berlino- oranienstrasse
berlino- casa schwarzenberg
La casa della cicogna
Quel giorno, nell’elegante studio omeopatico di Enrica, il passato si ripresentò, prepotente, alla mia coscienza, dopo anni di rimozione.
Da allora mi ritrovo spesso a pensare ai quei lontani tempi di slancio e d’amore.
Era tutto così insospettato e magico! Un universo di rude e fiabesca avvenenza, nascosto fra le pieghe degli anni novanta; dietro l’angolo come dietro lo specchio.
Ero giunta a Berlino nell’agosto dell’ottantanove (millenovecento, s’intende). A novembre cadde il muro. Ma la città conservò ancora per un pezzo quella sua aria speciale, remota e isolata. Sì, Berlino era un’isola felice. Tanti ragazzi. Niente servizio militare (anche per questo tanti ragazzi!). La freschezza di un esoterismo ancora non troppo “new age”, il lesbismo matriarcale, i negozi biologici. I francobolli meno costosi che nelle altre città tedesche. Librerie alternative; rioni operai fieri della loro tradizione; facciate grigie e angoli scrostati, a mille. Il quartiere di Kreuzberg, l’Oranienstrasse brulicante di vita, con le bottegucce turche e gli studenti seduti a discutere e bere birra all’Arpa rossa o al Bateau Ivre, prima dell’avvento degl’impiegati collegati ai computer portatili, prima dell’assalto dei manager smart-telefonanti e dei turisti senz’anima.
Ci si dava facilmente del tu, si trovava la propria nicchia e si viveva con poco, a sapersi accontentare.
Mi ero quindi gettata a capofitto in quella vita frugale e avventurosa: le minuscole avventure del quotidiano. Come nei quadri di Spitzweg – quello del “Poeta malato”, noto dipinto rubato e mai più ritrovato, spesso riprodotto dai madonnari sui marciapiedi-, la felicità per me stava nelle piccole cose, nel quieto esistere pronto a vibrare per una voce o un colore, nella serenità senza sforzi dei pavimenti di legno grezzo, delle stufe di maiolica e dei passeri sul davanzale.
Nuda, spartana e giocosa può essere la bellezza.
Mangiavo in giardino accanto alla bassa conifera malandata (ma chi mai l’aveva piantata lì, in quel fazzoletto di terra che parco o bosco certo non era?), sotto l’ombrellone di stoffa a strisce, giocavo con Enrica a scarabeo sul glorioso tavolino da campeggio che avevo comprato a Roma nel negozietto di Amelio, “Casalinghi e robba varia”, coglievo dal “mio” melo frutti enormi e rari, mele di sorta antica ormai scomparse dal mercato: la mia seconda infanzia, la chiamavo. Una lussuosa (a volte lussuriosa) spensieratezza pervadeva le giornate.
Lontana Roma, lontana Bologna, lontanissime Messina e Palermo.
Dov’era finita la pressione dell’apparire, che tanto mi aveva schiacciato l’essere, fino a creparmi la pelle? (Dai tempi della banca, dove sputavo sangue come piccola cassiera, m’era rimasta una squamosa psoriasi, ora attenuata e quasi sparita). Dove il controllo sociale, l’Argo centocchi peggio dell’occhio di Dio?
Liberata e decantata mi muovevo fra le vie di Charlottenburg, il mio quartiere. Charlottenburg che negli anni trenta era detta “Charlottengrad”, per i tanti russi che ci vivevano; Charlottenburg colma di tracce prussiane, eppure capace di sorprenderti con variopinte comunità multietniche, come nel complesso della Niebuhrstrasse, dove abitavo io allora, in un appartamentino a pianterreno nella casetta che una volta si chiamava “della cicogna”, perché il fregio della facciata includeva fra le sue volute una grande cicogna grigia.
Nulla era restato delle decorazioni originarie, tutto era decaduto coi decenni, mai scadendo, però, nello squallore; le casette sembravano attempate costruzioni di campagna, paciose e accoglienti.
