
Quando tengo la finestra aperta è insopportabile. Sarebbe bello se mi scrivesse qualche altra parola.
Anche solo “Allora chiuda la finestra”.
Al che ribatterei ” Con la finestra chiusa non riesco a dormire” –
Sempre più spesso, ormai, tutto ciò che abbiamo in mente o in animo di vedere, di vivere , si trasforma nel suo desolante contrario. Noi aspettavamo ” una nevicata” di poesie e racconti, una fitta nevicata di storie, memorie, parole che traducessero il vostro- nostro tempo in questo oggi tormentato, spesso rabbioso, nevrotico o indifferente, malvagio, infernale o, per taluni, magnifico,meraviglioso, sorprendente, affascinante. E…Abbiamo atteso, atteso e poi…
Eccola! Una nevicata coi fiocchi! E sul fare della sera è stato bello vederla cadere: larga, copiosa, su ogni cosa!
A tutti coloro che hanno risposto al nostro invito un caloroso grazie. Forse più convinti di altri hanno creduto che noi, i nostri occhi e sensi tutti sono modi per riuscire a vedere l’ampiezza del corpo grandioso che noi tutti siamo ma non vediamo che in parte, parzialmente, perché ciascuno di noi è una piccola particella, col suo kit di universo, di quel corpo e lo percepisce a seconda della sua postazione. Nel post degli Auguri per questa natività lo abbiamo sostenuto: nascere è un gesto e un avvenimento ripetuto milioni e milioni di volte eppure scorre via da noi, dalla nostra piccola mente, che si chiude e si concentra sempre in quanto è mortifero o mortale. Eppure, nemmeno la morte è il niente, neppure la morte è la fine, tutto è una soglia, in un attimo. Il viaggio è questo essere corsivo, transitante nell’immenso. Grazie dunque, grazie a tutti coloro che ci hanno inviato i loro sguardi, il loro ascolto, le loro voci e le eco, le emozioni, le riflessioni, in una parola l’attimo del loro tempo in cui hanno guardato il nostro corpo muoversi in ogni direzione e verso, in una coniugazione che è anche questo incontro. L’oggi di ciascuno è diventato di tutti.
Ancora una volta cogliamo l’occasione per porgere a tutte le lettrici e i lettori, le autrici e gli autori i nostri migliori AUGURI!
GRAZIE A TUTTI E AUGURI, AUGURI, AUGURI!
il gruppo di cartesensibili-
anna maria farabbi, alessia bronico, vittoria ravagli, cristiana pagliarusco, laura bertolotti, alberto terrile, paolo gera, adriana ferrarini, elianda cazzorla, loredana magazzeni, carlo bordini, veevera, costanza lindi, daniela raimondi, milena nicolini, raffaella terribile, fernanda ferraresso
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L’INVENTARIO
Iniziativa CARTESENSIBILI
Natale 2016
RACCONTAMI…RACCONTATI
microracconti
dragan bibin
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Narda Fattori
ACCADDE
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Accadde, non so quale tempo fosse, quale cielo, quale età.
Accadde quando il sole si era disfatto e tutto luminoso spandeva la sua potenza. Erano già trascorsi giorni che si faticava a sopportarlo nel suo fulgore e si bramavano le ombre del crepuscolo per tornare ai riti, per tagliarsi le unghie , per depilarsi, per fare l’amore.
Accadde che lentamente richiamò a sé i suoi raggi e cominciò a incernierarli , e lentamente una falce nerissima si formava dove prima non si vedeva nulla e sempre lentamente la falce si espandeva. In breve tempo aveva risucchiato tutti i fotoni e lunghe ombre si erano impadronite delle creature che , sformate, assumevano l’aspetto di mostri.
Io ero una pertica lunga, bitorzoluta, senza organi visibili. Dissi il mio nome. A voce bassa. Sentii solo un silenzio ronzante come di mosca presa fra due vetri. – Che succede?- dissi a voce alta. Non so che cosa, quale essere si bevve le due sillabe che componevano il mio nome.
Il silenzio pesava come se tonnellate di lignite preistorica imprigionassero i piedi. Allungai le braccia alla ricerca di una forma, forse di un appiglio. Nulla , non avevo intorno nulla. Provai a fare un passo, poi un altro, poi un altro ancora. Nel buio che più buio non si può pensare.
Non avevo paura, né freddo, non avevo percezioni. Ero dentro un bozzolo che mi aveva avvolto e mi donava una imprevista, incredibile forma di protezione.
Provai a toccarmi: sentii le mie guance, fredde, marmoree e i capelli, stringhe di cuoio. il ventre, eburneo, estraneo, piegai una gamba, l’altra. Le capacità propriocettive erano intatte , ma il corpo aveva la rigidità e la forza di una statua.
Rapidamente giunsi alla conclusione che avevo solo un corpo su cui contare, un corpo pesante, lento , qualcosa di più simile alla pietra che alla carne.
I vestimenti, ma avevo vestimenti ?, erano appiccicati al corpo ed erano leggermente umidi.
Nella testa mi frusciavano piccoli rumori, sciami di leggeri , sibili come la brezza quando muove le foglie.
Mi spostai in avanti, lentamente e nella testa si ravvivarono una moltitudine di suoni. Sentii il terreno ben saldo sotto di me e avvertii dello spazio libero che potevo sfruttare per andare…
A destra e a sinistra provenivano ansimi, fruscii, pigolii; i lati , dunque . mi erano interdetti; indietro no, non sarei tornata, ma potevo avanzare,… fino al sorgere del sole, fino a vedere in quale mondo ero precipitata.
Ormai avevo la certezza che il mio io non era più come prima, che avevo mutato forma e esigenze e obiettivi.
Potevo pensare un pensiero alla volta e darmi molto tempo per trovare la risposta. Riuscivo a sentire passare da una sinapsi all’altra con un leggero fruscio . Percezioni, ero percorsa da percezioni, le emozioni erano sparite.
Accadde che fui quercia senza mai mettere ghiande per tenere lontano cinghiali e grufolosi porci. Li vedrete in piazza, se osservate bene.
Il tempo era scomparso, in durata e in ampiezza.
Ma venne Natale e fui infiocchettata da lampadine multicolori: ero buffa , una prostituta con solo gli ornamenti , i passanti nemmeno sollevavano lo sguardo
verso i rami decorati.
Accadde non so a quale ora, un ragazzo stese ai piedi del tronco dei cartoni , trasse vicino un borsone e si rannicchiò sotto due spesse infeltrite coperte.
Il campanone batteva il primo tocco quando prese a scendere uno sfarfallio bianco. Il giovane fu in breve ricoperto, un tumuletto d’innocenza. Che fare?
Chiamai tutte le mie forze e le concentrai fino a una sola lampadina ; il vetro si ruppe e il calore dei filamenti accesero uno stecco. In breve fui ardente .
Il giovane si svegliò. Si scosse, guardò i rami in fiamme. Brontolò qualcosa. Forse “ E poi dicono che è Natale!”
