azar nafisi
.
C’è una qualità particolare che le esperienze acquisiscono quando il tempo si framezza al momento in cui le si vive e che dà loro il nome di ricordi. Tale qualità è fatta di distanza ed è essa che con ragioni diverse per ognuno, compone i sentimenti, l’umore di quanto abbiamo vissuto. È per questo che volentieri torno a rivisitare e interrogare la cronaca di un viaggio in Iran, cercando di scoprire oggi quanto non sapevo di aver capito allora.
Quando Laura mi chiese se avessi letto il libro di Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, stavamo bevendo un the a casa mia e io non immaginavo affatto che dopo sei mesi sarei andata a Teheran.
Meno che mai avrei potuto immaginare di andare proprio in una Università, a presentare il libro di poesie di un’autrice italiana, che è uno degli ambienti in cui gran parte del romanzo è ambientato. Ma, a dire il vero, neanche immaginavo che inaspettatamente, in quella fine di anno, avrei compiuto tre viaggi importanti, l’ultimo dei quali in Siria, funestato da una dolorosissima e misteriosa malattia che avrebbe aperto, nell’anno successivo il viaggio più periglioso: quello in un corpo che s’ammala.
Ma non devo ora distrarmi da quanto sto raccontando, rivisitando: il mio viaggio a Teheran.
Avevo lavorato lungo tutta l’estate sul libro di Oretta Dalle Ore, Sotto la pioggia scrosciante, approntando una prefazione e dei commenti in prosa sotto ogni poesia contenuta nel volume che, nel frattempo, era stato tradotto in farsi da Pouran Hajeb e Asghar Ebrahimi, grazie ai quali giunse l’invito a parlare del libro e della poesia italiana presso la Facoltà di Italiano della suddetta università.
Intanto, io avevo comperato l’insolito libro della Afisi. Non un vero romanzo, non un diario, un testo che si può considerare ottimamente facente parte della letteratura documentale. L’autrice fu una brillante docente di una delle Università di Teheran, sino all’instaurazione del regime degli ayatollah, di cui lei stessa era stata fautrice, per riceverne in breve tempo una dolorosa disillusione. Compagni, amici, parenti vessati, scomparsi, torturati ed arrestati e il suo corpo di giorno in giorno costretto a scomparire sotto veli, mantelli. Unica sopravvivenza un periodico, clandestino ritrovarsi di donne che parlano di letteratura.
“Dalla mia poltrona le montagne non si vedevano, però le loro cime, incappucciate di neve anche d’estate, e gli alberi che cambiavano colore con le stagioni si riflettevano nello specchio ovale appeso alla parete di fronte – un bel pezzo antico trovato da mio padre. Grazie a quella prospettiva indiretta riuscivo ancora meglio a convincermi che il rumore non veniva dalla strada, ma da un posto lontano, e il continuo brusio restava l’unico legame con quel mondo che, almeno per qualche ora, potevamo rifiutare”. [1]
.
teheran
.
Teheran è collocata a sud dei monti Alborz, ma curiosamente io ricevevo l’impressione di essere circondata da una catena montuosa, forse per l’effetto dell’imponente monte Damavand, e camminando mi figuravo d’essere al centro di una corona cingente il capo di un gigante di pietra dal quale venivo trasportata, come in una fiaba. La luce di cui è soffusa la città è incantevole, morbida e falba, mutevole nel corso della giornata e quando varia di colore, non perde una suggestiva luminosità spesso priva di trasparenza.
Il rettilineo che dall’aeroporto conduce al centro città potrebbe essere quello di Lamezia Terme, con le sue poche e garbate palme, ma la luce verde dei minareti, i consecutivi a volte giganteschi ritratti di Khomeini e di Khamenei richiamano ad una realtà che non è sovrapponibile a nessun’altra. Non basta leggere su una Guida Blu degli anni ‘60 che la città a quel tempo aveva un milione di abitanti e apprendere da una contemporanea che oggi ne ha oltre dodici milioni, per figurarsi l’impatto con una metropoli lontana da iconografie mediorientali. La sorpresa di essere dentro un’architettura di cemento e acciaio quale quella di una metropoli occidentale rendeva inquietanti i ricordi incamerati distrattamente da giornali, telegiornali. Ci si accorge che quando si ha un’idea preconcetta di una realtà, si tende ad attribuire minor valore testimoniale alle immagini documentarie e a pensare che siano particolari, frammenti. Delle immagini, come delle notizie che le accompagnano, incameriamo solo i particolari che possiamo far combaciare con la nostra idea dei mondi lontani dalla realtà a noi prossima. Eppure, non tutto si può ridurre a questo. Vedere col proprio corpo è il viaggio. Tenere aperti tutti i sensi, essere capienti e cedevoli di fronte all’istante è quanto farà assumere nella memoria un suono ai palazzi, un colore alle strade, una impressione inestinguibile legata ai monumenti, ai luoghi o agli occhi velocemente incrociati in un incontro. Lo chiamano spirito di un popolo, e se lo cogliamo, è quello che di più prezioso ci portiamo indietro da un viaggio. È questa la qualità che fa divenire la nostra esperienza ricordo, con la concretezza della materia e lo struggimento della visione.
