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Claude Monet sapeva bene che la luce non si limita a rendere visibile ciò che stiamo guardando. Essa modifica i nostri stati d’animo e da questi ne viene modificata. Non si lascia afferrare e fa della propria stupefacente bellezza una prova della transitorietà dell’esistenza. Pensieri, questi, che stimolarono sin dalle prime prove la ricerca espressiva del grande pittore francese, determinandone la grandezza. Maturarono in lui sin da quando, non ancora diciassettenne, a Le Havre, iniziò a frequentare Boudin, suo primo e vero maestro: “Un jour Boudin me dit: Faite comme moi, apprenez à bien dessiner et admirez la mer, la lumière, le ciel blu”. Assieme camminarono sul molo, sugli argini, verso la campagna, ritraendo i riflessi dell’acqua, del cielo, “longue promenades durant lequelles je ne cessais de peindre d’après nature”.
Da lì in avanti, fu un’immersione totale, assoluta, in “piena luce”, sino al 1926, anno della morte (era nato a Parigi nel 1840), nel luminoso paradiso di Giverny, tra le sue ninfee. Lo possiamo immaginare protetto da un largo cappello nelle giornate assolate; con i piedi nella neve per ritrarre il paesaggio anche nei periodi più freddi; incurante dell’umidità del Tamigi (durante i tre soggiorni londinesi del 1889, 1900 e 1901) o di quella che saliva densa dalle acque dei fiumi, nelle cui sponde posava il cavalletto prima del sorgere del sole, pur di non perdere le trasparenze delle prime luci del giorno. Per non dire di quando saliva nel bateau-atelier: il battello dal quale dipingeva la riva. Dall’interno verso l’esterno, o dall’esterno verso l’interno, a seconda dei punti di osservazione: da quella che egli riteneva essere una posizione centrale per cogliere il diramarsi della luce. Come quando, nel 1867, chiese il permesso per andare a dipingere al Louvre, ma non per copiare i grandi artisti del passato, come fecero moltissimi – ad esempio il contemporaneo Degas – ma per far suoi alcuni scorci che solo da quel punto poteva osservare. C’è il precedente di Turner, che si fece legare all’albero di una nave, durante un mare in tempesta, per vedere e per ricordare. Monet, però, temendo la modificazione impressa alla mente dal ricordo, vuole trasferire nella tela ogni vibrazione di quello che vede, quasi ne sentisse il respiro. Non cerca il racconto, si serve del soggetto per fermare la luce, prima di vederla inabissarsi nelle ombre impenetrabili della notte.
claude monet-la gazza
la regate ad argenteuil
un angolo d’appartamento
la cathédrale de Rouen
le Parlament
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In questi giorni la città di Torino presenta un’importante selezione di opere di Monet – tutte provenienti dal Museo d’Orsay di Parigi – presso la Galleria Civica d’Arte Moderna (a cura di Guy Cogeval, Xavier Rey e Virginia Bertone, catalogo e coproduzione Skira, aperta fino al 31 gennaio 2016). Tra queste quaranta tele vi sono alcuni prestiti sorprendenti: La gazza dipinta tra il 1868 e il 1969, cosparsa di assenze, intuibili sotto al morbido strato della neve; la Regate ad Argenteuil, del 1872, nella quale le imbarcazioni e le nuvole in cielo mischiano le tracce del loro veloce passaggio nella superficie dell’acqua increspata dal vento. In Un angolo dell’appartamento, del 1875, dipinto ad Argenteuil (comune non lontano da Parigi) ritrae il figlio Jean creando un effetto di controluce che prolunga la prospettiva interna dell’appartamento. Mentre in Rue Montorgueil à Paris, Fète du 30 juin 1878, Monet riporta più che la testimonianza della festa “della pace e del lavoro” lo sventolio colorato delle bandiere francesi e, intrecciando i guizzi delle pennellate, guarda dall’alto la via trasformata in un giardino fiorito. Due straordinarie testimonianze de La cathédrale de Rouen, facenti parte di uno dei cicli più celebri del grande pittore (31 quadri, dipinti tra il 1892-1893), eseguito proprio per trattenere nel soggetto il repentino variare della luce, a seconda delle stagioni e dell’ora del giorno. Nella veduta de Le Parlament la nebbia diviene protagonista, dando all’edificio, sottratto alla materialità del presente, la consistenza di ciò che appare dal nulla.
