michele parliament
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I fatti deprecabili di cui parla Caterina in questa pubblicazione antologica delle sue poesie appartengono alla sua adolescenza, alla sua giovinezza, ad alcune scelte compiute in seguito. I testi coprono un arco temporale di oltre vent’anni, dal 1971 al 1996 e sono disposti quasi cronologicamente, sebbene la Davinio tenti una sistemazione esistenziale e contenutistica e suddivida l’abbondante materiale in cinque sezioni ciascuna votata alla comunicazione quasi diaristica di squarci autobiografici, di mete raggiunte ma sempre insufficienti a placare la sua irrequietudine.
La Davinio prosatrice ci aveva mostrato angoli oscuri e visionari dell’esistenza dei personaggi, del loro perdersi lungo percorsi non definiti, le angosce tradotte in eventi, gli eventi forieri di angosce, le derive verso un nulla mistificato.
Qui troviamo la nostra scrittrice alle prese con un materiale che è duttile sotto le sue dita: la poesia è onnipresente, le appartiene come un arto e spesso la sorregge quando il cammino è buio e periglioso.
Non è una poesia consolatoria, neppure emotivamente giustificata: i fatti deprecabili, sotto la sua penna, si purificano ma non diventano algidi, non potrebbero, però setacciano lerciume e malattie dell’anima e diventano quasi narrative con inaspettate visioni e confessioni.
Le poesie raccolte fin dagli anni Settanta (’71 / ’76 gli anni di riferimento) in un “Libro dei sogni”, titolo appropriato all’adolescenza di Caterina e di tanti adolescenti inquieti, a volte rabbiosi, con il loro libro dei sogni che perde pagine giorno dopo giorno. Anche i sogni, che possiedono un’innocenza nella loro furia ancora sottomessa, finiranno per disfarsi come il corpo che incontra la droga, la sua signora, e sottrae casa e affetti, pensieri e fame e sangue. Racconta il precipizio la seconda sezione (’77 / ’86) “Il libro del disordine”.
Erano anni di rivolta e di rivoluzione e succedeva che dai cortei si finisse in antri dove si mostravano le prostitute, che almeno non giudicavano e non avevano pietà. La poesia, però, non è risucchiata dall’eroina; rimane sottotraccia, ma non esita a mostrarsi per ritrarre l’esile figura della poetessa, per raccontare con voce dimessa le abiezioni e la forza che ha sempre la vita. Ho detto che per Caterina la poesia è un arto aggiuntivo che le consente di rialzarsi, di riprendere il viaggio.
Il disordine, cifra della raccolta, è nei comportamenti e nel suo peregrinare, nell’andare senza una meta che non sia legata all’impulso.
Soprattutto nella prima parte della antologia la Davinio è di fronte al mare; non è un mare metafisico e/o metaforico; credo che il mare con le sue onde indomite, sia in bonaccia che in burrasca, rifletta quella parte di sé che ama il movimento, la vita, il viaggio, la consapevolezza dei tesori che possiede, come il mare, nascosti sul fondo.
“Molto meglio / i mari pescosi / della Norvegia / e i boschi tenebrosi / della Scozia! / Pascoli meravigliosi, / meglio allevare topi / in una grotta / o scavare gallerie nel suolo. / Meglio i palazzi sontuosi / delle formiche e delle api. / In fondo meglio di tutto sarebbe / non prendersi sul serio / guardare la sarabanda / e ridere / sarebbe meglio / meglio / che affollare le chiese / gli ambulatori psichiatrici / le biblioteche/ o gli uffici di collocamento.
Sono versi estrapolati da una poesia di questa sezione e mi pare rendano ragione di una versificazione non edulcorata ma neppure compiaciuta, vera e onesta anche se in quegli anni e negli ambienti che frequentava allora la Davinio non si parlava della verità della poesia e neppure del simbolismo, del postmontaliano scetticismo.
La terza sezione, che presenta poesie dal 1987 al 1989 e che porta il titolo di Libro mistico, segnala una nuova svolta di riflessione e di emozioni; la natura entra nei versi come contraltare e /o alter ego in un bel gioco di rimandi.