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dragan bibin
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Milena Nicolini
ION
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Qui da noi si sarebbe chiamato Giovanni. Ion. Qui da noi avremmo detto che era un perito in telecomunicazioni. Lavorava ai telefoni, lì, nella sua minuscola nazione. Nazione dopo il distacco dalla Russia, la Moldavia, nazione grande come la nostra regione. Be’ lì, nel ‘92 c’è stata una guerra, di quelle che neanche se ne sente parlare di sfuggita, che non importa a nessuno, che non si trova neanche su Internet, almeno quel tanto da capirci bene… oppure no: si capisce, si capisce. Se c’è di mezzo una nazione gigante, che decide che un certo pezzetto di quella minuscola terra, con un nome impossibile da pronunciare: Transnistria – che vuol dire di là dal fiume Nistria, che sarebbe, per capire bene, come se noi chiamassimo la zona da Castelfranco a Bologna Transpanaro – be’, questa Transnistria, che, guardacaso, c’ha importanti arsenali e depositi militari e offre un passaggio veloce verso il mar Nero, la Russia dice che è sua. No, no. Fermi tutti! Per quel che si può, bisogna essere precisi. La Russia decide che la Transnistria è del suo giro, di sua competenza, sotto la sua protezione. L’ipernazione, quindi, decide di sostenere la rivendicazione di quel fazzoletto di terra grande come Viterbo, che si dichiara indipendente da quell’altro fazzoletto di terra un po’ più grande, ma giusto un lenzuolino singolo, la Moldavia, che sarebbe poi una specie di Cis-nistria, di qua dal fiume. E quando scoppia la guerra, la Russia aiuta la Transnistria. Così tanto l’aiuta che, poi, quel fazzoletto di terra penserà bene di mantenersi in pancia dei battaglioni dell’ipernazione, che serviranno a puntino nelle future schermaglie con l’Europa, con l’Ucraina, ecc ecc. Ma a noi, qui, adesso, non va di stare a sindacare chi c’aveva ragione, chi no. La guerra è sempre e comunque uno schifo. Ci interessa che, mentre l’ipernazione, la Russia, l’aiuta, la Transnistria, a vincere, tutto sommato in un batter d’occhio, trova anche modo e ragioni per piazzare modernissime mine – italiane – in posti strategici importantissimi: posti dove va la gente comune, come i bimbi o i vecchi o le contadine; per intenderci: in campagna, sui sentieri dei carri, nei campi, o proprio collegate ai rami degli alberi da frutto, dei ciliegi, degli amareni – che giusto giusto è ormai la stagione e. Ne abbiamo sentito parlare al tempo del Vietnam. Era per arrivare ai bambini. Avevano anche colori sgargianti, come dei giochi. Qui no. Qui solo che, se toccavi un ramo, magari per tirar giù una bella ciliegia rossa, puff! Ion, a militare gli avevano insegnato a fare lo sminatore. Ma nel ‘92 ormai aveva finito la ferma da un pezzo. Sì, però, lo chiamano, l’esercito moldavo, che c’hanno troppo bisogno, per sminare la campagna. Andavano in gruppi di cinque, con quella specie di mazze da golf che rilevano i metalli, aggeggi cosi antiquati che li vedi nei film della seconda guerra mondiale. Be’, lasciano sulla strada larga la camionetta e l’ambulanza, perché l’ambulanza c’è sempre, non si sa mai. Andrei, il capogruppo, per primo, lui, Ion, e altri due dietro; si avviano pian piano per il sentiero verso i ciliegi, tastando la terra davanti con ‘sti cosi. Solo che gli italiani, grandi inventori e costruttori di armi, le mine, è da un bel po’ che le fanno di plastica. Quei rilevatori lì sono fatti per il ferro, mica le sentono le mine di plastica. Facciamola corta. Il primo davanti, Andrei, ci finisce sopra, bum!, salta e via le gambe, tutt’e due di netto. Due si mettono a scappare spaventati come matti per i campi, schivando chissà come altre mine. Ion rimane lì immobile, stordito, a guardare il suo amico, tutto quel sangue. Aiutami, Ion, non lasciarmi qui a morire, c’ho due figli a casa, aiutami. Allora se lo carica in spalla come può e si volta per tornare indietro, alla camionetta sulla strada. Qualche passo e bum!, una mina gli stacca una gamba e gli fa il terremoto dentro il corpo. Chissà come, con la forza che gli resta nelle braccia alza il corpo del suo amico e lo butta come un sacco verso, fin quasi sulla strada, ma è abbastanza: quelli dell’ambulanza con un bastone lo tirano via dal sentiero in salvo, al sicuro. Invece lui, Ion, morì poco dopo, tutto disfatto dentro. Andrei, senza gambe, ma è tornato a casa. Ogni anno va a trovare la mamma di Ion. Il padre, per il dispiacere è morto dopo sei mesi. Ion, l’hanno fatto eroe. Ha il nome sul monumento agli eroi nella capitale. Aveva 24 anni.
Note al testo
1- E’ il fratello della Signora meravigliosa che si prende cura della mia vecchia mamma.
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dragan bibin
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Paolo Gera
Divertimento per i piccoli
Se io avessi letto sul giornale “ Casa nostra” che quell’uomo era un raccoglitore di rifiuti organici, è chiaro che non mi sarei avvicinato. E’ una cosa che fa veramente schifo detta così, è una cosa da film horror, raccoglitore di rifiuti organici, non so se avete visto “ It ”, ecco, una roba del genere, paura e schifo insieme. Ma io che ho 11 anni non vado a leggere i giornali e se leggo qualcosa di stampato lo faccio da destra a sinistra e dall’alto verso il basso, manga si chiamano quelli che leggo io. Vengono dal Giappone, ma i disegni, le facce, non sembrano stranieri. Il giornale quotidiano invece me l’ha fatto leggere mio padre che ci ride su e così ho anche scoperto che era della Romania. Che era straniero lo avevo capito dal modo che aveva di parlare, ma io ho sempre pensato che gli zingari fossero scuri e di pelo nero, mica biondi e con gli occhi azzurri. Al mio paese che si chiama Paese, fa ridere ma è proprio così, non è che ci sia molto da fare per i piccoli. Quelli più grandi vanno a Treviso colla motoretta, si fa presto, sono solo 7 chilometri di distanza. Noi giochiamo a pallone, ma hai voglia di tirare calci tutto il giorno! Lui prende su le schifezze dal marciapiede ed ogni tanto si ferma a guardarci. Un mio amico mi ha detto che potrebbe essere un osservatore dell’Inter travestito e che allora dobbiamo fare più palleggi quando ci osserva. – Andiamo a San Siro? – diciamo quando abbiamo finito e così lui si ferma ancora per parlarci, ma da quello che dice non si capisce se è veramente uno delle giovanili, anche se i nomi dei calciatori li conosce. Non tutti, però. Con quel parlare strano ci chiede se siamo buoni, se abbiamo fatto i compiti, se aiutiamo i genitori, cose così, dai. Poi ieri mentre si parlava se era meglio Messi o Cristiano Ronaldo, lui mi ha posato la mano sulla nuca sudata. Non credo che l’abbia fatto apposta, a volte a me viene di abbracciare Alvise che è il mio compagno di banco dalla prima, ma mica sono frocio. Comunque non mi ha fatto male, ho sentito solo un po’ caldo. Allora Gianni, quello che ha il bar di fronte e aveva visto tutto, è uscito come una furia ed ha iniziato a spintonarlo urlandogli che cosa cazzo stai facendo. Poi sono arrivati tutti gli altri, uomini e donne. Sul giornale quotidiano c’è scritto che erano cento. Hanno cominciato a dargli calci e pugni, ma lui cercava di non cadere a terra e diceva che non avevano capito, che era sposato, che aveva due figli piccoli. E rideva, mentre prendeva tutte quelle botte e cercava di ripararsi la testa con le mani, rideva. Anche mio padre adesso ride indicando quello che c’è scritto su “ Casa nostra”, ma non è un ridere come quello della Romania, no, non è come quello.
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dragan bibin
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Leopoldo Attico
VA’ PENSIERO
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Non mi quadrava il fatto che se ne stesse tutto il giorno a pregare con occhio divino e schiena ad angolo retto e poi nottetempo smanettasse mandrillesco le cameriere del collegio.
