giovanni iudice -Umanità- 54° Biennale Venezia
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È appena iniziato ottobre, con le piogge e il freddo che entra nella camicia, attraverso il polsino. Rinvio la ricerca della maglia di lana nel cassetto, quasi a voler prolungare l’estate, ma lui entra anche dal colletto appena sbottonato. Eh va be’! Bisognerà decidersi. Da tre settimane è iniziata la scuola e mi trovo davanti nuovi occhi di studenti che mi scrutano, ma non lo danno a vedere, occhi che cercano di capire chi sei tu che dalla cattedra dici, e poi scendi dalla pedana e parli con loro e ti siedi accanto, meravigliandoli con le dita sporche d’inchiostro. Capita che un giorno io apra la finestra nel cambio d’ora e guardi le foglie ai piedi dell’acero. Rosse. Capita che per un’associazione repentina, possa tornare alla luce di giugno, ai banchi disposti in maniera diversa. Non in fila, poco distanti uno dall’altro, in ventisette o poco più, con lo stesso numero di sedie e una cattedra ben visibile, poco distante dalla porta d’entrata, ma in una disposizione straordinaria.
A fine giugno non tutte le aule, ma alcune, mutano sembiante. Il trono del prof. è messo in un angolo ed è solo base per un computer collegato ad un video proiettore. Al centro c’è il ferro di cavallo di banchi che possono essere in numero, di poco variabile, dal sette al nove. Stesso numero di sedie disposte attorno. Un solo posto al centro del ring: quello del candidato. In genere la parete a sinistra presenta le finestre spalancate; quella a destra: le sedie per il pubblico. L’aula preferita ha l’esposizione a nord. Se non ci sono tante aule a nord c’è da sperare che ci sia un commissario interno che indichi al presidente un’aula, con il condizionatore d’aria, in modo che in quei giorni d’inizio estate il caldo insopportabile non spinga i co-protagonisti d’esame a sventolarsi o assumere posizioni cariche di disagio nei confronti dell’afa debilitante. In tutto questo, il candidato deve rimanere impassibile, rispetto alla goccia di sudore che scende, e lì, in quel frangente, si vedrà la sua virtù.
Il ferro di cavallo, nelle intenzioni dei professori, se non può essere un abbraccio, è un modo per mettere il candidato nelle migliori condizioni di parola e di ascolto. Ma alcuni studenti vedono in quel ferro una morsa, altri un percorso ad ostacoli, tanti non vedono nulla: solo un modo diverso di disporre i banchi vista la eccezionalità della situazione. È l’inizio alla prova orale, per una delle tante commissioni d’esami di stato sul territorio nazionale.
Da quando non si sa, ma l’esame di stato ha tutte le caratteristiche di una prova d’iniziazione. Dopo i tre scritti ogni studente può con il colloquio conquistare trenta punti e, se ci sono delle condizioni, anche altri cinque punti. Il bonus. Chissà. Una volta pubblicati i voti delle prove scritte, sia i delusi che gli entusiasti, tra gli studenti, dovranno dare il meglio delle loro capacità comunicative, per raggiungere un punteggio utile per futuri percorsi.
Nella prima parte del colloquio, gli studenti sono in piedi vicino al computer e con l’ausilio del Power Point espongono gli argomenti approfonditi. I più timidi vanno avanti e indietro sulle punte dei piedi, in passi che vorrebbero seguire il ragionamento. Certe volte si fermano. Poi riprendono. Altri chiedono aiuto alle mani. E allora ci sono i più stravaganti intrecci di dita, davanti e dietro al busto che cerca di non lasciarsi andare nei più bizzarri tic. E l’ansia passa da un omero all’altro, con spostamenti ritmanti. Gocce di sudore alle tempie, sorrisi forzati, occhi a fessura. E pellicine d’unghia tormentate come i bordi, di una maglietta, tirati giù, più e più volte, già distesi con cura da altre mani in attesa. Madri. E scorgi in quel mix di emozioni, l’entusiasmo e la gioia di raccontare gli argomenti. Occhi azzurri decisi di un ciuffo biondo che con un eloquio diretto affronta il tema del doppio in psicanalisi e in letteratura, dopo aver letto un saggio di R. D. Lang L’io diviso, di non immediata comprensione. E anche la Memoria sum corporis magni e il desiderio di Carità di una giovane ragazza ha cercato nel pensiero di Dante nel Convivio, nel Purgatorio e nel Paradiso e nella XCV lettera a Lucillo di Seneca. C’è la Speranza, l’Africa, la Solidarietà nella massima terenziana: Homo sum humani nihil a me alienum puto. Sono uomo, nulla di quello che è umano a me è estraneo.
Uno tra i tanti: Matteo, Sara, Vanessa, Elena, Marco ha scoperto alla cinquantaquattresima biennale di Venezia, nel 2011 l’intensità e il realismo di Giovanni Iudice nell’Umanità e l’ha messa a confronto con la Zattera della Medusa, di Theodore Gèricault negli intrecci con la poesia di un Leopardi che finalmente non è etichettato come il pessimista, ma colui che nello Zibaldone afferma: La somma felicità possibile dell’uomo in questo mondo è, quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore.
Ripenso a quelle parole, rivedo il dipinto di Giovanni Iudice (in foto) e penso all’avvenire migliore cercato da altri giovani che non sono quelli dei nostri banchi di scuola. Alla mancata felicità. Rivedo le bare di Lampedusa, disposte in fila, i corpi nelle buste grigie di cellophane che ogni giorno si ripresentano lungo la linea del caos nelle acque e nelle lacrime del mar mediterraneo. Ho davanti agli occhi l’esodo epocale dei poveri della terra, in fuga dalle guerre e dalla fame. La loro paura. Il loro entusiasmo. E poi penso che è solo in apparente contrasto con quello che i giovani mi danno, ogni giorno, nelle aule, nei corridoi, dietro la cattedra, in quel ferro di cavallo d’esame e nei banchi disposti in fila ordinaria. Anche quei giovani che fuggono dalla loro patria sono pieni di entusiasmo. E tanti lo mantengono e possono farlo se altri lo nutrono quell’entusiasmo. Anche nell’impegno nella semplice lettura di un articolo di giornale sulla fuga dei disperati. Nella conoscenza può esserci un abbraccio di solidarietà.
È appena iniziato ottobre. Domani, troverò l’ordinaria scolasticità nella disposizione dei banchi, in fila uno dietro l’altro, in classe prima. Vedrò occhi vispi addormentati entusiasti preoccupati assenti curiosi, occhi che mi indicheranno la strada per il cammino insieme. Occhi a cui dirò: cercate un confine che vi metta in grado di saper distinguere l’umanità dalla disumanità. Pensate a quell’esodo come necessità irrinunciabile. Non sparate giudizi senza sapere. Guardate il quadro di Giovanni Iudice che alcuni vostri compagni di un’altra scuola hanno analizzato durante l’esame di stato. Cosa ci leggete? E loro proveranno a capire le mie richieste. Certi si opporranno. Altri non capiranno. E cercherò con loro la via migliore. E mi trasformerò nella loro metamorfosi. Solo così sarà possibile crescere in armonia. Insieme, nello sguardo vigile al mondo.
Elianda Cazzorla