Ci conviveva un bestiario eterogeneo, un coacervo pittoresco di persone scostanti, amichevoli, buffe, misteriose, banali, bizzarre: aggettivi da non considerare necessariamente separati da un “aut aut”. Ci si poteva, infatti, imbattere nelle bizzarrie d’un individuo prevalentemente piatto, piccolo-borghese, o nelle fasi di freddezza di una vicina in genere cordiale. Le svariate combinazioni possibili ti salvavano dalla monotonia.
Heinz viveva oltre il primo arco, al primo piano, che poi era anche l’ultimo. Dalle sue finestre si vedevano passare i treni e la metropolitana sopraelevata, la cosiddetta “Es-Bahn”. Se c’era il sole, il metallo dei vagoni in corsa rimandava barbagli di luce, riflessi d’aria e d’oro, che s’andavano ad infrangere sugli infiniti utensili e arnesi della cucina, su pentole, padelle, forchettoni e macinini (tre: per il caffè, il pepe e i cereali), sui grossi barattoli di vetro contenenti riso, pasta, bulgur, miglio. Bella, la cucina di Heinz, profumata di odori buoni e antichi. Gli scaffali erano di legno d’abete, come i pavimenti; il tavolo, un vecchio banco di scuola, con il buco per il calamaio, la scanalatura per le penne, le tracce d’inchiostro.
Bello anche Heinz, raggiante e regale nel suo regno gastronomico, dove rimestava, setacciava, spennellava, trinciava e creava con sicura eleganza; nemmeno una macchia infiorava le sue camicie di cotone, di lino, di lana o di seta. Per vivere faceva il tassista, ma in realtà sapeva fare di tutto, e bene. Il ragazzo lupesco era un talentuoso eclettico schivo e discreto.
Parlava un italiano perfetto, morbido e musicale. Beh, diciamo un italiano quasi perfetto…
Dialogo tratto dall’archivio dei miei ricordi. Personaggi: Heinz ed io. Epoca: i miei primi mesi a Berlino. Luogo: soglia della porta di casa mia. Heinz ha appena suonato, io ho aperto; lui ha un’espressione strana:
“Ho trovato un animale morto nel mio giardino”.
“Che animale, Heinz?”
“Non so come si chiami in italiano. Non vorrei avesse la rabbia”.
“Com’è fatto?”
“Ha un cazzo grande così” (Heinz allarga notevolmente le braccia)
“Cazzo, Heinz?”
“Cazzo, Francesca”.
(Spavento da parte mia: quale bestia dal membro enorme può essere andata a morire nei giardinetti? Un cavallo, un asino, un animale mitologico???)
“Vengo a vedere”.
(La scena si sposta nel giardino di Heinz. Sotto un cespuglio di rovi ricadenti a cascata, c’è una volpe. Rossa e stecchita. Con un’enorme coda fulva).
“Questo sarebbe il cazzo, Heinz?”
“Sì, Francesca”.
“Questa è la coda. Cazzo è un termine volgare per pene”.
(Heinz arrossisce).
“Ma in tedesco è la stessa parola! Schwanz. Schwanz vuol dire tutt’e due le cose”.
“Però pene l’hai capito”.
“Sì, in tedesco diciamo Penis”.
“E non c’è proprio un’altra parola per questa lunga parte posteriore, per “coda”, voglio dire?”
“Schweif. Ma è un vocabolo ricercato, si usa poco nel parlato, e vale solo per certe…code”.
(Heinz si profonde in mille scuse).
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bernauer strase-berlino
berlino- il muro a kreuzberg
Le stufe di Berlino
La luce tornava. (Ogni anno la Candelora consacra puntualmente questa fase, coagulando in un giorno le attese e le speranze di un inverno. Qui al Nord i passaggi si sentono, la differenza fra luminosità e oscurità è qualcosa che si vive fisicamente, nel corpo, nel cuore, nella mente. I nordici, affamati di luce, si circondano in inverno di candele, e si stendono al sole al primo accenno di primavera). Il vento gelido, comunque, persisteva.
