amedeo modigliani- elvira che riposa a un tavolo
La parola scritta, non quella orale in cui entra l’animo del narrante, le intonazioni e le coloriture della voce, ma quella scritta, dipinge, tratto per tratto, una storia?
Ne definisce le scene, ne ratifica i tempi e ne imposta i cardini di accesso, anche quando non sono scritti in chiaro . Ma.
Riesce, frase dopo frase, e consecutiva dopo temporale, oggettiva, causale,…a dire attraverso verbi e aggettivi, pronomi e avverbi, un castello di sinonimi, un treno di interpunzioni,…riesce a dire la voragine e la vertigine che sta tesa, ferma immobilizzata, placcata e bloccata da un pittore dentro cromie e mine, nell’olio calmo di un mare di colore? Riescono, per esempio, le parole BIANCO TAGLIO, essere un transfert per una tela intonsa in cui sta un taglio di Fontana? Quanto spazio le si dovrebbe conferire all’interno di una pagina, che misura dovrebbe avere il suo font e basterebbero il grassetto, il corsivo, o le altre modalità per mostrare il monstrum che si annida in quel loro nodo?
Anna Ferramosca sceglie tre “scatti”di poesia per riprendersi dall’incontro, o nell’incontro, per affrontarsi, fronte a fronte con l’opera e la sintesi che in lei apre il passaggio all’ascolto. ASCOLTARE, dunque SENTIRE e misurare il suo passo, è il verbo che usa in apertura, di fronte ad Elvira, la Quique, figlia di una prostituita, che Amedeo Modigliani, povero e tenero, incontrò in un caffè e da cui venne attratto definendola donna fatta per l’amore. La relazione che nasce dall’incontro con Elvira è sessuale e sensuale. Esistono diversi aneddoti sulla libertà che i due si prendevano nei loro incontri. Modigliani la ritrae nuda esponendo il ritratto che di lei aveva nell’anima, nel profondo di sé e come ultimo suo ritratto. Nell’opera che Annamaria sceglie è ritratta ferma, seduta, lontana, pensante o pesante, dentro un suo tempo appena accennato dalle cose che la toccano, il tavolo, la sedia nemmeno visibile, solo percepibile dalla modalità in cui è ripresa: all’altezza della vita piegata in due, il braccio a sostegno del capo, appoggiato e anch’esso ripiegato. Una ciotola bianca accanto, il cui contenuto non è identificabile, niente alla parete dietro di lei, l’ombra sotto il tavolo, che s’impasta al pavimento, mentre l’abito scuro di Elvira, delinea il corpo, come in un sacco o in un saio, appena appena si vede un filo di bianco che spunta dall’orlo del collo. Tutto è fermo, immobile.La si potrebbe scambiare per una statua. Lei non ha occhi se non una macchia interna alla mandorla con cui il pittore glieli modella. E, la modella, modella lo spazio, in una forma plastica e nitida, senza altro dettaglio che un insieme di curve morbide, l’unico vezzo, il ciuffo dei capelli, lievemente scomposto dal resto dell’acconciatura ben definita nell’ovale del volto. E’ tutto chiuso, non passa nulla. Solo il pittore e la ragazza, che ha davanti e in sé, mentre la sta osservando e vede (in) se stesso. Ecco! Anche Annamaria vede se stessa, come del resto è l’unica cosa che è possibile fare, vedere, cogliendo in sé quei tratti con cui delinea in sillabe la sua stanza, il bagliore del suo corpo fattosi distanza, la pesantezza del mondo che preme, quel nero che la permea e la mano, sottolineata in basso, all’altezza del pube che sembra stringere qualcosa.
Omaggio d’amore alla sua Elvira, Annamaria le sfocia accanto da un moto dell’’anima e dialoga nel silenzio della ragazza, o l’altra sé in cui per un tratto si versa, in un olio, nella tela di se stessa.
E così per ogni opera, in cui il ritratto riprende una donna, in età differenti, o addirittura senza età definibile, perché l’opera, a volte, non consente di vedere i tratti della modella, Ferramosca si mette fronte a fronte con il ritratto che le ha innescato nello sguardo un senti-ero. E lei lo intra-prende e lo accende di sillabe, trasmigrando in sé attraversa la sua tela, o lo scatto digitale, come per le opere di Cristina Bove, che occupano la parte centrale del libro e hanno una dimensione molto estesa, che si allunga in due pagine consecutive, per cui si vede l’opera solo aprendo quell’involucro che ci ricorda il depliand, il pieghevole. Uso queste parole proprio per cercare di mirare all’essenza del mezzo, anche grafico, usato. Il foglio pieghevole, a carattere informativo o pubblicitario, pubblica, cioè rende pubblico-collettivo, uno stato che è l’essere. La nostra terrestrità tangibile e non tangente a qualcosa d’altro ma un corpo unico, uno-l’altro, che rischiano insieme, che si feriscono come un solo essere, ed è visibile, sensibile in quel grande formato che ha il corpo dell’immagine dentro cui la scrittura si solleva o si sprofonda come quelle turrite forme, spaccati dell’essere dentro cui una sagoma scura, sottile, centrale, di fatto non è perno, pur permeando di quella sua piccola macchiolina scura tutto l’immenso che in sé si misura e specchia.