È un periodo di transizione dal disordine alla necessità di trovare un ordine; ancora una volta la poesia guida e sostiene e in una poesia indirizzata alla divinità osa scrivere:…“togliendo ogni sapore di parole / fa’ di me un poeta muto.” È una conclusione ossimorica ma già Caterina compie i suoi primi esperimenti di installazioni e di poesia multimediale che mescola i generi comunicativi. È la risposta alla domanda della poesia 87 di pagina 247: “Ci si può scrollare un peso / ma come sfuggire alla leggerezza?”
Questa sezione contiene un corposo mannello di poesie che cercano un discorso con Dio, dapprima scritto con la minuscola, quindi innalzato alla maiuscola. È un tentativo di non grande successo, insondabile è il divino, ma la poesia ricerca nuova voce, incontra echi diversi.
L’ulteriore silloge, Libro del caos e del risveglio, che vede la produzione fino al 1993, cambia registro e timbro, è più involuta e intellettuale; uscita dalle problematiche legate all’assunzione di alcool e droghe, la Davinio va cercando la significazione nelle piccole cose che appaiono appena scoperte e sono in realtà riscoperte, ma neppure questo nuovo sguardo con le sue incognite visioni donano la tregua: “Questo vuoto che, mi pare di capire, irrobustisce le spalle / e pungola talmente forte che si è disposti / a qualunque artificio, / a qualsiasi bassezza./ Anche quella della prosa.”
L’antologia si chiude con i testi utilizzati per le installazioni e l’esercizio della multimedialità e giungono fino al 1996 a partire dal 1994.
Sono testi molto interessanti che mirano a suscitare emozioni e riflessioni. Naturalmente decrittano le sue esperienze e le esperienze dei tempi e degli amici, utilizzando i miti e la scrittura teatrale post-moderna. Forse qualcuno si accosta a questo corposo libro con qualche pregiudizio e scopre che la poesia è l’Atlante che consente al mondo di esistere e di persistere.
Narda Fattori
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michele parliament
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Da Fatti deprecabili. Poesie e performance 1971 – 1996 (Premio Tredici 2014) di Caterina Davinio
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Il mio amico D.
Dopo una dose
rimanemmo al baretto
del più e del meno,
tu aspirante avvocato,
io aspirante niente,
è che avresti voluto amarmi
per una notte
e io tergiversai
perché la mia notte è capricciosa
e tu famigerato tossico di quartiere
non eri nelle mie corde,
il buio tutto intorno
apriva le sue ali su di noi
dinanzi a un bicchiere.
Tu ti disamorasti a stento,
io, io ti avrei voluto per puntiglio
per metterti in un elenco
di tipi strani e significativi,
ma l’intimità mi era avversa,
avversa al mio cuore sterile
innamorato di altre vie.
Così andammo
ognuno al suo destino,
tu ubriaco,
io drogata,
nella notte dei bassifondi
dove ci eravamo cacciati,
scesi dalle nostre case di notai
e professori incapaci
dei propri figli traditi,
per una notte bianca di bianco, stupida,
dove rivendicavi una ballerina da night,
quasi una prostituta,
per un abbraccio caldo,
per un abbraccio da niente
che a te sembrava vita sufficiente,
che ti somministrava quel piacere sovrumano
che un uomo addenta come selvaggio,
ella ti diede sesso senza questioni,
senza promesse,
mentre io che cercavo l’eterno mi persi
nelle disquisizioni
che a un uomo non danno pane
né ventura.
Così finì quella notte
e noi tornammo
in case nemiche,
spenti dalla droga,
entrambi
disamorati dell’amore.
*
Al Piper con Chiara, la mia amica
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Al Piper rocambolava la notte
di corpi mossi nell’euforia della danza
lei, la mia amica, era depressa
ella vedeva lungo sul proprio disamore
di spacciatrice tenera,
di lesbica chiusa alle speranze,
desiderosa di veleno.