La carne l’eros la vocazione pensavo: un grande slam di note che si cercano, d’accordo, ma l’incongruenza rimane. E’ mai possibile…qui l’affaire s’ingrossa e non c’è nesso che tenga!
Io, deamicisiano fottuto, così sodale alla totalità dell’uomo in quanto tale (emanazione d’Immenso) e così ferrato in fatto di autocontrollo non mi ci raccapezzavo proprio: l’abito talare, l’abito non fa il monaco, il profumo d’incenso, la Funzione domenicale, le camere da letto, l’amplesso demoniaco: perbacco, un gran palinsesto da azzerare al più presto, pena la destabilizzazione! (e giù a pedinare turbamenti senza riuscire a capacitarmi).
Avevo presente sì il commendevole disimpegno del pretino alla Caproni, tuttavia nei paraggi prendeva le mosse un disagio perdente e angustiato, con in fondo un tabernacolo niente affatto ieratico, ancorché sciroccato da simili abnormi arpeggi dell’ego talare…
Mi sentivo spiazzato e inurbato di brutto nei confronti di certe ragioni srotolate a ventaglio d’incerto assemblaggio, ancorché così male assortite tra loro…
Nondimeno pensavo: lui a Gesù Cristo ci crede (visto l’occhio e la schiena ad angolo retto), per cui a questo punto i casi son due: o ha fatto un forfait con l’Eterno ( ma tutto speciale, alla “volemose bene”) 1, oppure un patto di non aggressione col Diavolo, in virtù della schiena ad angolo retto…
Col tempo, non sapevo più dove andare a parare, ma poi sotto sotto mi dicevo convinto che il Nostro fosse una specie di privilegiato, un Re Mida del Compromesso Divino, un fuori quota di “antesigniano”oscuro ma grande che andava comunque capito, e senza riserve. Non v’è contesto, pensavo: lui è un Super che sfugge al contesto e va rispettato e capito al cento per cento. Lasciamolo stare. E’ una cosa a se stante. Dev’essere stata una cilindrata speciale a farlo partire e adesso è in Viaggio; vediamo che accade; se anche lui è della favola bella che ieri m’illuse e che oggi t’illude, oppure si tratta soltanto di qual cabotaggio di piccola stazza destinato al naufragio tra rocce scogliere e mine vaganti……………………………………………………………………………………………………………………………………………
Ricordo che quando andò all’altro mondo pensai a quella morte come a un summit celeste tra lui e il Padreterno, a una sorta d’incontro sublime ed extraterrestre segnato/voluto da tempo da un tandem di ferro, alla faccia del mondo bigotto e dei suoi stanchi dettami. Lo andai pure a trovare -di notte, da solo- e su quel catafalco che sembrava esser lì per miracol mostrare, ci vidi una morte un po’ fuoriserie, con la bocca atteggiata al sorriso e quel dire a suo tempo intravisto -questa volta specchiato e cosciente/innocente in valenza di caldo sentire e senza alee di ieratico: “E sì, mi son dato da fare. Mi è sempre piaciuta la gioia totale. Mi sono mangiata la vita a tutte le ore, senza far distinzione; ma, come vedi, con la morte soltanto si può sublimare. Provare per credere. Non mi chiedere altro. Ero un semplice prete”.
Note al testo
1 “Vogliamoci bene”, in vernacolo romanesco
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kilian schoenberger
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Silvia Nerini
BODENAYA
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Dopo un inverno di incertezza, paura di non esserne capace, ma anche attesa, finalmente arriva il giorno della partenza; in tutto siamo in sei ad andare.
Da Oviedo, dove atterriamo, ci avviamo lungo il cammino Primitivo di Santiago. Il cammino più antico, più ”intimo”, ma allo stesso tempo impervio e impegnativo, collocato tra le montagne asturiane e galiziane.
Le prime tappe, anche se su percorsi ancora non lunghi, ci mettono già alla prova: i primi “altos”, il respiro corto, i muscoli che tirano, i primi “ma chi me lo ha fatto fare?”, la decisione di non mollare, di insistere, di VOLERE arrivare in fondo.
Quanti chilometri? Varia la lunghezza, si va dagli 11km della tappa più breve ai 30-32 delle tappe più lunghe. In totale? 350km. Ogni giorno è un po’ più avanti, più vicini alla meta: si sale e si scende, si pensa e si chiacchiera con i compagni, si saluta chi si incontra (uomini e donne di montagna, sempre cordiali con i viandanti). Ma qui siamo ancora all’inizio.
Al termine della terza tappa, non lunga, ma, anch’essa impervia (si sale, spesso; boschi, pascoli, piccoli paesi) ecco il borgo di Bodenaya.
E qui l’albergue, piccolo, solo 21 posti, un po’ fuori del paese e David, il gestore, uomo di 36 anni innamorato del luogo, del cammino e dei “peregrinos”.
Un abbraccio, caloroso, come di vecchi amici, se non fratelli: “Benvenuti nella casa, il mio nome è David”. E una frase, poche parole, ma che sciolgono il cuore come un balsamo: “Gracias por venir”, grazie per essere qui.
Capiamo immediatamente che non è un luogo come gli altri, non è una attività di commercio, di lucro, non è un posto di anonimo riposo.
Le informazioni che David ci dà, quando ci accoglie, lo confermano: “Questo il funzionamento della casa (casa la definisce, sì, non semplicemente albergue): ognuno è parte della famiglia che la abita e le consuetudini sono quelle di ogni famiglia. Non ci sono tariffe, c’è una cassetta vicino alla porta: chi vuole, lascia quello che può, quello che sente, anche nulla se non vuole o non può. Nel frigorifero ci sono bevande fresche, quando avete sete prendete da soli. Si cena insieme e si fa colazione insieme, qui nella sala comune; all’interno della casa non c’è wifi, ci sono persone e in famiglia le persone vivono e scambiano idee, insieme”.
La casa: guardandoci intorno, ci accorgiamo che rispecchia a fondo chi vi abita: lì, sulle pareti, ricordi dei pellegrini che sono passati, libri su ogni mensola, muri tappezzati di immagini; su, appesi al soffitto, simboli sacri di molteplici religioni, dalle icone cristiane, chiaro, alle bandiere delle preghiere dal Tibet alle antiche immagini celtiche e così via; qui tutto intorno, arredi spartani, essenziali, ma nulla né di superfluo né fuori posto.
Prima cosa: sete e scarpe. Beviamo acqua, abbiamo sudato, tanto. Togliamo le scarpe, è un sollievo non solo per il corpo: dopo tante ore pesano, scaldano, fanno sentire pesanti come pietre. Poi le operazioni di rito: registrazione; scelta del letto, tra quelli ancora liberi, su nell’unica grande camera, variopinta e solare come il piano inferiore, in cui si dorme tutti insieme, proprio come in una grande famiglia; finalmente, doccia!
Ci sentiamo bene, a nostro agio, quasi coccolati, qui: sì, perché stare qui, a Bodenaya, non è solo riposo fisico, è anche ristoro dello spirito.
David emana serenità, pace e tutto il luogo ne è avvolto: parla con tutti gli ospiti, ascolta le storie di tutti (si commuove, davvero, quando il mio papà gli racconta che è qui per il suo secondo cammino, il primo fatto in speranza, questo in ringraziamento, pianificato da quando le analisi periodiche per il suo tumore alla prostata hanno dato esiti di guarigione), e per tutti ha un abbraccio, un sorriso, un cuore grande.
