Raffaella Terribile- Mai dimenticherò. Viaggio dentro la memoria

davide b. – auschwitz-birkenau- il bosco di betulle

bosco di betulle polonia

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Il sole è una palla rosso fuoco che si appoggia sui reticolati di Birkenau, il “bosco di betulle”. Le betulle che sono state scenario di uccisioni di massa, di fosse comuni, di esumazioni di migliaia di corpi decomposti, di incendi per cancellarne le tracce. L’inferno sulla terra. Mi giro ancora una volta, l’ultima, per cogliere questa immagine e trattenerla dentro di me. So che non la dimenticherò. L’epicentro dell’orrore della Storia. Migliaia di chilometri di viaggi verso la morte, da ogni angolo dell’Europa. Un milione e centomila persone che varcarono le sue porte senza uscirne più. In stragrande maggioranza ebrei, russi, polacchi, prigionieri di guerra, omosessuali, oppositori politici, zingari.

E’ il tardo pomeriggio di una giornata di fine gennaio. Sono arrivata ad Auschwitz questa mattina, sotto un cielo livido. Non è particolarmente freddo per queste zone dove la temperatura scende d’inverno anche a venti gradi sotto zero. Lo spiazzo davanti all’entrata raccoglie qualche pullman e le prime comitive di turisti della giornata. E’ strano pensare che l’orrore diventi oggetto di curiosità, ma sarebbe tragico se questo luogo e altri come questo fossero abbandonati, lasciati all’oblio delle cose passate. Se l’orrore fosse stato rimosso e dimenticato. La comitiva di studenti si compatta all’arrivo delle guide, poi ci dividiamo in gruppi, superiamo i controlli, e usciamo nel cortile davanti all’entrata.

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la recinzione e il bosco di betulle

