Le nostre città invisibili- Fernanda Ferraresso. Brevi riflessioni

 giorgio de chirico- l’enigma dell’arrivo

cover Giorgio De Chirico, L’enigma dell’arrivo

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Non amo le città che per sovrapposizione ad un indelebile desiderio di verde che ho dentro di me. Se le nostre città fossero fatte di corsie di alberi, corsi e vicoli di foresta, aperti slarghi come prati…ecco allora amerei le città. Per ora le disegno e sempre cerco di introdurre il verde dovunque posso.Trovo sia la salvezza del genere umano. Altre volte, come Calvino, lo stravolgo a tal punto da filmare davanti ai miei occhi ciò che è l’essenza dei panorami urbani attuali. Certo nel sogno è più facile conviverci o addirittura amarli, spesso in virtù di quelle utopie e dei tanti sogni che, di fatto, sorreggono le geometrie dei palazzi, delle piazze e che sono gli ideali e le illusioni che le metropoli attuali cercano di palesare attraverso facciate sempre più rocambolesche a mio parere  e sempre meno umane.

Il grande, l’esteso, il vasto, il gigantismo, non è stato solo il segno delle civiltà che ci hanno preceduto. Il miraggio di dare un’immagine di potenza e virtuosismo attraverso l’architettura  partono, per il contemporaneo, forse dai primi sventramenti di una città europea, Parigi, dalla metà dell’Ottocento, epoca in cui Hausmann e Napoleone III la devastarono per trasformarla in ville lumière, in un trionfo di boulevards in cui la borghesia trovasse i suoi luoghi di elezione.

Da allora tutte le evoluzioni e i cambiamenti fecero della città un continuo cantiere aperto in cui le diverse necessità, per altro viste dai nostri antenati, portarono alla costruzione di rete fognaria, rete idrica, illuminazione, pluviali e scarichi nelle reti stradali, sedi delle attività commerciali, banche, negozi, caffè, teatri…dando l’impressione che solo nelle città si raccogliesse il meglio del meglio di ogni produzione e che quella era la sede privilegiata per l’intrattenimento e per la produzione di conoscenza e cultura. Teatri, musei, gallerie, atelier, e tutto quanto gravita intorno all’arte fanno delle città la sede privilegiata per l’incontro anche con le altre culture anche se, come già era capitato, nuovamente la guerra rende la città il bersaglio facilitato per capovolgere il primato di uno stato. Il terribile crollo nella fiducia che la città fosse il momento di aggregazione per eccellenza si frantuma, e il fuggi fuggi nelle campagne e nei piccoli paesi che  forniscono la possibilità di sopravvivenza sotto i bombardamenti porta a ridimensionare l’ambito urbano e cittadino e a vederlo come quello meno adeguato a dare la più giusta relazione tra le parti sociali e la miglior fonte di sostentamento. Anche il progresso industriale, la tanto agognata modernità come fine e non come mezzo per raggiungere il benessere porta ad una sola risoluzione: tutto questo è chimera e nel nostro paese era stato, come del resto lo è anche ora, visibile attraverso esasperazioni che un tempo hanno avuto nome di  Futurismo, ora di neo modernismo, in cui l’umanità dovrebbe essere sostituita da una misura tecnologica avanzata con il parallelo declino di un sentimento di appartenenza alla comunità umana. Mai come ora infatti  la città e la periferia come diretta espansione continua delle metropoli riescono a rilevare da un lato  l’insaziabilità di una macchina onnivora che ha nome capitale e finanza e dall’altra l’adulterata idea che l’avanzamento di una nazione avvenga non per conoscenza e cultura, per aggregazione e condivisione delle parti sociali, ma come capacità di imporsi, anche e soprattutto con guerre sempre più aspre e inique su paesi e popolazioni che hanno il solo difetto di possedere non le tecnologie ma le materie prime utili agli altri, paesi sbruffoni e guerrafondai.

Il profondo e logorante senso di estraneità, di mancata partecipazione reale alle scelte,al mancato godimento di quanto falsamente chi sostiene la guerra dice di voler raggiungere diventa nell’arte, unica portavoce di questo silenzio, il vuoto di piazze e palazzi, che è vuoto culturale e intellettuale di una città che Giorgio De Chirico descrive con orologi bloccati e ombre lunghissime aggettanti, quasi assordanti in tutto quel silenzio vuoto di gente, di incontri, di scambi. La prospettiva che assume le forme rappresentative dell’assonometria dice quanto dissidio c’è tra teoria e realtà, tra ciò che si propaganda e ciò che di fatto si vede. Nei suoi  paesaggi urbani  l’immagine che si palesa chiara è quella di una città deserta, con geometrie spigolose, volumi silenziosi in cui le ombre raccolgono le ore mentre gli orologi tacciono fermi il loro battito inutile, che non rende accessibile a nessuna forma di contatto.

E oggi, il gran trambusto, il viavai delle auto non dice nulla di diverso da quel tempo. L’isolamento è ancora più acuto e l’indifferenza è il metronomo delle nostre vite, basse, bassissime, prone, attive solo nei confronti di un consumo che non restituisce agli uomini nessuna dignità, nessun valore da aggiungere alle cose, perché anche noi materiale di mercato come ogni altro oggetto, soggetto a compra-vendita. La scalata al progresso dopo la seconda guerra mondiale, la grande ricostruzione, ha innescato effetti speculativi devastanti che hanno a loro volta creato  tanta insoddisfazione, l’esasperazione e il caos più totale in cui di nuovo siamo estranei, gli uni agli altri ma addirittura a noi stessi, dispersi in una crisi che non si è fatta solo arma economica e dunque guerra ma anche virale ed endemica capacità di distruzione interiore  da cui da tempo non ci si risolleva. E questa, pare, sia la storia che ci riguarda con cui ci iscriviamo nella geografia terrestre.

fernanda ferraresso

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