Il silenzio sembra anticipare un fatto straordinario. Sono arrivate alcune parole preziose, portate in una busta, dentro una tasca, dal cappellano del carcere, Don Marco Pozza. Poche ore prima ha officiato con Papa Francesco a Roma e lui abbracciandolo gli ha dato una missiva. Don Marco ha i tratti del guerriero, di chi conosce le asperità del carcere e dentro ci combatte, nessuna mollezza nel suo volto, dagli zigomi pronunciati. È rosso in volto e la sua voce trattiene la commozione nel momento in cui dice:
Lui è qui tra noi con la testa e con il cuore. Ha saputo del convegno sulla pena dell’ergastolo, che ci porta vicino ai detenuti e mi ha dato questa lettera, poche ore fa.. Ve la leggo:
Cari detenuti, Immagino di guardarvi negli occhi e vedere tante delusioni, ma anche la luce della speranza, quella non si deve spegnere mai. (…). E per chi combatte. È nostro dovere e nostra responsabilità aiutare i detenuti perché la dignità umana deve illuminare le misure detentive. L’umanità deve passare attraverso le porte blindate e i cuori non devono essere blindati alla speranza, ci vuole un cambio culturale, non una giustizia punitiva, ma una giustizia che permetta all’ergastolano di poter ancora sperare nell’umanità, credere nella forza innovatrice del perdono. A Dio affido la vostra riflessione e la vostra guerra, chiederò di pregare per voi.
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silvia camporesi – planasia 2013
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Un particolare ringraziamento va all’artista Silvia Camporesi ( http://www.silviacamporesi.it/planasia/ ) che ci ha permesso di inserire nell’articolo le sue immagini, scattate e reinventate, con particolare sensibilità poetica e pittorica, nel carcere abbandonato di Pianosa, un’isola dell’arcipelago toscano.