roberto kusterle- l’abbraccio del bosco l’abbandono dei silenzi
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Mi piace qui dare inizio ad una specie di ulteriore eretica rubrica – e dico ‘specie di’ e dico ‘eretica’ perché sarà ‘rubrica’ solo nella mia testa, sapendo di non seguire canoni direttivi di cronaca-critica di qualsiasi genere, sapendo anche di non potere dare una periodicità precisa ad incontri con eventi di cultura, non solo per la casualità della loro occorrenza, ma anche per la mia precaria disponibilità di tempo e di interesse. Come già si sarà notato, io non sono proprio ‘militante’ nei vari ruoli in cui sporadicamente mi travesto, qui come altrove; mi piace apparire e dire e invitare gli sguardi solo quando il sangue (mio) è caldo di entusiasmo, quando penso che posso veicolare ad altri qualcosa che – certo, a me – pare importante o gioioso o bello o anche solo fortemente diretto a quello che, con un gruppo di belle amiche, chiamo ‘fare pace’.
A Modena, presso il piccolo teatro (niente a che vedere con quell’altro grande Piccolo di Milano!) dei Segni, dal 12 al 27 novembre 2015 si è svolta una rassegna di 6 spettacoli teatrali, promossa da un’Associazione il cui nome è il suo programma: “Teatro per amore”. L’Associazione, infatti, riunisce ormai da dieci anni vari gruppi di teatro (‘Gli aggregati’, ‘Lalande’, ‘Luci del deserto’, ‘Insieme a noi’, ‘Arcoscenico’) cosiddetti ‘amatoriali’– definizione che in questo caso non vuol dire tanto il carattere non professionale e non commerciale dei gruppi, quanto proprio la loro passione amorosa per il teatro. I quali gruppi in modo del tutto autonomo ed originale si volgono a varie forme di espressione – dalla danza alla prosa alla poesia – in allestimenti classici e di ricerca, con la volontà di operare non solo per portare svago, ma anche per offrire cuore e pensieri, come dice la presentazione nel pieghevole della rassegna: “Per fare teatro ci si mette la maschera. Che non è nascondimento, né finzione alternativa al mondo. Come per gli antichi nel cuore dell’imbuto pubblico che era il loro teatro, anche per noi è amplificazione della voce. E dello sguardo, che precede la voce, sul mondo. Lì dove è diretta la nostra ricerca. Lì dove noi cerchiamo di essere parte viva.”
Tutti i lavori presentati sono stati interessanti, allestiti con cura, offerti quasi gratuitamente (ad ‘offerta libera’, che, se ci pensate, è una bellissima espressione, perché fa perno sulla reciprocità del dono dell’offrire tra pubblico e teatranti, e perché si adagia su quella potentissima ed essenziale qualità del vivere che è la libertà), ma io qui vi parlerò solo di due tra questi, e non perché migliori (la categoria del ‘diverso’, la meravigliosa civile sororale categoria del ‘diverso’ mi permette di uscire dalla diffusa e generalizzata pratica della competizione, della graduatoria, del ‘premio’, del ‘primo-ultimo’, etc etc), ma solo perché mi permettono di invitare a dei pensieri che mi sono importanti nella testa e nel cuore.
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I ragazzi[i] (tutti entro i 30 anni) de ‘Il limone’, gruppo di Arcoscenico, hanno messo in scena La pecora rosa, un lavoro di ricerca scaturito da una necessità tanto loro personale quanto sociale: riflettere sul circondario che ‘tira su’ i bambini del nostro mondo, e che quindi tenderebbe a ‘farli’ a propria immagine e somiglianza, se non fosse che, per fortuna o per caso o per miracolo, qualche volta non va secondo le previsioni, come dice la poesia di Loris Malaguzzi[ii] con cui ‘Il limone’ chiude lo spettacolo:
Il bambino è fatto di cento. Il bambino ha cento lingue
cento mani cento pensieri cento modi di pensare
di giocare e di parlare cento sempre cento modi
di ascoltare di stupire di amare
cento allegrie per cantare e capire cento mondi da scoprire
cento mondi da inventare cento mondi da sognare.
Il bambino ha cento lingue (e poi cento cento cento)
ma gliene rubano novantanove.