bosco-betulle-auschwitz

arbeit macht frei 

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Arbeit macht frei” campeggia quale sinistro e beffardo benvenuto sopra i piloni del cancello, di lato sorge un salice piangente dal tronco ricurvo, sembra piegato dal peso del dolore che ha visto passare. Sui reticolati elettrificati del recinto c’era chi voleva darsi la morte, ma i proiettili delle sentinelle erano più veloci della corsa disperata dei prigionieri, perché ogni prigioniero in fuga abbattuto significava un premio. Al punto da chiamare i prigionieri, talvolta, per poi colpirli quando si avvicinavano alle torrette. Il campo sembra una caserma, con lunghi fabbricati in mattoni rossi. I più erano adibiti a dormitori, e le camerate avevano letti a castello su cui dormivano ammassate migliaia di persone. Forse i più fortunati, perché chi finiva a Birkenau si trovava in baracche immense di legno, costruite con spiragli aperti alla base e sotto il tetto, impossibili da riscaldare per un’unica stufa, spesso priva del carbone. Operativo dal 14 giugno del 1940, Auschwitz era il centro amministrativo di 3 campi principali (con Birkenau e Monovitz) e di una “costellazione” di 45 sottocampi. Il numero di prigionieri rinchiusi costantemente in questo campo fluttuò tra i 15.000 e oltre 20.000. Qui furono uccise, nella camera a gas ricavata nell’obitorio del Crematorio N.1, o morirono a causa delle impossibili condizioni di lavoro, di esecuzioni,  percosse, torture, malattie, fame, criminali esperimenti medici, circa 70.000 persone, per lo più intellettuali polacchi e prigionieri di guerra sovietici. Nei sotterranei del Block 11, la prigione del campo, il 3 settembre 1941 venne sperimentato per la prima volta per l’uccisione di 850 prigionieri, il gas Zyklon B, normalmente usato come antiparassitario, poi impiegato su vasta scala per il genocidio ebraico. Alcuni ambienti conservano le prove evidenti che se l’inferno esiste sulla terra, sicuramente è passato di qui: la stanza dei capelli, ammassati a tonnellate, quella dei vestiti, a migliaia, quella delle pentole portate da casa per un trasferimento che non ci sarebbe mai stato. Immagino le mani che hanno cucito quegli abiti, abiti da bambini, mani che hanno preparato in fretta quei fagotti, scegliendo quegli oggetti che potevano essere utili in una nuova casa, o quelle cose a cui si voleva affidare il compito di ricordare, altrove, l’altra vita, quella interrotta, lasciata improvvisamente alle spalle per le ragioni imperscrutabili dell’odio altrui. Decine di migliaia di scarpe ammassate alla rinfusa dietro a un vetro restituiscono tutta la dimensione dell’orrore: nel mucchio immenso distinguo scarpette da bambino piccolissime, come piccolissimi sono i coprifasce conservati in una vetrina nella stanza accanto. Impossibile non pensare a quella creatura appena affacciata alla vita, entrata tra le braccia della madre nella camera della morte. Appoggio la mano sul vetro e con il palmo copro interamente un vestitino che sembra quello della bambola dal viso spaccato che è posta accanto. So che era quello di un bambino non molto più grande. Da un’altra parte sono conservati pettini e spazzole. A migliaia. C’è una spazzola a forma di S, con un manico in argento cesellato. Penso ai capelli che quella spazzola accarezzava, alla mano che la teneva. A una vita lontana, fatta di agi e di consuetudini, di impegni familiari e mondani, di progetti e di speranze, di affetti e di parole. Mi chiedo com’era quella donna senza nome, per me, e privata del nome qui dentro. Il suo destino lo conosco già, se non è stata tra le poche a sfuggire alla morte perché internata alla fine di gennaio 1945, qualche giorno per sopravvivere e portarsi dentro per sempre la visione dell’abisso. Frammenti di tante vite qualunque, da ogni parte d’Europa trascinate qui nel gorgo dell’odio e mescolate in un caos orribile, difficile da immaginare, da comprendere fino in fondo. Arrivo nel corridoio degli sguardi. Lo chiamo così perché entrambe le pareti sono tappezzate di foto. Sono quelle dei registrati, considerati abili alla fatica, i fortunati che all’ingresso nel campo potevano avere una speranza di vita di due o tre mesi come schiavi al servizio delle imprese private tedesche che alimenteranno la guerra della Germania. Ma i più se ne andavano dopo qualche giorno, come ricordano impietosamente le date trascritte sotto ogni foto, quella della registrazione all’arrivo nel campo e quella della morte. Tutti gli altri, i non registrati, quelli di cui si è perso il nome, finivano direttamente nella camera a gas. Vecchi, donne, bambini. Qualche volta anche persone giovani, in base al capriccio del medico del campo, che con il gesto del pollice tracciava nell’aria una sentenza di condanna o una sospensione. Mi risuonano nell’anima le parole di Primo Levi. E mi sembra di leggere in quegli occhi che mi fissano, quasi a chiamarmi a testimone degli ultimi pensieri: paura, sgomento, disperazione. Il rito del numero si era allora già compiuto. Quegli uomini e quelle donne sanno sicuramente che è solo questione di tempo, che l’unica cosa che conta è cercare di sopravvivere un giorno dopo l’altro. O morire velocemente, e senza troppo dolore, se ti mancano le forze per vivere. Alcuni di loro avranno solo una manciata di ore, come apprendo confrontando le date. Chissà cosa quegli occhi contengono, di quali orrori sono spettatori, di quali sentimenti sono specchio. Arrivata al Block 11, scendo lungo una scala. Il corrimano in ferro è gelido e consunto sotto le dita, come i gradini su cui appoggio i piedi. Molti passi li hanno consumati al centro, in una via crucis senza fine. Al piano interrato si trovano le celle per la tortura. Una delle stanze è divisa in tre ambienti più piccoli dove era impossibile distendersi oppure sedersi sul pavimento, per mancanza di spazio. E così i detenuti passavano la notte in piedi, ammassati anche in tre o quattro, al freddo, al buio, fino a quando l’alba li richiamava a un’altra giornata di lavoro da schiavi, e il rito si ripeteva anche per più notti successive. Un’altra cella, molto piccola, era pensata per la morte per soffocamento, priva di aperture e con un pertugio dove per entrare bisognava stare carponi. Una candela spenta ricorda qui il martirio di Massimiliano Kolbe. Cammino e sfioro con la mano il muro scrostato, lo stesso di allora, e penso alle mani di quelli che l’hanno toccato facendo quel percorso, trascinando i passi là dove adesso cammino io. Penso alla loro disperazione, alla fatica disumana di rimanere vivi tirando con i denti la vita, qualunque cosa questo significasse. E’ qualcosa di inconcepibile, impossibile comprendere pienamente l’orrore anche quando ce l’hai davanti.  Entro nella camera a gas. Il grado zero della speranza, il climax dell’orrore: uno stanzone lungo, con delle aperture sul soffitto da cui i Nazisti rovesciavano i cristalli mortali dello Zyclon B. Le pareti portano i segni graffiati con le unghie lasciati da tante mani negli interminabili minuti di una morte tanto atroce quanto consapevole, il linguaggio universale di una disperazione muta, di un orrore totale, di un dolore che non ha definizione. E da lì i forni, bocche di inferno. Passiamo muti. I ragazzi silenziosi distolgono lo sguardo. Nessuno ha voglia di parlare. A Birkenau ci attendono altri orrori, altre baracche, in legno quasi tutte e quasi tutte distrutte al momento dell’abbandono del campo e anche dopo, per il timore del propagarsi di infezioni e di malattie: come tizzoni dell’inferno che c’è stato restano in piedi i camini affumicati dagli incendi, e formano una distesa sterminata, a perdita d’occhio. Ogni camino significa una baracca di legno che conteneva duecento persone ammassate. Persone che sopportavano il gelo invernale a venti gradi sotto zero e il torrido dell’estate, quando la temperatura sfiorava i quaranta. Birkenau era il più esteso Konzentrationslager dell’intero universo concentrazionario nazista e arrivò a contare fino a oltre 100.000 prigionieri contemporaneamente presenti. Dista tre chilometri da Auschwitz, e fu attivo dall’ 8 ottobre 1941. Era dotato di quattro grandi Crematori e di Roghi, fosse ardenti ininterrottamente giorno e notte, usate per l’eccedenza delle vittime che non si riusciva a smaltire nonostante le pur notevoli capacità distruttive delle installazioni di sterminio, fatti saltare dai nazisti prima di una fuga precipitosa, ma non al punto di distruggerli completamente. Entro in una baracca di legno e conto duecento latrine suddivise in tre lunghi banconi di pietra. Chi lavorava qui dentro per i giorni in cui sopravviveva poteva dirsi fortunato: svuotare le latrine significava stare al coperto di inverno e la fermentazione degli escrementi dava un po’ di tepore nel gelo invernale. Ma l’estate doveva essere terribile. All’esterno alcune vetrine raccolgono ammassate alla rinfusa migliaia di posate e gamelle: mi viene in mente il ricordo di un sopravvissuto, entrato nel campo con il padre. Qualche giorno dopo, il padre morì durante il pranzo e il figlio si avventò sulla ciotola che egli teneva ancora fra le mani, prima che rotolasse per terra o qualcun altro la prendesse, mangiando quello che restava sul fondo con avidità. La vita. La vita. Qualunque e con qualunque mezzo. Come per quegli uomini che tentarono di ribellarsi, riuscendo a distruggere qui un forno crematorio. Come quei sopravvissuti che furono soccorsi dai Russi il 27 gennaio 1945 e che le foto mostrano con impietosa brutalità nel loro corpo distrutto dalle privazioni, negli occhi vuoti che hanno conosciuto l’orrore della bestia umana. Mi chiedo cosa sia stato di loro. Di alcuni si sa. A Auschwitz una sala ricorda tutti i nomi delle vittime in un libro immenso che occupa buona parte dello spazio centrale, e su una parete le foto, le più recenti a colori, riportano la storia a decenni più vicini con le immagini dei sopravvissuti, ormai uomini e donne anziani, circondati dalle loro famiglie, dai figli e dai nipoti che i più non hanno avuto, in case confortevoli e in paesi diversi, lontani da qui. La vita. La vita che alla fine vince sull’orrore e sulla morte. La storia degli individui che continua. Con il suo carico di dolore. Un altrove possibile per pochi. I salvati.