E, a chi lo ascolta, racconta la sua storia: giovane uomo, innamorato, di città. Decide, nella sua sete di ricerca, di fare il cammino, di andare a Santiago; sceglie anche lui il Cammino Primitivo, tra le montagne. E ci arriva, la sua Compostela è appesa come saranno poi le nostre a casa, qui, sul muro, in memoria quotidiana del percorso fatto. Ma, anche lui, rimane incatenato al villaggio di Bodenaya. E ci è tornato, ha acquistato l’albergue ed ora è qui che vive ed è felice. Sente di vivere in armonia, sente di fare la sua piccola parte per compartire serenità.
Anche negli inverni solitari, quando per la neve e il clima rigido i pellegrini o non ci sono o sono davvero pochi, il suo vivere lento, ai ritmi della natura, nel piccolo borgo di Bodenaya, lo fa sentire ricco.
E, parlando con lui, anche noi sentiamo lo stesso, proviamo emozioni profonde e piene.
Sono le 19.30, ora di cena: siamo tutti ormai nella sala comune, già entrati nel clima di amicizia e condivisione e David è con noi e ci offre cibo e …: “Stasera mangiamo il minestrone con le verdure del mio orto”; poi si rivolge a mia sorella e me, allergiche a diversi alimenti: “Per voi ragazze, ho preparato un riso speziato, senza verdure”. Anche a questo ha pensato.
Infine, le ultime note organizzative: a che ora dormire, a che ora svegliarsi l’indomani. E si decide tutti insieme, si trova un punto d’intesa che mette d’accordo le esigenze e i bisogni di tutti: alle 22 luci spente, alle 6 la sveglia. Non solo, David ci fa deporre in un cesto la biancheria che abbiamo sporca, ci penserà lui.
Ceniamo. Durante la cena si conversa, si rinforzano amicizie già sbocciate i giorni prima, si stringono amicizie nuove; ci ritroveremo tutti più volte lungo il cammino, per via o negli albergues, fino alla meta, a Santiago, e nasceranno rapporti umani profondi e intensi, alcuni che dureranno oltre le tappe del cammino, al ritorno, a casa.
È ora, sono le 22 e le luci si spengono, qualche chiacchiera ancora sotto le coperte, ma la stanchezza vince e a breve crolliamo, cadiamo addormentati.
Tutti, tranne David.
Senza accorgercene, sono già le 6!!!! Lentamente, il volume della musica si alza, accompagnando dolcemente il nostro risveglio: l’Ave Maria di Schubert diffonde le sue note insieme al profumo di caffè caldo che piano piano sale lungo la scala. Con un risveglio così, non potrà che essere una buona giornata!
Una volta scesi, oltre la tavola già apparecchiata ed imbandita, la sorpresa: la biancheria sporca lasciata la sera prima, non solo lavata, tutta piegata, disposta in ordine su un tavolo, in modo che ognuno di noi non faccia fatica alcuna a rintracciare i propri capi.
Colazione terminata, zaini riempiti, scarponi reindossati. È davvero ora di andare, ora di riprendere il cammino.
Salutare David è difficile, è come salutare un fratello ritrovato e riconosciuto, è sentire già la nostalgia di un luogo forte, di un’energia che entra nel cuore e lo invade, di un luogo dove la parola serenità, la parola amore non hanno bisogno di definizioni o spiegazioni. Semplicemente, esistono.
L’abbraccio è lungo, stretto. L’ultima foto, e poi è proprio ora. In cammino verso la tappa successiva.
“Buen camino, gracias por venir”, “Buen camino, David, hasta luego”
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kilian schoenberger
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Vilde Mailli
GIULIA
Il cuore di Giulia cominciò a battere.
kilian schoenberger
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Falconiere Fausto Marchetti
La Superluna del 14 novembre
Sono qui, una civetta a stomaco vuoto in un vecchio rudere,
il collo ritirato tra le ali e gli occhi dolci come lampade a petrolio,
la grandine e il temporale hanno limitato la mia caccia nella notte,
scruto oltre la finestra in attesa.
Il sole si è ritirato, la notte si sta allungando,
la luna nel perigeo si affaccia nel cielo.
Verso est vedo sorgere le costellazioni che domineranno il cielo nell’imminente inverno:
prima il Toro e successivamente i Gemelli.
La mano come sestante calcola la distanza tra i due astri,
Castore e Polluce, così vicini così lontani,
una spanna nello specchio della finestra,
migliaia di anni luce nell’infinito color inchiostro.
Vorrei raggiungere i due fratelli per stringerli a me.
Puntare lo sguardo come un raggio per trafiggere la nube della memoria non mi aiuta;
per fare questo viaggio nel silenzio eterno dei pianeti ho bisogno di una canzone.
Un motivo di allora mi apre la porta in un luogo dove lo so che non tornerò.
La cameretta dei ragazzi dipinta di giallo e rosso,
i lettini col copriletto azzurro,
i poster alle pareti realizzati a collages con le carte dei regali,
i pupazzi di peluche,
Gigi l’inseparabile orsetto di Ale da trent’anni accanto al suo cuscino,
il letto vuoto di Matteo che se n’è andato un giorno di maggio,
le costruzioni con i mattoncini Lego sulla mensola,
il tappeto sul quale ci rotolavamo, cavallo io e loro cavalieri.
Rivedo i visi, gli sguardi innocenti,
sento risate, mormoro i nomi,
respiro il profumo dei capelli di seta,
mi inchino a rubare un bacio nel sonno dei loro sogni incantati.
Cosa resterà?
Fiori nascosti in un libro, foto ingiallite e qualche biglietto sepolto in un cassetto.
Que reste-t-il?
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kilian schoenberger
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allora cara anna ti invio come detto prima i miei “spezzoni”…. e…
la domanda di cui ti parlavo prima, nasce da una passeggiata di qualche pomeriggio fa, mentre ero sola andando a prendere un caffè.
camminando mi guardavo intorno, pensando a mille cose… guardo gli alberi ormai spogli attorno a me…
quelle poche che sono rimaste attaccate si reggono per miracolo ma
sono destinate anche loro a cadere, nel freddo asfalto umido di dicembre…
e così, nel guardarle inermi, destinate… mi e’ venuta in mente una cosa…
“che rumore fa’ una foglia, che cadendo, tocca terra?”
a te il tempo di rispondere, io la mia risposta personale me la son data.
ti allego ciò’ che ti avevo detto oggi…. ti abbraccio
forte!!!!!
Lettera ad anna maria farabbi . 6.12.2016
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come si poteva rispondere alla domanda CHI SONO?
non era una domanda semplice, una di quelle che ti fanno quando sei a scuola. era una domanda esistenziale, una domanda da un milione di dollari o di euro se preferiamo.
nessuno di noi e’ veramente in grado di dare risposta a simile quesito. la scoperta e la conoscenza di sé avviene nel tempo, giorno dopo giorno, scoprendosi sempre un po’ di più’, man mano che passa, che gli eventi della vita ci cambiano e ci formano sia carattere che personalità’.
personalmente a questa domanda non trovo nessuna risposta, nonostante siano anni che me la pongo, ma la malattia ha fatto sì che io mi dimenticassi di chi ero prima, quali fossero i miei gusti personali, cosa mi piacesse fare e cosa no, quindi, ora, devo ricominciare da zero, ricostruire una nuova me, una uova personalità’.
sarà’ un lavoro lungo, duro e pieno di ostacoli. e intanto i mesi scorrono veloci, le stagioni si danno il cambio ed io… mi sembra di esser ferma in stazione, ad aspettare un treno che io lo so… non arriverà’.
Barbara Trozzi
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VERSO RIVERSO
poesia
nom kinnear king
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Pino Chisari
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COME UN VIAGGIATORE SBADATO
Quante parole avrebbero potuto essere
e sono invece finite in fondo al mare,
nelle forre impenetrabili dei boschi,
nei silenzi smarriti d’ignote lande?