La stufa di ceramica gialla, in soggiorno, dispensava un calore confortante, arricchito da valenze estetiche. Ci appoggiavo la schiena, mi lasciavo carezzare dal caldo, a occhi chiusi.
Berlino vent’anni fa sbuffava fumo da innumerevoli comignoli, accatastava carbone in innumerevoli cantine, dando lavoro a spazzacamini, carbonai, fumisti; dai tetti, nel freddo, contro un cielo d’un azzurro sbiadito, vedevi alzarsi un filo di fumo, mentre il naso coglieva un odore inconfondibile, denso, fuligginoso. Poco ecologico ma poetico.
Lo spazzacomignolo (questa la traduzione letterale del vocabolo tedesco, Schornsteinfeger) della nostra zona era castano e rubicondo, giovane e spensierato, molto carino nella sua uniforme nera. Annunciava in anticipo il suo passaggio, disegnando col gesso una scaletta sul portone, con la data accanto. Quel giorno, guai ad accendere le stufe! L’avremmo affumicato, poveretto. Aspettavamo quindi con pazienza che si sentissero gli inquietanti rumori dell’azione di pulizia, cupi rimbombi che sembravano venire dalle viscere della casa, dalle pareti cave (le famose “pareti russe” del primo dopoguerra, con un’intercapedine riempita di giornali), dal soffitto, dal pavimento.
Gli spazzacamini portano fortuna. Molti vogliono toccarli. L’anno che arrivai a Berlino, un collega del nostro ragazzo dalle guance rosse era scivolato da un tetto, morendo sul colpo.
Gli spazzacamini non sempre portano fortuna a se stessi.
Finiti i gemiti e lo stridor di catene, potevamo infine procedere, con dita più o meno intirizzite, al rito dell’accensione. Quelle colazioni al freddo! La cucina spaziosa, quasi un soggiorno, scaffalata fino al soffitto, con una vecchia credenza giallognola vicino alla porta che dava sulla camera da letto, aveva un che di surreale a causa dell’incongrua presenza di una doccia accanto alla finestra. Sedute al bel tavolo di legno antico, Enrica ed io consumavamo un pasto a metà fra la tradizione tedesca e quella italiana: salumi e formaggi (ma in quantità ridotta rispetto alla colazione teutonica), panini e tisane, poi la fragranza avvolgente del caffè.
In cucina c’era una stufetta di ferro bassa e tozza, su cui si potevano persino cuocere i cibi; una cosa di tal fatta aveva il nome di “Allesbrenner”, “bruciatutto”, perché si nutriva in maniera onnivora: carta, cartone, legna, carbone a palline o carbone a mattonelle. Potevi farci ardere anche altra roba, se volevi o dovevi. Invece le aristocratiche stufe da soggiorno o salone, di ceramica verde, marrone o gialla, con ornamenti o senza, piccole, medie o grandi, più belle o meno belle secondo il lusso o la modestia delle case (noi ne avevamo una semplicissima, la più economica), tolleravano solo legnetti per avviare il fuoco e “Briketts”, mattonelle di carbone.
In me resterà sempre il ricordo fisico delle piastrelle della stufa lisce e calde, cui il mio corpo aderiva, dimentico di tutto per alcuni istanti. “Che fai?” domandava Enrica.
“La lucertola da camera” rispondevo. O: “La salamandra domestica”, “Il grillo del focolare”. Erano i nostri piccoli giochi verbali. Esercizi di fantasia.