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auschwitz- oltre il bosco di betulle i fantasmi sono presenze

bosco di betulle

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I Russi liberarono Auschwitz il 27 gennaio del 1945. I Nazisti avevano nel frattempo costretto la maggior parte dei prigionieri a marciare verso ovest (le “marce della morte”), e solo alcune migliaia di prigionieri furono ritrovati nel campo, quelli intrasportabili che non c’era tempo di eliminare, insieme a molte prove degli assassinii di massa compiuti. La maggior parte dei magazzini del campo erano stati incendiati, ma in quelli conservati intatti restavano gli oggetti personali delle vittime: centinaia di migliaia di abiti maschili, più di 800.000 vestiti da donna e più di 6.000 chili di capelli. Ai piedi dei boschi di betulle le fosse iniziarono a restituire presto lo scempio di migliaia di cadaveri bruciati e seppelliti in tutta fretta. I forni e le camere a gas erano state fatte saltare a Birkenau, ma non a Auschwitz. Nel 1947 il parlamento polacco fece dei campi un esteso museo memoriale e nel 1979 l’area fu dichiarata Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.

Quando il sole scende dietro il campo di Birkenau, restano solo le Voci.

Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.

Elie Wiesel

Solo quando nel mondo a tutti gli uomini sarà riconosciuta la dignità umana, solo allora potrete dimenticarci”

A noi il compito di non dimenticare.

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Raffaella Terribile

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Viaggio della Memoria 2016, con il patrocinio del Comune di Padova, Progetto Giovani, e la collaborazione della Comunità ebraica di Padova e la Fondazione Giorgio Perlasca. 

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abel francés quesada – auschwitz

Auschwitz-

6 Comments

  1. Stupendo. Ci sono stata anche io, un paio di anni fa, con lo stesso progetto. Di certo è un’esperienza che colpisce profondamente e senza tregua

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