La scuola e la cultura gli separano la testa dal corpo.
Gli dicono: di pensare senza mani di fare senza testa
di ascoltare e di non parlare di capire senza allegrie
di amare e di stupirsi solo a Pasqua e a Natale.
Gli dicono: di scoprire il mondo che già c’è
e di cento gliene rubano novantanove.
Gli dicono: che il gioco e il lavoro la realtà e la fantasia
la scienza e l’immaginazione il cielo e la terra
la ragione e il sogno sono cose che non stanno insieme.
Gli dicono insomma che il cento non c’è.
Il bambino dice:
invece il cento c’è!
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roberto kusterle- la culla del mare
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E’ evidente che per questi ragazzi, per lo più laureati o diplomati in chimica, elettronica, fisica et similia, questo lavoro teatrale è stata l’occasione per addentrarsi in un ambito culturale molto diverso dal loro consueto, tenendo come guida la pedagogia davvero innovativa di Malaguzzi, ma anche ripensando se stessi bambini o progettando se stessi prossimi genitori. Il loro bambino-tipo in scena – una scena-mondo tutta di cartoni da imballaggio, come mattoni-lego, che continuamente disfacevano e poi ricostruivano luoghi fisici e mentali, metafora di mercificazione, di estrema incolore fragilità e di impermanenza – era una lievissima quasi volatile ragazza, vera marionetta di carne, sempre muta, mai interrogata, spostata da una parte all’altra secondo le esigenze dei ‘grandi’, destinata a gesti, scelte, fedi decisi prima e a prescindere da lei. Molto bella la figurazione dell’insegnamento religioso, neutralmente riferito ad un dio-Giovanna, che metteva soprattutto in risalto, come anche in certe bellissime pagine di Nietzche, la confittura nel profondo del bambino di un senso di colpa inamovibile perché originario e fatale, che comporta per derivazione logica una totale sfiducia nelle possibilità umane. Se il tono era necessariamente satirico, non è mancato mai un tocco più amaro, come quando i singoli quadri non si chiudevano canonicamente su una battuta forte da sghignazzo, ma spesso, quasi in sordina, su parole magari comunissime, ma grevi di significanze preoccupanti, quasi punti di sospensione, in sordina un invito al pubblico ad andare oltre, pensare. Molti topoi del nostro oggi sono passati sul palco: dalla immancabile scuola, all’interno domestico, alla televisione, alla politica. Senza mai essere cattivissimi, mai troppo caricaturali, hanno però definito un orizzonte del nostro tempo davvero grigio, per non dire funereo. Ma alla fine la marionetta, inaspettatamente, coi mattoni-cartoni costruisce il numero 100, davanti a cui viene offerta la poesia su citata. Quindi nessuna ricetta: solo un atto di fede ed una indicazione di direzione, sulle tracce di Malaguzzi, di cui si dice qualcosa alla seconda nota, perché vale la pena conoscerlo, se già non si sa di lui. E’ un lavoro di teatro, La pecora rosa, che mi è piaciuto per la semplicità e l’immediatezza del messaggio. Per l’importanza del messaggio. Anche perché, a forza di doverci occupare di stragi dell’Is e di poveri disgraziati in corsa via dalla disperazione, è da un po’ che non guardiamo i bambini. Se non negli spot pubblicitari, tanto falsi anche quando sono veri, come quando ci mostrano crudi crudi quei poverini col labbro disfatto, e ci dicono: ‘dacci soldi dacci soldi per aiutarli’, e il tuo cuore si disfa, perché i soldi glieli daresti anche, ma il giorno prima ti hanno detto al telegiornale che quei tali là spendevano quei soldi lì per ristrutturare le loro case e via così. No, non leggetemi sbagliata, non dico affatto che si deve smettere di dare, fare, testimoniare, per la delusione di questi non pochi bastardi che stanno provando ad ammazzare il cuore ancora pulsante del nostro essere creature e creature civili. Ma mi capita di sentire tanta più costruzione di pace nel lavoro de Il limone che nell’apparente efficienza di quelle amministrazioni locali che abbandonano tante conquiste ‘alla Malaguzzi’ per mediocri palliativi in nome di alte sante preponderanti ragioni di ‘azienda’ magari ‘giudiziosa’, di ‘risparmio’, di ‘conti che devono quadrare’.