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claude monet-le déjeuner sur l’herbe (dettaglio e insieme)
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Il quadro però che più sorprende incontrare in questa mostra è il frammento principale de Le déjeuner sur l’herbe (1865-66), solitamente appeso alle pareti del museo parigino a pochi metri dall’altra celebre colazione, quella di Manet, che tanto scandalo provocò quando venne presentata al Salon des Refusés del 1863. Fa un certo effetto parlare di “frammento”, considerate le sue dimensioni: largo oltre due metri e alto due metri e mezzo. Fu lui stesso a sforbiciarlo da una tela ovviamente più grande, circa quattro metri per sei, annullando così in parte l’effetto rivoluzionario che essa avrebbe provocato. Forse fu pensato come una risposta a Manet o forse una dichiarazione d’intenti per segnare la sua diversità, in vista della nascita ufficiale dell’Impressionismo (1874).
E’ proprio la scelta del medesimo impianto compositivo ad amplificare la distanza tra i due artisti. In Manet, l’antiretorica scardina il pensiero accademico, mantenendo però intatti i punti di riferimento con la classicità (qui Giorgione e Tiziano); Monet si limita a togliere la pellicola che separa la pittura dalla vita, proseguendo, in direzione della natura, la via aperta da Courbet. Più che in episodi o avvenimenti, più che nella riconoscibilità idealizzata delle forme, per Monet la realtà è contenuta in ciò che non si può ritrarre: “Perseguo un sogno, vedo l’impossibile. Gli altri pittori dipingono un ponte, una casa, un battello. Dipingono il ponte, la casa, il battello e hanno finito. Io voglio dipingere l’aria nella quale si trovano il ponte, la casa, il battello. La bellezza dell’aria dove sono e nient’altro che l’impossibile”. Eppure, dopo avervi lavorato senza sosta per mesi (“Sono molto irrequieto, non penso che a questo mio quadro al punto che, al solo pensiero di fallire, credo che impazzirei”), egli deciderà di non esporre l’imponente opera al Salon del 1866. Alcuni dicono che temesse le pesanti critiche che si sarebbero sicuramente innescate. Altri, che a frenarlo furono alcuni ripensamenti, a seguito dei giudizi contrastanti espressi da Courbet (entusiastici prima, critici poi), passato per il suo studio, situato nelle vicinanze della foresta di Fontainebleau. L’epilogo riguardante la tela è proprio collegato a questo luogo: Monet lo dovette abbandonare giusto verso la fine del 1866. Il mancato pagamento di alcune mensilità d’affitto, lo costrinse a consegnare la tela in pegno al proprietario, il quale pensò bene di lasciarla ammuffire arrotolata in cantina. Quando l’autore riuscì a riscattarla ne salvò tre pezzi, uno oggi scomparso. Non è da escludere che dopo anni l’artista abbia rivisto l’opera con occhi diversi. Insomma, una lunga serie di ipotesi continuano ad accompagnare la storia di questo dipinto. L’unica certezza è che la muffa in un’opera di Monet è quanto di più irreale uno possa immaginare
Silvio Lacasella
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Riferimenti in rete:
http://www.mostramonet.it/orari-e-biglietti-mostra-monet-torino.html
http://www.mostramonet.it/monet-a-torino-il-catalogo.html
Nota: Concomitante con la mostra di Torino, Skira pubblica “Sguardi su Monet”, una sottile monografia di cento pagine, dedicata al fondatore dell’impressionismo. I vari passaggi della sua pittura, nel testo di Fabrizio D’Amico, si trasformano in affascinante racconto, grazie ad una scrittura ariosa ed emotivamente partecipe, capace di analizzarne in profondità la ricerca espressiva. Inoltre, nell’intrecciare luoghi, date, incontri e testimonianze, D’amico ricostruisce con precisione il tessuto culturale del tempo, aiutandoci a capire la complessità di uno degli artisti più amati dell’intera storia dell’arte.
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Fabrizio D’Amico, Sguardi su Monet– Skira Editrice