Nel carambolare del night
tra il rumore assordante
volle un gesto seduttivo per il non amore:
mi regalò un pezzo di fumo
tra due dita
come un fiore,
e poi mise la sua lingua nella mia bocca
mostrandomi quanto può essere dolce
la sponda amara,
e io risposi con la mia lingua
che sapeva il rapimento della notte,
di quei suoni che andavano
a rotta di collo per condurti
agli inferi più dolci.
Fu il momento più bello con la mia amica,
un’icona dell’essere perduti,
andati,
e senza rimorsi né
aspettative per questo futuro avaro di note.
Lei era bella come un uomo
con bicipiti e tatuaggi sfrontati,
lei sapeva farti nascere
la voglia di camminare lungo l’asse d’equilibrio
sul baratro di un mondo perso e scostante, nemico,
lei viveva spericolatamente l’ora, e ti trascinava
nel suo abisso così tenero,
tanto che m’innamorai e presi dell’ora il momento,
le dissi che essere amanti era il progetto
di me incapace di fedeltà
con i ragazzi,
ammalata di siringa e di linee,
d’esperienza, di veleni,
vogliosa di voluttà antica, senza nome.
Ciao, amica mia,
serbo il tuo ricordo
in una fotografia del cuore
che nulla dimentica se non momentaneamente:
finì la notte al Piper
e fummo di nuovo amiche
che nella strada andavano
fianco a fianco
cadendo ad ogni passo verso il perdono,
crollando dove colpisce l’eterno
i nostri passi precari sulla terra.
1985
*
La casa di Chiara
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Accovacciata sulla moquette di casa tua, amica mia,
ogni pomeriggio nel caldo delle due
sorseggio una birra
e aspetto i miei segnali proibiti:
droga, fiacche iperboli accatastate
nel piccolo universo che mi spazia (strazia) intorno
come un fratello,
in una nube d’amicizia arriva la catastrofe.
In fondo bucarsi una vena è atto concreto
ed efferato,
colano rivoli, sprizzano nell’ago,
ti dicono di desistere,
ma caddi in un barile di carezze e amore
calore e ottimismo,
la droga mi abbracciò,
spesi il tempo sulla tua moquette
davanti alla televisione
e una birra maledetta di circostanze;
tu, amica, non temevi e io ti imitai
sulla strada
di pericoloso gaudente,
di gaudente suicida,
di perigliosa rincorsa
a fortune
alterne
scacchiere temerarie.
E me ne vado delusa e contenta nel pomeriggio,
con il mio sale e pepe nelle vene, con l’ebbrezza nella testa
grata a dio e ai demoni
che imperversano su questa città,
in fondo felice dei miei tremendi errori,
disegnavo traiettorie sbagliate, e tutto era errore
predestinato,
me ne ridevo e amavo andare
di traverso, sbilenca
alla rovescia
sbagliata,
a scovare sacrilegi nelle giornate spente
per ravvivarle, non accenderle,
ché sarebbe impossibile dare fuoco
alla morte
annidata nelle pieghe
di giorni atroci e inermi
placidi di stupore,
di luce, di noia come una falce,
mortali di quiete;
sperperai tutto e alla fine
fu niente:
le nostalgie dell’errore,
la fame mortale dell’errore,
la resa all’errore,
che mai risorse dalla culla del baratro,
e amò morire in una stazione
di viaggiatori scagliati verso ultime mete.
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michele parliament
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Festa notturna in un casale di campagna
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Quella notte la terra tremò,
quaranta scosse e più,
mentre andava la musica tra le vecchie mura
e i folli danzarono,
torsero le loro bocche
nel riso selvaggio,
vuotarono i bicchieri di vino rosso.
Il mio amico scappò fuori, nel bosco,
aprì le portiere dell’auto, accese lo stereo
e spaccò la notte con i suoni
del suo rock più cattivo,
poi si mise a rollare marijuana
e io, già ubriaca,
vidi il mondo andarsene sghembo, di traverso,
travolta da una vertigine e da un conato,
partii per la tangente verso l’infinito,
su per soffitti ebbri
che vorticavano
emulando l’alto dei cieli.