E quante storie non saranno più scritte
nel libro quotidiano, quanti desideri
andranno disattesi, quante speranze
saranno relegate nel regno degli inferi?
Come un viaggiatore sbadato e confuso
mi ostino ad inseguire ragioni capaci
di dare un volto all’inspiegabile
e mi fermo allora davanti
a surreali arabeschi di licheni
in tombe scavate con tenacia
nelle rocce di fragile tufo
e campanili tirati su usando
le pietre d’antichissime strade
che piedi pazienti han levigato
in laconiche peregrinazioni senza fine.
Donne dal dubbio passato
e figlie di discutibili contraddizioni
han fatto la gloria di mura in mattoni e calce
tirate su da mani ruvide ed ignoranti
che non han lasciato firme di sorta.
Ma non c’è mano incolta
cui sfugga un segreto segno,
un messaggio comunque viaggia,
mescolato al sudore ed al sangue,
scivolando via dalle crepe
s’appresta a dare sostanza e senso
ai giorni nostri aspettando
che questo ennesimo passaggio
diventi canto, poesia, tramonto
uguale a milioni d’altri
eppure unico ed irripetibile.
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nom kinnear king
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Gian Piero Stefanoni
IL SEDICESIMO ANNO
millenni
La paura ti descrive-
non laico, non più nel sacro-
ma la bellezza avanza anche gonfia,
priva di vagina ed amore,
tra medicinali e tremori,
nell’attraversamento che non cede alle perdite,
nella morte cui morte non segue.
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LA POLITICA DEL GESTO
È la politica del gesto
che fa il frammento, il mondo
che si percepisce al suo passo,
l’ordine della poesia nella preghiera.
Sul dorso dell’altra si compie
la nostra mano aprendosi.
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nom kinnear king
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Narda Fattori
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VIVENZA (poesia inedita)
Guardare come si disfa il corpo
lacrima lunga e densa
cosa ho dimenticato che cosa ho perduto?
Di quale terra contenevo i semi?
Non è buon tempo non c’ è sapienza
l’insipienza prevale perché non reggo
il gravame del tutto e anche il mio.
Datemi forma anche deforme – solida
compatta- curiosa e intransigente –
tornerò a guardarmi allo specchio
ad indossare le armi. Morirò con decenza –
intatta rattoppata in una coperta di vivenza.
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Stai parata, da Dispacci- L’Arcolaio 2016
Non ho udito ancora il frinio delle cicale
né le sorelle lucciole si sono accese
la vita che appare e dispare ogni alba
fa più scollate le vesti delle donne
che rendono le attese rosse di sangue
tingono come una milonga di tanqueria
e la menzogna seghetta come un coltello
frantuma come un martello cerchia
anche l’osso lo sparo a due metri
non cessare d’amare sorella non cessare
ma stai parata come la legione romana
a tartaruga contro la cavalleria.
.
igor cibulsky
Laura Pezzola
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ESTERNO INVERNO
La terra è un mondo
di muretti a secco
che ci contiene
come in una vulva
le gru snodano ponteggi
orlando di cielo le finestre
stesi sui filari delle erbe
ogni minuto muore
una corolla
e un soffione rasposo
estingue il vento
siamo foglie ostaggio dell’inverno
cactus che smussano le spine
custodendo germogli
le nostre impronte graffiano
la buccia salata della terra
– dei giorni cosa resta –
la ruggine dismessa dei cantieri
qualche foglio slavato sulla neve
qualche sospiro breve
prima della fine.
.
igor cibulsky
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Claudia Zironi
LA SCATOLA DEL “TROVAROBE”
Emozionata per la Prima
nonostante le prove generali
Mi lascio cullare dall’abisso,
abbraccio l’assenza, festeggio
il vuoto glaciale del nulla con occhi
inutili al pianto, le labbra secche
della tua saliva, i gemiti sterili
di ritrovata verginità. Sei sulla scena
di una scatola
in cui ripongo undici libri,
una collana, un sipario e una conchiglia.
da Eros e polis -Terra d’ulivi ed. 2014 / “Eros and polis” Xenos Books / Chelsea ed. 2016
.
FILO
Ti srotolo dal rocchetto del filo da imbastire
Con l’ago grosso ci unisco
due scampoli d’età
La bambina scolorita
dai bordi sfilacciati
e la donna matura, ancora inamidata
Nel cesto da lavoro ti ripongo, poi
sfilo dall’ago ciò che rimane
per annodarlo all’anulare sinistro
Il cesto ricopro con il foulard
ché la polvere non vi si posi
L’intima essenza di donna
del legame
dell’accudire
Ti scordo nella credenza
da Il tempo dell’esistenza – Marco Saya ed. 2012
.
igor cibulsky
.
Fernanda Ferraresso
da UN CORDONE ROSSO- inediti
.
cerco una casa di campagna
che stia ai confini di ogni incastro
che sia finalmente un porto
d’amore un manicomio sempre aperto
dove l’acqua sia luce liquida che scende dalle nuvole
e dalla terra appena appoggi il piede nasca
un fiore senza timore d’essere strappato
i sassi abbiano memoria di ogni passato
sia ogni ramo d’albero
sia ogni filo d’erba
cresca dalla stessa nostra linfa la casa
risuoni delle nostre comuni risate
anche quando nel sonno
evadiamo da sotto le coperte
per raggiungere lontani mondi sommersi
in noi oceanici picchi di montagna
e persino l’orsa sia compagna dentro quel cielo
per un ritorno in sella all’ultima stella
quando l’alba la notte in serra la nasconde a noi
nati di nuovo da un volto del mattino
una casa come un cestino di vimini senza padroni
dove le ore ozino nelle fiamme del fuoco che sono trame della vite
e attraversano le nostre
mostrandoci cosa valga veramente
in questo breve trascorrere
da un attimo ad un altro senza cercare
di trattenere nulla per sé soli
.
ho cominciato a scrivere
per non perdere i luoghi
dentro di me così fragili
e distanti
le scarpate delle strade i fossi e gli argini
come montagne invalicabili quando il tempo frana
quando i giorni si ammucchiano
infoltendo i loro rami di altri segni
un’intricata foresta i mesi gli anni
che mi scendevano il corpo
in continui naufragi e perdite
dei miei primi attimi
l’amicizia con la terra
che in gola mi metteva nidi
e ora era senza più uova e
voli alti sopra le corti di sole le crepe
sulle facciate di case ormai straniere
quasi una forca la memoria divarica la forcella
e innesca la sua fionda penetra la sua piccola granata
affonda dentro l’angusto territorio
della mia vecchiaia
incolta sulle spalle trae i pesi dei luoghi
le cimature degli alberi
le siepi gli orti un sentiero interrotto
sui cui più volte mi è crollato addosso il tempo
e la vita si è allargata in un cupo lago
recintato da pietraie aguzze
ruderi i ricordi in un continuo restauro di strutture inutili
perché non serve un tetto una lamiera basta
per passare la notte se la vita è un temporale e nemmeno la luna
ti accoglie e niente riaffiora in quell’antro che è l’androne di una casa
dove abiti ora ma tutto sta stipato
in un ripostiglio senza aria senza luce
un luogo senza sentieri
dove non sei affatto contento di esserci
perché i ricordi di ieri ti mangiano e i ricordi di oggi si frantumano
in un niente così che a te non resta altro
che un vuoto
deposito di polvere
.
