agostino arrivabene
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Dalle conversazioni di Anna Achmàtova con Lidija Cukovskaja (1937-1941).
Carelia! Carelia! Non è forse il nome giusto per una prigioniera che si vuole tenere in vita
con la magia del nome?
Conservo i palazzi, il fuoco, l’acqua. Non li manderò in esilio andando in esilio.Preferisco vedere il sangue ogni giorno. Preferisco temere i rintocchi alla porta. A
consolarmi è il ricordo di noi due che in qualche secolo lontano siamo passati di qui, insieme, e abbiamo tracciato questo solco nella neve.
Davanti al carcere, con la mente polverizzata dal sole, a fare sogni non terreni. A illudermi di rivedere Lev. Verrà a prendermi il cigno o una zattera nera?
Le zolle hanno pietà di voi. Fate gesti che sembrano appartenere al mondo dei vivi. Presente come il sibilo del vento sulla superficie ghiacciata. Presente a scrivere senza cancellature i miei versi nel quaderno che avevate bruciato, marchiata da un destino che solo i posteri giudicheranno se è stato tragico o splendido.
Mi avete odiata e schernita e ora mi intervistate sulla poesia. Non saprei cosa rispondervi. Potrei dire: la poesia è ciò che voi non potrete mai essere. Questo stato, in cui voi non sarete mai, genera versi.
Mettendo insieme dei cenni misteriosi, potrete vedere Anna Achmàtova, prodotto casuale di alcuni segni sfuggiti all’ordine costituito.
Non è altro che una pietruzza che ragazzi incoscienti, nella notte, hanno graffiato per gioco. Come sono dolci, al ricordo, i graffi di quelle dita! Ritocco quel sasso ed è così chiaro il mondo, così circolare e cristallino, da farmi dubitare che esista! Ma ricordo le parole di Camille Claudel: «C’è qualcosa di assente, nell’aria, che mi tormenta».
Abbiamo scelto questo tempo e questo luogo per metterci alla prova nel modo più atroce e più fulgido. Chi scrive ancora poesie dopo quanto è accaduto, sa proprio tutto del dolore.
Il mondo si è abbassato di tono, in qualche modo. In quale modo?
Chi si inoltra nel vicolo è la consueta, sinistra figura che da anni fa ombra alla mia fiamma, in tutte le notti d’inverno. Lui sa come far risuonare un grido strozzato. Lui sa – il mio sosia – che un terzo autunno come questo sarebbe, per me, la morte.
Sul punto di andarmene per strade terrene, mi ferma il potere di un suono purissimo. Mi avvicino e vedo da cosa viene quel suono: da un ramo alto, che stormisce in modo particolare, come se ripetesse un nome. Non ho più nessun desiderio di restare al mondo. Ma il sangue che si è sparso mi consegna al mio destino.
A Taskent, per la prima volta, ho conosciuto che cos’è, nell’afa ardente, l’ombra degli alberi e il fruscio dell’acqua, e che cos’è la bontà umana. A Taskent fui a lungo e gravemente ammalata.
-Ma lei può descrivere questo?
E io dissi:
-Posso.
Allora una specie di sorriso scivolò su quello che una volta era stato il suo volto. Nel freddo spietato, nell’afa di luglio, sotto la rossa muraglia abbacinata, file di donne con pacchi, occhi, teste, corpi da trascinare. Ma in fondo cosa importa, se tutto si tramuta in cenere? Su molti abissi ho cantato e fra molti specchi ho vissuto, ma oggi non c’è abisso che io possa trasformare in specchio.
Che la mia presenza non sia, per voi, né sonno né gioia né grazia, ma solo sordo silenzio. Sappiamo l’uno dell’altro qualcosa di spaventoso. Io, che voi esistete. Voi che io, affamata o torturata, potrei accondiscendere agli ordini più umilianti. Siamo in un girone infernale. Forse non siamo neppure noi. E persino io, se mi cavaste gli occhi, ucciderei la parola…
Ho scoperto il racconto: era stato bruciato. Allora ho preso i frammenti di carta, i mozziconi di frasi, e li ho posati sul margine del davanzale, in casa del morto. Poi sono uscita. Senza di me, il primo soffio di vento li avrebbe portati dove non avrei saputo più nulla di loro…
Nella mia voce, dopo che è stata soffocata,
risuoni la terra – come ultima arma…
(da una poesia di Osip)
Deportato, fucilato, perquisito: parole che neppure pronunciavamo, simulandole con brevi gesti delle mani, opponendo pollice a indice, indice a medio, medio a mignolo. Qui, in Russia, non manca mai, parallela alla nostra stanza da letto, la camera di tortura.
