locandina film di Chantal Akerman
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La morte improvvisa di Chantal Akerman mi ha riportato agli anni burrascosi della mia giovinezza.
Non avevo nemmeno vent’anni quando in un cinema d’essai vidi un film che mi rimase nella memoria come qualcosa di ostico, duro, impossibile da mandare giù: Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles. La regista era lei, Chantal Akerman.
In quel film c’era tutto ciò da cui fuggivo. Stanze anonime, ambienti lindi e impersonali, pareti gialline, tappezzerie a losanghe grigie, piastrelle incolori come i grembiuli e le camicette della donna che in quelle stanze passava le ore, sempre con la stessa espressione in faccia, sempre intenta nelle stesse mansioni quotidiane – riordinare lavare spazzare pulire preparare da mangiare – le stesse ogni giorno. Persino il sesso, fatto a pagamento con sconosciuti, diventava nel film una faccenda domestica, trita come tutto il resto.
Era come spiare dallo schermo la vita di mia madre nelle lunghe ore in cui era in casa da sola e nello stesso tempo in quella di un plotone di donne, chiuse nelle loro linde casette da boom economico, prigioniere di un benessere fatto di mobili svedesi, cucine piastrellate, manicaretti – sciocca parola – insulsi e laboriosi.
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foto di scena film
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Sono passati molti anni da allora, ho visto molti altri film, alcuni belli altri noiosi, e purtroppo anche dei più memorabili ho smarrito scene e immagini. La memoria si offusca. Tutto piano piano si perde.
Ma il tedio, pesante come un macigno, di quelle scene in cui la protagonista prepara un polpettone o pela le patate in tempo reale, con una precisione maniacale e malata, lo stesso impenetrabile viso, si è iscritto nella mia memoria con una tale forza che Chantal Akerman mi sembra sia diventata come una di famiglia.
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Da molti è ritenuta una grande regista e questo suo film è stato giudicato da registi come Gus Van Sant una pietra miliare. Non so se sia così, ma certo pochi film sono riusciti a illuminare d’una luce tanto cruda e spietata – da interrogatorio poliziesco – l’invisibile vita di molte donne, costrette proprio dal benessere a una solitudine disumana. E le scene conclusive arrivano con una tale necessità come solo le cose della vita reale, o le grandi storie riescono ad avere. Penso ad esempio al romanzo “The Grass Is Singing”” di Doris Lessing, potentissima storia, anche questa, di solitudine.
Non posso invitare nessuno a vedere il film – siamo d’altronde un’epoca troppo di fretta – ma la scena in cui Jeanne sbuccia le patate, almeno quella bisogna vederla. Solo qualche minuto. Basta.
Anche perché le casalinghe non sono scomparse in un universo parallelo e nemmeno sono finite sugli schermi scintillanti di glamour delle americane “Desperate Housewives”. E quelle italiane, in particolare, pare siano le più disperate d’Europa (vedi l’articolo di Claudia Vottattorni apparso il 2/10/2015 su 27/ora, Corriere della sera.it).
Per chi volesse sapere qualcosa di più sul film, rimando al bell’articolo sul sito blogspot: http://visionesospesa.blogspot.it/2015/08/jeanne-dielman-23-quai-du-commerce-1080
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Adriana Ferrarini
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