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roberto kusterle -il sostegno nell’unione
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E da qui, senza dover saltare troppo lontano, passo all’altro lavoro, ‘Abse’, messo in scena dal mio gruppo Foeminae[iii] di Arcoscenico, liberamente adattato dal poema di Anna Maria Farabbi. La mia eresia mi permette di parlare di un lavoro mio/nostro senza vergogna. Mi interessa soprattutto dire che la premessa della scelta è stata il desiderio di far conoscere l’importante lavoro di Anna Maria, perché ancora poco conosciuto secondo me. E l’importanza non è certo solo per la bellezza dei versi: infatti nell’originalità dell’impianto si innesta un percorso individuale e corale di grande impegno civile e umano, attraverso alcuni tra i nodi che reggono la nostra società e il nostro tempo. Nell’‘abse’, che in dialetto perugino indica un vuoto, un nulla che si può colmare, si snoda un paese, un itinerario di testimonianza e partecipazione (illuminano le parole introduttive: “Io credo nella poesia. Io credo che la poesia non ha vinti né vincitori. Io credo nel credere. Per credere faccio l’orto e il pane. Imparo i significati del fare, del rispettare e amare le creature.”) che non si disgiunge mai dal rispetto (“Io sono una femmina che, chiedendo permesso saluto e accoglienza, entra in un paese…con desiderio e rispetto”), dalla responsabilità per il proprio ‘dire’ e ‘fare’ e per le proprie ‘scelte’, dalla disponibilità ad ascoltare l’altro e a correggersi nel confronto se necessario. Si attraversano i nodi-spazi della scuola, dell’osteria, della biblioteca, della piazza, del cimitero, dell’ospizio, dell’asilo, e della fede, che non ha qui chiese di mattoni, ma solo mani che hanno imparato a:
non congiungere le mani per pregare
se non sai cosa sono
se non hanno mai fatto l’amore
se non le hai mai scese in terra
sprofondate sepolte
e aspettate con pazienza
risorgere
se non hanno mai coperto per vergogna
la tua fronte
e a pregare così: “sia imparato e non santificato alcun nome/ attraversato e oltrepassato./Venga il regno senza aggettivo possessivo”. Nel cammino l’attenzione va ai più grandi mali: dalla pena di morte alla guerra all’alzheimer ai campi di concentramento al terremoto alla morte dei cari; ma non manca l’indicazione del bello a cui volgersi: primo tra tutti, con una grande capacità di lasciarsene sciogliere, la infinita continua spontanea creazione dei bambini che non è altra cosa dalla poesia. Per rendere tutto questo le donne del gruppo hanno scelto di essere Voci comuni quotidiane, non impostate, con accenti locali, Voci che leggono (leggono oggetti comuni, cose della terra del mare, uccelli e fiori e farfalle di carta, come si legge il mondo vivendo) e non recitano, Voci con corpi un po’ goffi, un po’ stanchi, normali. Trovando, ognuna, nelle parole scelte, oltre all’impegno di credere e fare pace, anche qualcosa di profondamente proprio, trascorso nella propria esperienza di figlia o scolara o madre. L’itinerario si chiude nell’“uovo sonoro” di campane tibetane. Non per significare una pratica ascetica, ma per lasciare nel pubblico la traccia meravigliosamente materica di quel suono.
Milena Nicolini
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roberto kusterle- l’intesa
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NOTE AL TESTO
[i] Regia di Chiara Borelli, Valentina Poppi, Alex Spattini, Claudio Vaccari, i quali erano anche attori insieme a Alessia Capponcelli, Elena Cipressi, Marco Manfredi. Musiche dal vivo di Davide Abati e Andrea Corbelli. Tecnico: Stefano salinaro.