berlino- orto comunitario
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Un sentor di primavera
Quelle case erano state costruite per i reduci della prima guerra mondiale; gli orti erano stati pensati per sfamare le famiglie numerose dei reduci. Una “famiglia numerosa” accalcata in quarantaquattro metri quadrati. Noi, in quello spazio, ci stavamo in due, più lo studio di naturopatia. Cioè, il soggiorno era lo studio, l’ingressino faceva da sala d’attesa, il gabinetto, tanto minuscolo da non contenere neppure il lavandino, era in comune con i pazienti. Io vivevo in sostanza nella grande cucina-tinello, dove c’era pure la doccia, e dove il lavello fungeva anche da lavabo. Lì scrivevo, preparavo manicaretti, rigovernavo, mi lavavo, sognavo. Lì mangiavo, da sola o in compagnia, contemplando attraverso la finestra il generoso sambuco del cortile (cortile ch’era in verità una larga striscia d’accesso alle case, un acciottolato fra due righe di aiuole) e le tre slanciate betulle oltre la rete divisoria fra noi e la centralina elettrica in disuso. Con le bacche del sambuco Heinz faceva marmellate e succhi. Una volta l’anno contemplavo anche la sua snella figura in equilibrio sulla scala di legno, le magre mani protese verso i rami. Capitava che lui si girasse, mi scorgesse, e mi facesse un bel sorriso, sullo sfondo verde-neroviolaceo dell’albero amico. In seguito avrei potuto gustare i frutti della sua fatica. I sambuchi possono essere arbusti o alberi, il nostro era uno splendido esemplare arboreo, dalle bacche scure, prodigo dei suoi doni. La centralina, due decenni dopo, sarebbe diventata la sede di una lucida agenzia pubblicitaria, brulicante di giovani impiegati perennemente vestiti a lutto.
Avevamo una camera da letto piccolissima, cui si poteva accedere sia dal soggiorno-ambulatorio sia dalla cucina; queste ultime stanze avevano in aggiunta un’altra porta, che dava sull’entrata. Un appartamento “circolare”, lo chiamavo io. Mi piaceva farne il giro di corsa in pochi minuti: ingresso, soggiorno, camera, cucina, ingresso. Il tutto era completato da una minuscola dispensa con finestrino, un vano misterioso, con piccoli scaffali azzurri, che sembrava la borsa senza fondo di Mary Poppins: ci stava di tutto, dai sottaceti agli attrezzi (pinze, martelli, tenaglie, pennelli), dal vino agli utensili da giardino. Ogni tanto saltava fuori un oggetto dimenticato, ogni tanto scompariva un oggetto, poi vanamente cercato. I soffitti erano bassi, insoliti per una casa di così vecchia data, ma “giusti” per risparmiare materiali da costruzione prima, e spese di riscaldamento dopo.
In questa casetta della strega, con erbe appese a seccare, libri dovunque e profumo di tisane, vidi per la prima volta sbocciare una primavera nordica. Un sentore di primavera, questo è quello che hai in febbraio, quando ritorna la luce e le vecchie lobelie color del fieno lasciano il posto a un ciuffo d’erba scomposto, che trema tutto al gelo del vento. Le radici che ti decidi a strappare sanno di muffa, di marcio e muschio e mesi di freddo. A marzo, devi ancora temere le gelate; aprile qui è come il nostro mese di marzo (si parla di “Aprilwetter”, tempo d’aprile, per indicare estrema variabilità e temperature instabili), ma più cattivo. Eppure, il corpo ti avverte che il peggio è passato, l’anima si dilata e il cuore canta a distesa.
Sì, l’erba osava rispuntare. Presto ci sarebbe stato fervore nei giardini. Già c’era chi faceva arieggiare le “Lauben”, capannucce in cui si può mangiare, bere, addirittura dormire, e in cui si ripongono arnesi e grill. Per quei fazzoletti di terra, tali costruzioni erano esagerate, sottraevano troppo spazio al verde. Tutti però esibivano quel simbolo di prestigio, fatta eccezione per il Nano, noi due e Heinz. Il Nano –un irascibile pensionato tedesco rispondente al cognome di Müller, in Germania più un nome comune che un nome proprio, come Di Gennaro a Napoli, o Colombo a Milano- aveva un giardino cimiteriale, scuro scuro, con aiolette regolari delimitate da pietre, e quattro cipressi nani ai punti cardinali. Parlava a grugniti, preferiva comunque tacere. Dal giardino di Heinz si passava direttamente, attraverso un arco bordato di glicine, in quello dell’incredibile Veronika, sua amica, sveva come lui, alta, massiccia, robusta e pigra, sempre abbastanza di buon umore, sempre stanca. Dopo il lavoro, nelle ore pomeridiane, dormiva o guardava la TV. Non l’ho mai vista perdere la calma. Aveva amici a Roma e per questo si arrangiava con l’italiano, cosa che favorì notevolmente i nostri rapporti. Io ero arrivata a Berlino conoscendo solo la coniugazione del verbo essere, un paio di numeri, le formule di saluto e di congedo, e gli scontatissimi vocaboli “Bitte”, “Danke”, “Kaputt”. Ah, e i termini per “alta e bassa marea”! Sì, dopo tre mesi di scuola e letture riuscivo a comunicare, e neppure male, ma poter parlare la mia lingua madre era in ogni caso un gran sollievo.