la casa era piccola
i vetri tremavano
quando passavano i treni
e ogni volta quando tornavo là lo zio ennio
raccontava della guerra e dei carri
armati che passavano in strada
raccontava delle bombe e dei partigiani
dei tedeschi che erano venuti a prendersi
le bestie le granaglie
tutto tutto quello che avevano in casa
portato dalla campagna
fino a quando non ci fu più niente
e così se ne andarono
distante
a codiverno a vigonovo
e nella mia testa quei nomi suonavano
come territori sconosciuti
erano nodi di ghiaccio e di neve
perché lui raccontava del freddo
e delle scarpe che avevano la suola di legno
e che battevano le brocche insieme ai denti
un concerto se poi la pancia suonava il suo fagotto
la campagna veneta sapeva essere crudele
quanto gli uomini che tra loro sollevano ancora
quartieri e trincee di guerre di famiglia
oppure sa donare una quiete travolgente
gli alberi le acque i fossati i campi
le modeste case contadine bianche di calce
o rosse di mattoni cotti dal sole di agosto
le bestie gli uccelli le nuvole
che sembrano aggrapparsi ai pioppi
ai platani gli ontani i carpini i noci i castagni
e in tutte le masserie ci trovi le stesse storie
filate con una lana grossolana
ma calda di nascite e di affetti
oggi le case sono certamente belle
ma fatte in serie
lo stesso modello ripetuto tutte le volte
i vetri non tremano
in tutte le strade i recinti il giardinetto e qualche campo
tutti vendono la campagna muore
la gente s’impicca perché nessuno l’aiuta
la fabbrica la laurea ma poco lavoro e tutto nero
tutto sottocosto e troppe tasse che ti mangiano la vita
e dentro la testa la stessa identica guerra
e una miseria che devasta
.
dino valls
Anna Maria Farabbi
.
………………………………………………………la quinta poesia dell’amore civile
.
il mio canto d’amore appartiene alla poesia civile
perché con la mia lingua suono
malgrado tutto il profondo desiderio del tu
gli amanti disubbidiscono alla banalità delle armi
sono disertori che spalancano le trincee del fronte
cantando con il nemico alla vigilia di natale
scelgono non l’esercito ma il servizio civile
nella nonviolenza di aldo
arano la città praticando la passione tensiva della parola
seminando la democrazia dal basso
sono quelli che rimboccano il corpo fradicio
dei clandestini scaraventati dal mare
nell’inferno dell’infermeria da campo
riconoscimi intera amore sono l’amante che ti viene
alle labbra l’anna
che si spoglia davanti al falò della tua notte
mentre di giorno sradica le barricate
cantando con louise e le altre
.
nota: mi riferisco alla tregua spontanea accaduta nella Grande Guerra, durante la vigilia di Natale: i soldati dei due schieramenti hanno disubbidito, cantando insieme e incontrandosi.
Cito Aldo Capitini e Louise Michel
da dentro la O, Kammer Edizioni, 2016
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dino valls
.
Carmela Pedone
(1951/2016)
.
Frammento ventiquattro
Il suono pieno
del sasso rotondo
che cade nell’acqua
.
Frammento ventinove
Un piccolo grappolo
di risata
sotto il cappello.
.
Frammento trentaquattro
La bilancia,
con due piatti lucenti,
pesa una mela.
Frammento sessantaquattro
Tutti gli alberi
della mia mente
erano stati tagliati.
.
da Frammentario, prossimamente pubblicato in una via altra di pane, vino, tavola e molto silenzio
collana a cura di Anna Maria Farabbi per Lietocolle.
.
dino valls- progenies
.
Simonetta Sambiase
.
Dire bene che non si finge
né adesso né si divide ogni fuga ostile
l’avessi fatto per te e per il noi
se a tutti dicessi di non sapere
se gli altri stanno o no passando
il caos degli anni,
guasti di metalli, di guerre piccole e anche di grossi sciupi
di ribellioni, di fiamme, di corpi spenti
delle migrazioni
.
pensa ciò che vuoi,
i segni del tutto ci sfuggono
.
Non ci siamo mai chiamati a lungo
a bracci e sogni e nomi
fino ad invecchiare tutti insieme
portando i nipoti e le bambole a passeggiare
estranei nella stessa città che invecchia
leggeremo delle nostre vite sui libri di scuola
coloratissimi, ci diranno che partecipammo ai nostri mali,
domani nulla da dire, chiamandoci a giudizio
eravamo sovrappensiero e lo siamo ancora
dall’uno e dall’altro spiacenti di spalle
schivammo equilibri e fughe e lacrime
durante il fuoco degli uomini e delle foreste d’estate
stavamo a riposo e ora siamo tutti in pace
nelle nostre ceneri mute.
franco cappellari
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Elianda Cazzorla
CIELO CUBANO
Lento. Continuo. Mutare di forme.
Disegni fantastici
dell’inconsistenza azzurra.
Il cielo.
Un caleidoscopio
magico mosso
dall’aria.
Eterni i silenzi.
Un nero dinoccolato
mescola impasta gira
sabbia cemento acqua
in uno spiazzo disordinato.
La Habana.
Luminoso
nel contrasto
dell’inconsistenza azzurra
lo rivedo.
Leggero senza sacca
portata a spalla.
Senza nero di pece
negli occhi tristi.
Senza inciampi
nella fuga
Solo mattoni
di libertà.
Con la malta
lui costruisce.
Perché non dargli
la felicità?
.
franco cappellari
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Adriana Ferrarini
BALLATA PER MARIA IN FUGA
Era estate era notte ero esausta e sul ciglio
dopo giorni di fuga coast to coast
lì fra il gracidare delle rane ho partorito mio figlio
– ragnetto peloso affamato the Lost
Paradise attaccato al mio seno
…………..così tanto sangue così tanta luce
agnello sgozzato sotto al cielo sereno
…………..così tanto sangue così tanta luce
sulla schiena al petto in braccio
e la polvere nei sandali tra le dita dei piedi
odore di latte di notti all’addiaccio
figlio mio non temere, lo vedi,
…………..ti proteggerò io da ogni male
…………..figlio nato in riva a un canale
e dal motel lungo la strada
vennero i pick up di braccianti
e ci fu festa e il vino come rugiada
quella notte eravamo tutti santi
………….così tanto vino così tanta luce
figlio mio e le stelle una di seguito all’altra
le stelle erano il mantra
e dalla strada saliva profumo d’incenso
odore di ascelle di sperma
di corpi sudati nel ballo. E il senso
era chiaro, la terra era ferma.
…………Figlio mio, vedi, non esiste più il male
…………Figlio mio, ti insegnerò presto a volare
…………Figlio nato in riva a un canale
Poi mentre tutti dormivano al mattino
figlio mio, ci mettemmo di nuovo in cammino
.
franco cappellari
.
Paolo Gera
ANGELI APOCRIFI
In Paradiso due porte socchiuse mostrano i serafini implumi.
In coro le labbra modellano: cerchio, in lode dell’Omega,
l’eterna fine, lo zenit della gioia.
Una matrice di bambole gonfiabili identici li ha resi,
in materiali estatici. Non plastico è il volo,
ma l’incastro che rende fissa l’ala.
Più non s’agita l’aria, più non spira il fuoco del contatto.
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jae liu wubao
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Maria Grazia Palazzo
TEMPO NOSTRO
.
Tempo nostro che sei in terra
dacci il morso della fame
di un diverso stare insieme
“il lupo dimorerà insieme con l’agnello,
la pantera si sdraierà accanto al capretto
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme”
fa che il male quotidiano non distrugga
più la terra, e le acque del mare
siano vita per il mondo.
Quando i potenti rinunzieranno
a saccheggiare la terra, con tutti gli essere viventi
e non viventi, i popoli del mondo saranno nella gioia.
Pace, vogliamo pace, insieme la invochiamo, giovani e vecchi,
uomini e donne, da Oriente ad Occidente.