Sono venuti. Hanno saccheggiato. Non sono tornati.
Qualcuno vuole del tè?
Come posso sopportare che su di me resti una macchia così infame? Non chiedetemi nomi. Non chiedetemi nulla. Io vivo per il futuro.
-Qui, qualche anno fa, nelle notti bianche gridava una foca.
-E quelle due finestre, con i vetri colorati di rosso?
-Lì fu ucciso Paolo I.
No, non è più tempo di passeggiate. Questo, io lo sapevo dall’inizio del secolo.
Già, letteratura per signore. Ma la vostra si chiama ignominia.
Stupidi! La mia poesia non è mai stata semplice.
Blok? Ha conosciuto la fama per dieci anni interi. Ma dai suoi diari traspare l’estrema freddezza, la ripugnante ostilità che provava per gli altri. Ci sono pagine spaventose su Mendeleev e su Ljuba che sono state espurgate dall’edizione definitiva.
Ma dov’è la mia casa, dov’è il mio senno?
Già la follia, con la sua ala, ha coperto metà della mia anima.
Non fare, Dio, che io perda la ragione…
Il viso a volte ringiovanisce per i tormenti,
restituendo l’antica bellezza.
Oggi ho scritto di Puskin. (Vìolo il codice. Ascoltatemi e condannatemi. Puskin è un nome-maschera. Ho appena terminato il Requiem.)
Perché voi sapete a memoria i miei versi cinque minuti prima che io li scriva?
Alla fine del Litejnj c’è sempre una nuvola, a qualsiasi ora la si guardi: ha un colore diverso, ma è sempre lì, nello stesso punto.
Sì, il Nevskij è deserto. Ma non posso poggiare i piedi sull’asfalto, non posso traversare la strada. Sono di pietra, murata dalla paura. Devo supplicare Lidija, a cui mi aggrappo, stringendole il braccio oltre la pelle, fino all’osso.
-E ora si può?
-Sì, certo.
Pianissimo, mi avvicino al centro della strada.
-E ora? – urlo, gli occhi offuscati da un velo.
E’ l’una di notte. Cielo bianco sul Nevskij. Non vado né avanti né indietro, pensando che l’ordine di un soldato possa cancellarmi dalla superficie del pianeta.
Ma ecco, già distinguo le parole,
le spie sonore di leggere rime –
allora comincio a copiare
e le righe che qualcuno mi ha dettato
si posano sul candido quaderno.
(da una minuta del 1938)
Il teschio di Jaroslav ha ancora tutti i denti intatti: non la considerate anche voi una speranza per il futuro? Di speranza, talvolta, si impazzisce.
Era il febbraio del 1934 e camminavamo per via Precistenska. Svoltando nel boulevard Gogol, Osip disse: «Sono sempre pronto alla morte». Sono passati ventotto anni da allora ma ricordo il suo sempre, quando cammino vicino a quel luogo.
Ma io vi prevengo che vivo
per l’ultima volta.
Nè come rondine o acero
né come giunco o stella
né come acqua sorgiva o suono di campane
io turberò la folla dei vivi
e visiterò i sogni altrui
con un gemito insaziabile…
(prima versione, 1939)
Lev è ancora vivo: ogni giorno ritiro, dal foro stretto, il mio pacco per lui. Io penso ad Esenin e perdòno la sua banale e isterica poesia per quell’unico verso terribile e sublime che continuo a sussurrare davanti alle mura del carcere e che altre voci mi ripetono all’orecchio: «Nelle segrete non fucilano gli sventurati..». Appendetemi come una belva ferita, se volete; ridacchiate increduli intorno al gancio cruento da cui dondolo; scrivete su autorevoli fogli ministeriali che la mia grazia è spenta, il mio dono perduto e che io, poeta fra i poeti, la parola di pietra pesante sul cuore, devo tacere: per me, come per i miei affetti spezzati e le mie poesie bruciate, è scoccata da tempo la venticinquesima ora.
Nella mia casa devastata ho dormito settecento anni ma non è servito a nulla: il carcere mi ha disfatto il figlio e fustigato la Musa a morte, una volta per sempre.
No, con Modigliani non si parlava mai di cose terrene – ma si rideva e rideva e rideva, fino a perdere i sensi…
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Marco Ercolani
da LA TERRA MI E’ DI PESO. SCRITTURE APOCRIFE
Riferimento in rete https://rebstein.files.wordpress.com/2009/09/marco-ercolani-la-terra-mi-e-di-peso1.pdf