Heinz e Veronika erano festaioli. Organizzavano spesso piccoli incontri con gli amici, e soprattutto non mancavano di celebrare il compleanno, una volta a casa dell’uno, una volta a casa dell’altra. C’invitavano immancabilmente. Ed era bello. Con il sapore delle crostate di Heinz in bocca, chiacchieravamo con i tipi più disparati, dal direttore di un museo di Dresda con famiglia a Berlino, agli amici africani di Veronika -che aveva un fidanzato senegalese-, dalla naturopata esperta in erbe che, per amore, aveva trascorso la giovinezza a Zacinto, al venditore di oli essenziali con i capelli perennemente arruffati. Il direttore, dieci anni dopo, si sarebbe separato dalla moglie, la naturopata avrebbe di nuovo, a cinquant’anni, seguito il richiamo del cuore, stavolta fino alla nordica Oslo.
“Devi imparare più dedesco –mi esortava Veronika-, così puoi pallare meglio con tutti. Se vuoi, puoi pallare ogni ciorni con me”.
Poi, però, le giornate facevano il loro corso, e delle lezioni restava solo l’intenzione. Il mio tedesco migliorò grazie alle assidue letture e a una buona scuola privata.
Heinz era piuttosto critico rispetto all’italiano della sua amica: “Riesce a dire la stessa frase cambiando ogni volta il tipo di errore” era uno dei suoi commenti ricorrenti.
Sì, lui, il mio “ragazzo miracoloso”, nobile e riservato, sapeva essere anche un po’sfottente, e lo sarebbe diventato ancora di più col tempo e le cattive frequentazioni.
In ogni caso, la sua solidarietà e il suo affetto erano un bene grande; amici e conoscenti ne erano coscienti, per questo gli perdonavano piccoli graffi e morsi, più canzonatori che cattivi.
Io lo trovavo meravigliosamente meridionale, spontaneo, veloce nel legarsi a chi gli riusciva simpatico. Qui, le amicizie maturano con lentezza. Ci si dà appuntamento, si segnano gli impegni sull’agenda, anche ad un mese di distanza; “sich verabreden” si chiama una cosa così. Per la prima volta nella mia vita, avevo sentito a Berlino l’espressione “paura della vicinanza”, “Angst vor Nähe”. Ma dov’ero finita, io che da ragazza sognavo di erodere i margini di estraneità, affratellandomi a più gente possibile? Heinz era diverso.
“Domani da me o da te?” la domanda più ricorrente fra noi. Pranzavamo spesso insieme, da quando lo studio omeopatico non era più fra le mie pareti domestiche, ed Enrica tornava a casa dopo le nove di sera. C’erano giorni in cui mi sentivo sola, m’intristivo. Poi squillava il telefono: “Accendi il televisore: ci sono i maiali!”. Era lui che mi avvisava, riferendosi a una trasmissione per bambini che piaceva ad entrambi, e in cui a volte mandavano in onda un episodio con dei porcellini. Io amo porci, cinghiali e scrofe.
Odore di stufa, terra che si risveglia, sapore di crostata alle mele e il raro dono dell’amicizia: la mia Berlino di quegli anni.
A ripensarci, forse Heinz mi ha salvato la vita.
Lilla Consoni
se fossero racconti vi è da dire che sono pregni di notevole fantasia, se al contrario sono spaccati di vita vissuta sono scritti molto bene e piacevoli nel condividerli