[ii] – Loris Malaguzzi ( Correggio 1920, Reggio Emilia 1994) laureato in Pedagogia presso l’Università di Urbino, nel 1940 inizia ad insegnare nelle scuole elementari, in un borgo sull’Appennino reggiano, frazione di Villa Minozzo. Nel 1945 aderisce all’ambizioso progetto di un gruppo di gente comune di origine contadina e operaia che, in un piccolo borgo di campagna nei pressi di Reggio Emilia, decide di costruire e gestire una scuola per bambini. Da questa scintilla nasceranno in seguito altre scuole in periferia e nei quartieri più poveri della città, tutte autogestite. Dopo il corso di Psicologia (a Roma presso il CNR) lavora anche come psicologo presso il Consultorio Medico Psicopedagogico Comunale di Reggio Emilia per bambini in difficoltà. Nel 1963 il Comune di Reggio Emilia comincia ad organizzare una rete di servizi educativi che include l’apertura dei primi asili per bambini dai 3 ai 6 anni. Questa è un’importante pietra miliare; per la prima volta in Italia la gente afferma il proprio diritto a fondare una scuola laica per bambini piccoli. Ricorda Malaguzzi: “una volta a settimana portavamo la scuola in città. Letteralmente, noi caricavamo noi stessi, i bambini, ed i nostri strumenti di lavoro su un camion e facevamo scuola e organizzavamo delle mostre all’aria aperta, nei parchi pubblici o sotto il portico del teatro comunale. I bambini erano felici. La gente guardava; erano sorpresi e facevano domande”. Nel 1970 il primo asilo nido, per bambini da 3 mesi a 3 anni, viene aperto dal Comune in risposta alla richiesta di madri lavoratrici. Nel 1971 Malaguzzi cura il primo testo laico riservato agli insegnanti che racchiude tutta l’esperienza delle scuole di cui egli è consulente. Nel dicembre del 1991, la rivista statunitense Newsweek definisce l’asilo Diana, situato all’interno dei giardini pubblici di Reggio Emilia, la più avanzata istituzione per la prima infanzia nel mondo, proponendolo ad un enorme interesse negli Stati Uniti e nel mondo. Vari riconoscimenti nazionali ed esteri sottolineano l’importanza del lavoro di Malaguzzi, per il quale i bambini svolgono sempre un ruolo attivo nella costruzione e nell’acquisizione del sapere e del capire. La scuola è un cantiere, un laboratorio permanente in cui i processi di ricerca dei bambini e degli adulti si intrecciano in modo forte, vivendo ed evolvendosi quotidianamente. L’obiettivo principale è quindi quello di una scuola amabile dove stiano bene bambini, famiglie ed insegnanti, e dove lo scopo non è la produzione di apprendimento ma la produzione atta a permettere l’apprendimento. Nelle scuole di Malaguzzi è importante il senso estetico in quanto si pensa che esista anche un’estetica del conoscere: nell’impresa dell’apprendere e capire c’è sempre, consciamente o no, la speranza che quanto realizzato piaccia a sé e agli altri. Malaguzzi ha introdotto l’atelier nella scuola: se avesse potuto avrebbe sostituito la vecchia con una scuola fatta solo di atelier e laboratori, luoghi dove le mani dei bambini, il fare, il pasticciare, potessero conversare con la mente come è nelle leggi biologiche ed evolutive. Malaguzzi osservava quotidianamente i bambini, verificava le proprie teorie nell’attività dei bambini veri, mentre giocano, apprendono, lavorano e si sviluppano. Loris Malaguzzi privilegiava: l’attenzione primaria al bambino e non alla materia da insegnare, la trasversalità culturale e non il sapere diviso in modo settoriale, il progetto e non la programmazione, il processo e non il solo prodotto finale, l’osservazione e la documentazione dei processi individuali e di gruppo, il confronto e la discussione come alcune delle strategie vincenti della formazione, l’autoformazione degli insegnanti. Pensava che sono i bambini a costruire la propria intelligenza; gli adulti devono fornire loro i mezzi per poterlo realizzare, ma soprattutto devono essere capaci di ascoltare.
[iii] Il gruppo è costituito da Maria Luisa Bompani, Vilde Mailli, Silvia Nerini, Maria Chiara Papazzoni, Milena Nicolini. Daniela Briganti ha cantato una poesia di Biblioteca, Le rose esplodono.
Lavoro molto interessante, rileggerò.
Grazie ferni
ringrazio con te Milena Nicolini che ha la carica e la passione per creare scritti come questi
Mi unisco ai ringraziamenti, naturalmente, per Milena Nicolini