Una pace gioiosa che riporti il tempo al centro.
P a c e sia giustizia tra i popoli,
dignità e giustizia per i deboli,
per gli ultimi, per gli esclusi.
Questo tempo ci dia tempo
di un tempo diverso,
condiviso, più umano.
Siamo soli, desolati, delusi,
ma la rabbia ceda il passo
alla creazione di uno spazio più umano.
Quando il tempo avrà fine
non potremo più cambiare le regole del gioco.
Proviamo a vincere con il bene male…
.
jae liu wubao
.
Chiara Papazzoni
.
AI FIGLI DI UN DIO MINORE
.
Dio della solitudine
Dio miserabile come me
tu che mi conosci e mi frequenti
Dio dei miei tormenti
accoglimi in un caldo abbraccio
perché non ce la faccio
.
DORATA SOLITUDINE
no, no, cameriere, mi
lasci pure apparecchiato (per
il commensale non
si sa mai
chi potrebbe arrivare e
anche se sola fossi
anche se non fosse da ortodossi
mi piace parlare (con
i bicchieri
anche quando
non sono ciarlieri
.
a volte manca la voce
sonora paura
il groppo alla gola
questa luce d’autunno
ci consola passo
dopo passo il
crepitare delle foglie
verdi rosse gialle
e così viene l’inverno
a scaldare i nostri cuori
al fuoco del camino
ombre e nebbie fuori
sotto la neve
il pane
.
quale destino di
karmici affetti
dispetti degli dei
affanno rabbia voglia di
maledizione urbi et orbi
voglia di uccidere
i ricordi
.
jae liu wubao
.
Lisabetta Serra
.
UN MONDO SENZA MISTERI
Ronza il moscone sospeso
nel raggio del pulviscolo
sbatte alla zanzariera
e io sento la voce
nella cucina antica
-un moscone, novità –
Qualcuno verrà
penso, nell’immobile
noia estiva
e ora
un cyborg insetto un drone
una mosca meccanica
inviata dalla cia
in ricognizione ci
spierà in cerca di
che cosa?
Impallidiscono le chimere
si spiumano le aquile
di Giove frammenti
di mito spiovono
precipitano stecchiti
i passeri d’Afrodite
Come vivere in un mondo
senza misteri?
.
La mia bicicletta
nel cortile
per più di un mese
abbandonata lungo
la recinzione
secondo una metamorfosi
che Ovidio invidierebbe
sta trasformandosi
in vegetale
Il convolvolo s’è attaccato
al campanello
Tra i raggi s’intrica
la gramigna sottile
e una ruchetta selvatica
s’ostina tra il parafango
e la ruota
La sua natura terrestre
sta giungendo
a compimento mai
potrebbe come aliante
levarsi in volo
o perdersi nell’immensità
del mare
.
Ai funerali di partito
gli uomini d’apparato
annoiati stringono mani
pensando domani io
non morirò la morte
non mi riguarda – ancora
poco la cerimonia sarà
finita
Ma che peccato avrei voluto
per te che facesti la lavandaia
almeno una rossa canzone gaia
e una qualche ragazza della tua età
almeno tambureggiasse con le dita
un passo di danza ardita
.
geninne zlatkis
.
Giovanna Gentilini
IL NOME
qui sola in mezzo al bianco
pensieri o- scuri
sepolti nella neve
o in altro luogo
.
mi cerco
.
nel segno di matita
che traccia volti e mappe
nella pala che libera il passo dalla neve
nell’albero che al limite del prato
sogna primavera
.
poso la testa sul cuscino
un muro è il tempo
.
l’alba un rito
.
oggi come allora
.
mi cerco
.
nel prendere la tazza tra le mani
nel scendere il viso al calore
come quando ero bambina
in questo mio spezzare il pane
.
e mentre pronuncio i loro nomi
tazza
latte
pane
ad uno ad uno sacralmente
.
ancora cerco il mio
.
mi accanivo nello studio
per entrare nel cuore di mio padre
.
conquistavo l’in/esistenza
con la perfezione dell’obbedienza
.
entrando nel cimitero
sento l’eternità dei morti
.
mi invade tutta da dentro
e mi allarga gli occhi
.
così oscuro è il mo(n)do della poesia
a volte
così oscure le parole vostre, amiche mie
eppure aggrapparsi a me – le sento
attraversarmi in un possesso – lento
là nel profondo dove, rumina e germoglia,
quel che si fa da seme, frutto,fiore e foglia
7 gennaio 2016 – a Fernanda Ferraresso e Fiammetta Giugni sorelle in poesia.
.
geninne zlatkis
.
Viola Amarelli
A tutti vi amerò a uno a uno
la volta prossima, quella che viene
la spunta tra ora e poi, l’incompiuta
il prendere e lasciare l’ascia che allasca
tutti amerò, me inclusa, a uno a uno,
per quello che eravate – la promessa – e mai poi,
mai, siamo diventati
continuamente travolti nell’attesa.
.
geninne zlatkis
.
Marina Pizzi
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da Afe o epifanie dello steccato malo
.
Intruglio di comete l’apice
Del rantolo. Tu ricorri e rincorri
Le torve anestesie del non vivere.
Amore tristo tritare le foto
Così vicine al nulla.
Mestizie fossili lentissime le tartarughe
Rughe del sono ormai senza più scampo.
Merletti monacali vorrei viverti
Candore dell’esito di esserci
Nonostante morte. Visibilio il bilico
Di starsene quatti. Ma la moria del sangue
Germoglia senni senza senso.
Meringa di ieri
L’infanzia.
Fu fantasma, spasimo d’eroe.
jamie heiden
.
Vittoria Ravagli
NATALE 2016
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Odore di brodo fumante
La tavola e noi bambini
il presepio nell’angolo
Le statuine avanzano di notte
Vanno con animali e doni
alla capanna
Ecco Gesù
tra Giuseppe e Maria
asino e bue
E’ Natale
Ci sono mia madre e mio padre
di fianco a me
Rinasco bambina tra loro
Mi hanno insegnato l’amore
la resistenza
l’attesa.
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jamie heiden
.
Liliana Zinetti
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Come febbre attraversi infetti
il sangue che pure attraverso te
fiorisce, tocchi la fronte le mani
sei goccia compatta, scalpello d’ossa
non ti appartengono né ritrosia né gentilezza
ferocemente nasci vieni
pretendi di tradurre la vita intraducibile.
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Tristezza radice pietraia
in mare nero luce
destinata a finire nell’arsura
batte gola oscura straniante
marzo raccoglie le nuvole grida
primavera di nidi, refoli di vento.
Scorrono l’amore la perdita il dolore
e dillo dunque
che diventi gesto lieve e in-fine
parola neve.
.
Rasente al suolo, sottotraccia
che nessuno senta, non fare male,
non farsi troppo male
tenersi in salvo.
La bufera ha spezzato le vertebre
del grande platano, sta spaccato
sull’asfalto, eppure era innocente
faceva un’ombra quieta, faceva verde
ospitava gli uccelli
E prego per l’albero, per chi inutilmente
ha scalato l’Ararat, prego per la bufera
che risparmia il cuore, per chi sa
che solo da soli ci si può salvare.
.
jamie heiden
.