Poi la notte andò oltre
e finimmo addormentati negli angoli
di quelle grandi stanze di pietra,
il gelo ci morse
quando restarono solo i sassi del focolare
a insinuarsi nel buio
con bagliori rossi di legna arsa
morenti nella lunghissima notte artica.
Mi accovacciai su quelle lapidi ancora tiepide,
sofferente,
e mi strinsi nella pelliccia ispida
come un vecchio esploratore
in un cantuccio di boschi d’Alaska,
selvatica, come una vecchia orsa.
Nel mantello di ruvidi peli
come un gatto opportunista.
Mentre la terra tremò,
quaranta scosse e più,
la nostra notte sghemba
piano svanì nell’alba spettrale.
Eravamo rimasti in pochi
e un ricordo il fragore notturno
di rocambolesco rock’n’roll,
e andammo intorno
smilzi nelle nostre smorfie gay,
colorati nel grigio
come grida d’angoscia.
*
Il suicida
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Sul carro del buio
sedevo a stento
quando la notte
si precipitò su di me come un demone
chiedendomi conto
del mio senso.
Dietro ogni finestra
viveva una famiglia
una luce accesa
e io in strada
prendevo bastonate
dalla mia solitudine
tanto che annichilito
lanciai un grido in me
di stupore
come bestia ferita a tradimento,
e spenta come colui che muore,
che deve morire,
vidi le luci correre
sul Lungotevere
e il buio tutto intorno a me.
Le pietre bianche erano spettrali,
volevano la mia fine
e il destino mi spremeva lacrime
come un mantice, una spugna d’aria,
con mani possenti
prive di pietà.
Me ne andai fuggendo
come l’ultimo respiro
ucciso dal momento,
il nulla graffiava forte
nel baratro dov’ero caduto
più povero che mai
e cieco,
senza forze,
ché anche la notte corre
e ha le sue destinazioni
inconosciute,
mentre la mia finiva lì,
e saltai dal ponte.
*
La mia famiglia
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Eravamo troppo poveri
troppo da essere arrabbiati l’un l’altro
i nostri figli dei nemici feroci
tu opportunista tenace
io in fuga,
la nostra famiglia era un cappio
mortale,
non so come potemmo crescere, sopravvivere,
in quei meandri di rabbia
che fiorivano sull’amore
come una pianta velenosa,
ma tra il disordine,
il dispetto, l’incuria
continuarono a nascere fiori abnormi,
gli insetti brulicarono di vita,
io sola ne ebbi raccapriccio
mentre tu spaccavi tutte le cose
e i nostri bambini ribaltavano la casa
invasi come demoni.
Vedi in una lente sbagliata, dissero.
E io penai a ricostruire il mio mondo
da quelle macerie.
A tenermi in piedi come un soldato
nella sporcizia
incurante del lavoro,
dell’amore.
Vedi, la parola amore ci disorienta
perché sembra tenera
invece è fatta di solitudine e di fiele,
di ossa spezzate e di sarcasmo,
eppure nella nostra gabbia di stenti
e arroganza
l’amore c’era ad aggrapparci gli uni agli altri
come erba gramigna,
come rampicanti selvaggi
che insidiano le mura antiche della casa.
Fratello mio, il nostro cuore
era cattivo,
i nostri sogni libertari e fuggevoli,
non è facile scoprire come essere felici
alla gogna, con la gola stretta
tra assi spietate,
ma abbi fede nel tempo.
1989
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michele parliament
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Quando fu buio andammo ai campi,
su, per il sentiero sdrucciolando
protetti dal morso della serpe da robusti stivali
Agguerriti e sfiniti dalla disubbidienza
schegge e colori ci schernirono
nell’apparente scemare del giorno
sul monte saccheggiato
sullo scosceso dirupo, con radici attorcigliate
dove andammo su per mirare gli elfi
e il vento sbaragliò le nostre armate
la notte s’appiattì sull’orizzonte
il nero della notte s’inabissò nelle anime
e grande spazio vi schiuse
con dissolvenza e inadempiuti travestimenti
innalzandosi sopra il dirupo
sopra il dirupo impervio dove il fiore s’affaccia
nel suo solo giorno di vita a gettare
il polline, come un piccolo occhio
subito rintuzzato dall’infinito.