E la chiusura del libro, come l’apertura, attraverso l’opera di un artista uomo, Antonio Laglia, offrono l’occasione a Ferramosca di ritrovare due momenti simmetrici. All’inizio della raccolta Modigliani e la sua Elvira, ferma mentre si ri-posa, apre i territori lontani di Annamaria e, passo dopo passo, dall’infanzia di Jeanne fino alla chiusura, riportano l’autrice all’origine di sé, nella madre che ri-posa in una posizione composta che ha la stessa tessitura-armatura della prima opera, quella di Elvira di Modigliani. Anche questa scena ha pochissimi elementi a delineare un ambito.
la compostezza di mia madre
una terra in riposo
Scrive così la poeta mentre nella pagina contigua, come in uno specchio che è anta di armadio, come un tempo si fabbricavano, sta quieta, con gli occhi bassi, messa all’angolo della stanza, mentre rigira un cucchiaino nella tazzina di caffè, una donna, le braccia piegate, la schiena appoggiata allo schienale di un divano, l’ombra di lei appena definita che sborda appena, dall’orlo della seduta, la cui tappezzeria è sfiammata, sfocata, le rose sembrano essere sfiorite e resta in terra, l’ombra di quell’appoggio dentro cui l’ombra della donna viene come ingoiata, lasciando alla luce solo la sua figura, nei toni dell’azzurro e del blu in ogni suo elemento di riconoscimento, che si fa elemento di conoscenza dell’autrice. Madre e figlia dentro la luce del ritratto come se la matrice di un disegno si fosse fatta plastica-mente l’ambìto luogo dell’incontro permanente. Ed è in questa collocazione che Annamaria ritrova quella se stessa cercata in tutto l’attraversamento del libro, un territorio interiore senza confini, i cui unici limiti, gli orli, sono dati da lei stessa, mentre li attraversa parola per parola, fino a
sono come lei terra ospitale
in questa luce azzurra sconfinata
che mi attraversa e placa.
Dialogando con la pittura del sé, attraverso i dipinti di Modigliani, Kahlo, Bove e Laglia, Ferramosca si è data un passe-partout, per un passa-porto in cui il fronte del viaggio si fa frontiera dell’ascolto, liberando sé attraverso le altre, donne ri-tratte che, forse, le rendono la chiarezza del viaggio che, pur sole, pure nell’ombra disegnata sulla tela o dalla parola, è ancora luminoso.
fernanda ferraresso
.
antonio laglia- il caffè
.
in magnetico ascolto del mio colore
stai traducendo questa rassegnazione
ti parlo in silenzio azzurro senza pupille
mi piega una stanchezza del mondo
senza fine né origine
e ipnotico tu mi persuadi
che l’uomo è un mondo e a volte
vale interi mondi
così mi pensi al mondo slungata in
dolcesagerata distanza del
capo dal busto
nella tua stanza che dilata d’assenza
avec de l’absinthe vuoi distrarmi
dal biancore d’infanzia
mettendo altra distanza tra la fronte
e il grembo tuo assillo
tuo fuocomistero
vedi come lo difendo con
mano di sentinella
là non puoi raggiungermi
.
cristina bove- aggancio
.
aggancio
minuscola ma ferocemente centrale
una donna
in cammino sul pianeta sfigurato
– quiete dopo l’apocalisse –
la terra le sta chiedendo una rinascita
ora che la luce è tornata a splendere
lei risponde come fa una madre
che cerca un riparo per il parto
ripete la sua marcia preistorica
dal cerchio di Stonhenge verso
il fulgido che squarcia gli orizzonti
lei cammina verso un futuro antico
– intorno le voci risuonano nuove
il cuore sempre uguale –
lei dimentica
ogni colpa ogni miseria
ho ancora semi da salvare
bestiame da ricoverare
ricomincerò con le sorgenti con i boschi
e il lago ai suoi piedi gorgolia vita
racconta di come acqua e terra si amano
disegnando anse lungo i fiumi
lei sente l’erba che nel bere trema
sapendo che al rigoglio seguirà la fine
eppure sorride dell’effimero
so di vivere solo per rinascere
filo d’erba o forse gazzella o tortora
fino a che s’alterneranno giorno e notte
lei continua a lasciar traccia dei rifugi
ponti passaggi tagli
testimone testarda di albe nuove possibili
*
la compostezza di mia madre
una terra in riposo
a volte così segreta
cercava un angolo dove fermarsi
a occhi bassi ripercorrere il viaggio
le mille lune spente
e il nuovo giorno ancora il nuovo
sole che abbaglia
in quella sua specie di preghiera
a piedi giunti
sei la mia verde luna di caffè – diceva –
ti farai bere anche tu
poi emergerai alla vita
e un giorno ti ritroverai
ferma ad ascoltare la mia-tua voce
il nodo caldo che ci lega
oltre ogni confine
piego la fronte
sul mio caffè lunare
sulla sua voce
sono come lei terra ospitale
in questa luce azzurra sconfinata
che mi attraversa e placa
**
Annamaria Ferramosca, TRITTICI. Il Segno e la Parola- dotcom PRESS 2016
*
Nota: l’opera di Modigliani in apertura e l’opera di Laglia a chiusura si confrontano con i testi di Ferramosca, il primo specchiandosi nell’olio di Laglia e l’ultimo testo a chiusura solo come un richiamo. Volutamente in questa s-com-posizione, per mostrare come l’arte circoli e cortocircuiti l’ascolto in un prima o dopo che non sono crono-logici ma appartengono al nostro passo interiore.- f.f.
la tua belissima nota di lettura abbraccia poesia e colore.
grazie
e’ proprio così che accade. qui l’ecfrasi di Fernanda, puntuale e maliosa, dimostra che le arti dialogano tra loro da sempre, da sempre indicano percorsi all’immaginario, stimolano lo scavo interiore e la scoperta irriducibile del mondo. ma tutto questo non poteva ri-crearsi senza il primum delle immagini, degli estri (ma-estri!)che per primi hanno mosso mente e parola, anche la tua. e tu, Fernanda, l’ hai così ben compreso e dilatato. Grazie.
annamaria ferramosca.