Giovanna Duò
.
maggio giugno… agosto settembre… dicembre
1000 e ancora altri 1000
giorni anni migliaia e milioni di attimi
per parlarne la poesia non serve
c’è sempre un sacco di gente che si perde
troppe parole bruciate
o con un nome in corpo
e ogni nome è
un disperso
un annegato
un morto
non c’è porto che basti non c’è verso che contenga
non c’è rima che abbracci una sponda
non c’é
nessuno
tra un articolo e il prossimo
solo un massiccio strato di corpi
su altri
corpi invisibili
e mai la sofferenza che si azzeri
mai un sistema di giustizia che non giustifichi
e dimentichi
tra pagine di migliaia di tomi
che sono volti
vuoti di umanità dei perdenti
e non si limita il male e non finiscono di crollare
le case ogni realtà è un grumo di sangue e di cenere
anche senza lingua
come è possibile ancora
santificare le feste?
.
daria petrilli
.
Mariangela Ruggiu
.
io vorrei sorridere, sempre sorridere
come al mattino, quando il sole
stempera il buio e apre gli occhi del mio bambino
vorrei, sorrido a volte quando profuma il pane
quando profumi tu il mio tempo
ma senti il vento quante voci porta,
di dolore di corpi spezzati, di bambini infranti
senti l’odio grasso di chi è troppo sazio
e non riconosce più sua madre, eppure
ha un presepe in mano, un bambino di cartapesta
e cartapesta nel cuore
io vorrei sorridere, scrivere poesie
non queste inutili parole superflue
ché il mio corpo non ha ferite di guerra
non ha mani amputate, non brucia nell’acido
ma nei recinti di questa civiltà asfittica
che finge libertà, e confonde amore
con potere
ma sorrido tra le pieghe dei giorni
nelle ombreggiature del dolore
quando dico che io amo, io posso
.
daria petrilli
.
Francesca Cannavò
da SEI RACCONTI MINIMI
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Qui il mondo c’è a volte si a volte no.
Queste sbarre cadenzano le esistenze: del mondo e delle sbarre.
Nel mondo no la sbarra si impettisce e costringe alle spalle, ma costringe
anche l’aria e anche la luce del neon a farsi sentire.
A pioggia i segni sulle pareti si animano e accompagnano nella fuga
del momento, qualche schizzo di caffè , e il verde sul sette di spade, un cencio
lercio aspetta di essere raddrizzato ai piedi del letto, si apostrofa
un calendario fermo a maggio, in attesa del buon tempo.
Un santo d’accanto , un dio un corpo di donna uguale a nessuno.
Il silenzio è un cigolio convulso. Un rattoppo nella memoria.
Le storie si incontrano al centro della cella, si compongono , si esaltano,
competono e si sgonfiano quando sono stanche .
Le storie esistono e governano i fantasmi , solidi,
trapunti sulle braccia, sfilati dalle vene proiettati sul teschio della verità.
La notte le fa vere nell’ombra, e affondano tenaglie nelle carni , vive.
Anime intere nel mondo del no.
Il mondo a volte si, ha le arie dei bambini , l’ombra di un volo
di stormi un tralcio di azzurro, intermittente ricordo di luce,
il fischio dell’arbitro, uno sgambetto, uno sguardo torvo, una pacca sulla spalla.
La paura del buio.
Bisogna tenere a bada i nervi.
A volte è troppo caldo in testa e i piedi non riescono a star fermi , le mani
si placano a pugni e unghie affilate.
Bisogna saper dormire nel mondo del no.
Bisogna saper stare svegli nel mondo del si.
daria petrilli
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Alessia Bronico
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C’est aujourd’hui que la vie commence:
j’attends la neige gardienne du silence.
Nous pouvons oublier les couleurs.
Mets des gants et
regarde: tout blanc,
tout naïf, tout vrai.
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È oggi che la vita comincia:
attendo la neve guardiana del silenzio.
Possiamo dimenticare i colori.
Metti dei guanti e
guarda: tutto bianco,
tutto ingenuo, tutto vero.
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INDICE DELLE AUTRICI E DEGLI AUTORI
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Leopoldo Attico
Alessia Bronico
Francesca Cannavò
Elianda Cazzorla
Pino Chisari
Giovanna Duò
Anna Maria Farabbi
Narda Fattori
Fernanda Ferraresso
Adriana Ferrarini
Paolo Gera
Giovanna Gentilini
Vilde Mailli
Fausto Marchetti
Silvia Nerini
Milena Nicolini
Maria Grazia Palazzo
M. Chiara Papazzoni
Carmela Pedone
Laura Pezzola
Marina Pizzi
Vittoria Ravagli
Mariangela Ruggiu
Simonetta Sambiase
Lisabetta Serra
Gian Piero Stefanoni
Barbara Trozzi
Liliana Zinetti
Claudia Zironi
A tutti loro un sentito GRAZIE
grazie… natale è tanti sguardi… ma sempre c’è bisogno di bellezza e di amore, che sia bellezza e amore per tutti…
Lunghissimo. Folto. Un manto di parole a riscaldare Natale. Auguri alle Carte e a tutte\i noi.
AUGURI A ENTRAMBE E A ENTRAMBE GRAZIE!
parole, pensieri, emozioni: tanti piccoli pezzetti di vita che compongono un grande cuore rosso.
Sì, l’intento era quello di mostrare quel rosso che ci scorre tutti mantenendoci elementi integra(n)ti e capaci di integrità interagendo gli uni con gli altri, mostrandoci e sanando i nostri mali. Se davvero si facesse guardia comune a questo corpo forse si procederebbe verso la vita non producendo atti criminali come ora succede.
Dare ascolto a questo nostro corpo è la prima alleanza che dobbiamo costruire per essere integri ed aprire la strada all’accoglienza dell’altro.
È bello fare parte di un coro: l’ho sempre sognato ma la mia scarsa intonazione me l’ha impedito! Questo è un coro corteo, voci in movimento che additano e testimoniano le sofferenze del mondo . Grazie in particolare alla sensibilità anche corrosiva di Lisabetta Serra.
leggere tutte queste voci, e sentire in mezzo anche la propria, è come infilarsi in una calda coperta in una notte gelida. Un senso di quieta
gratitudine per ogni voce e per il direttore di questa orchestra di suoni.
le voci si sono autodirette, secondo la richiesta del direttore, dato l’attacco tutto si è messo in armonia con quanto precedeva e quanto seguiva.Grazie Adriana e Auguri di BUONE FESTE
Commossa. C’è una bellezza ulteriore le rese-prese letterarie, c’è cuore, fiducia di dire e dirsi in mezzo agli altri, buttando lì a piene mani carne e ossa e sangue. Fosse sempre così lo scrivere!, per aprirsi senza timori, dire: guarda!, così sono, siamo, è; senza rincorrere numeri di graduatoria, ma solo per uscire dalla propria ombra ed entrare in quella dell’altro, oppure dargli posto nella tua, oppure dare ombra insieme. In particolare commossa dalla profondità delle brevissime voci di Carmela, che aprono universi e sbalordiscono. Auguri a tutti voi che qui siete con lei, grazie di esserci e grazie a chi ci ha inventato l’occasione.
Lo so, sono sempre in ritardo… ma ce la faccio… ce la farò. Natale e Capo d’anno distanti quasi un mese. Ed è anche bello leggere quando tutte le luci sono spente e c’è solo un barlume di chiara stella… E stringi gli occhi per capire le parole, vedere le immagini, intuire le situazioni di cura e d’attenzione che altri hanno creato. Grazie a Fernanda, grazie a tutte e tutti. Chissà se rimarremo soltanto figure digitali? Un giorno potremmo incontrarci. NO?
Capita talvolta che con alcuni/e ci si incontro in occasioni diverse ma…sarebbe proprio bello trovarci insieme un giorno, tutti intorno ad un tavolo e raccontarci l’uno all’altro e leggerci o eleggerci in una amicizia più concreta e fatta tanti giorni a seguire. Perché no? Cominciamo a pensarci e poi lanceremo l’invito. Baci e auguri di pronta guarigione!
ferni