L’Absinthe
Artificieri nel teatro dell’assenzio
filosofia di amori impazienti
magniloquenza di curiali nell’eremo
nel feretro tutti delle città.
Alla maniera mediterranea, la grande sera
sui frangiflutti sferza schiuma
strati alti rasenta d’atmosfera.
Si scommette e facezie ai crocevia:
secondini, pittori e caparbi
gendarmi,
tutti nella fiaschetteria dell’assenzio.
Gradazione oscura e fluorescenza, sulla vetrina
rivoli, dietro ai tavoli dove brulica il grigio
per le strade si aggirano nocchieri,
zanzariere intravedendo d’infinito
nel velluto dei vinai.
Bische e bracieri
confortati dal balbettio di parole
consumano l’adulterio di biancospini.
E Dio che ha fabbricato la ruggine
divincolandosi dalla storia
con sperpero di venti la disperde
tra i sorrisi schivi dell’universo indeciso.
1990
*
L’angoscia
L’angoscia ha le sue forme,
le sue mostruose ali
di demone
che strappano il velo della mia alcova
per mostrare
la violenza dell’infinito.
*
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Ho visto
ora
più nudo che mai
un dio
lo guardo negli occhi
lo vedo:
che cosa sei?
Una statua d’oro
nella cella del tempio
con palpebre chiuse rivelanti.
Un uomo biondo
dalle bianche carni
e dalla muta forza.
Come Apollo nel sole
come Alessandro a cavallo per i deserti.
Un mostro fluorescente
nell’angolo davanti alla tenda
sorride amichevole
e dice: io sono dio
sono un demone santo
le tentazioni nel deserto
guarda la mia schiuma lucente.
*
Psicofarmaci
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Mi guariscono
strappando le mie membra al buio
fino a lacerarle,
vogliono
uccidere i miei demoni,
quei fratelli assassini
delle mie giornate.
Vado sull’orlo del ciglione
che si spalanca alla caduta,
la mente dispersa e spaventata,
la mia generazione corrotta,
contaminata,
degenerata,
e sono stanca di giochi,
di sbronze,
di ragazzi perduti
come angeli,
di notti allegre.
Così il male si precipita infine su di me
e mi trascina a fondo,
nelle nostre case segrete,
dove lui dormiente
è oggi risvegliato
come un guerriero distruttore:
domina,
e io sono umiliata.
Cosa mai la mente?
Io sopravvissi ai tempi dell’eroina:
l’oppio mi curava l’anima rotta di etilista
e l’alcol i disordini dell’oppio,
mezzanotte per impadronirmi come un teppista
della città,
e adesso preda di un male cruento e astemio:
formule chimiche
scandiscono il tempo,
sono la cura,
mi salvano dalla vita.
1989
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michele parliament
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Caterina Davinio (Foggia 1957) Dopo la laurea in Lettere, si è occupata di scrittura e nuovi media, operando nel circuito dell’avanguardia internazionale. Ha svolto attività espositiva, convegnistica e curatoriale in molti Paesi del mondo, con centinaia di mostre in Europa, Asia, Americhe, Australia, tra cui le Biennali di Sydney, di Lione, di Atene, di Merida, Manifesta e sette edizioni della Biennale di Venezia ed eventi collaterali, dove ha collaborato anche come curatrice. Una tra i pionieri della poesia digitale, è la fondatrice della net-poetry italiana. Sue opere poetiche e saggistiche sono tradotte in inglese.
Fra le pubblicazioni, tre romanzi: Sensibìlia, Il sofà sui binari, Còlor Còlor; i saggi: Tecno-Poesia e realtà virtuali e Virtual Mercury House; in poesia i volumi pluripremiati: Fenomenologie seriali, Aspettando la fine del mondo, Il libro dell’oppio, finalista nel XXV Premio Camaiore e fra i selezionati dal premio Gradiva, New York. Fatti deprecabili ha vinto il Premio Tredici 2014.
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Caterina Davinio, Fatti deprecabili, ARTeMUSE.
L’ha ribloggato su cristian sabau.