Il traffico è frenetico e disordinato, l’aria inquinatissima. Si sta fermi in taxi con i finestrini aperti e ci si ritrova a considerare che poi, in fondo, a Milano non si respira così tanto male…
Intanto, avevo già un foulard in testa. Poco prima che l’aereo atterrasse tutte le donne che già non avessero coperto il capo, indossavano il copricapo prescelto. Le hostess lo avevano come parte integrante della divisa e non se ne erano mai private durante il volo. Mi ero informata su come avrei dovuto regolarmi nell’abbigliamento, nei modi di fare e mi pareva tutto molto facile e all’inizio quasi divertente. Capo coperto, soprabito lungo almeno al ginocchio, mai dare la mano agli uomini nel salutare, evitare il contatto fisico.
“Io dissi che la mia integrità di insegnante e di donna era compromessa dall’imposizione ricattatoria del velo, in cambio di qualche migliaio di tuman di stipendio. Il problema non era il velo in quanto tale, ma la libertà di scelta. Mia nonna si era rifiutata di uscire di casa per tre mesi, quando altre leggi l’avevano costretta a toglierselo. Io sarei stata altrettanto tenace nel mio rifiuto di portarlo. Non sapevo che di lì a poco quel rifiuto avrebbe potuto costarmi il carcere, la fustigazione o addirittura la vita.[…]. Adesso che non potevo più pensare a me come un’insegnante, a una scrittrice, che non potevo indossare quello che volevo, o camminare per strada al mio passo, gridare se mi andava di farlo o dare una pacca sulla spalla a un collega maschio, adesso che tutto era diventato illegale, mi sentivo evanescente, artificiale, un personaggio immaginario scaturito dalla matita di un disegnatore che una gomma qualsiasi sarebbe bastata a cancellare.”
Non si può immaginare quanto possa essere difficile cancellare da sé abitudini, autopercezioni. I miei capelli liscissimi facevano di sovente scivolare il foulard dal capo; mi accorgevo di creare imbarazzo e allora con Oretta decidemmo di comperare un mini chador, soprattutto in vista dell’incontro che avremmo dovuto tenere in Università. Lo volevo colorato e Pouran mi disse che nulla sarebbe stato più facile, invece in breve dovemmo constatare, con stupore e delusione più suoi che miei, che ormai ne vendevano solo neri o marrone. Con ostinazione femminina, ne scovai uno carta da zucchero e, imparati i gesti, divenne comodo e soprattutto tranquillizzante accessorio. Il viaggio si è svolto dal 25 al 31 ottobre del 2005. Faceva ancora abbastanza caldo e il capo coperto, il soprabito di lana costruivano intorno al mio corpo una sorta di impalcatura che mi intorpidiva la presenza in pubblico. I miei sentimenti oscillavano tra desiderio di rispettare le altrui consuetudini e il rifiuto di adeguarmi a qualcosa del tutto estranea a me. La mia amica antropologa Vanna, mi scriveva per posta elettronica che non dovevo sentirmi in colpa se non riuscivo ad accettare completamente certe regole, mi spiegava che ci sono reazioni sedimentate nella memoria anche organica che hanno a che fare con i vissuti culturali a cui si appartiene. Il mio amico Ennio, nel corso di una conversazione mi aveva detto che non riusciamo ad immaginare quanto possano sentirsi a disagio coloro che dai paesi musulmani arrivano da noi e devono rinunciare alle proprie abitudini… pensavo a questi due punti di vista diversi e intanto osservavo i volti delle ragazze, dei giovani. Le donne iraniane sono molto belle negli ovali del volto, colori e taglio degli occhi. Difficilmente ne incontri lo sguardo, ma colpisce il loro portamento elegante anche quando sono completamente avvolte nei lunghi chador. Nei centri commerciali si incontravano frotte di giovani, delle ragazze mi impressionava a volte un trucco del viso eccessivo, fin troppo evidente e stridenti meches bionde sui bellissimi capelli neri. Nei negozi vedevo vestiti scollati, o appariscenti, ornati di lustrini, che, mi spiegarono, erano acquistati per le feste in casa. Mi sentivo in colpa per la tristezza che mi provocava questa spiegazione. Avrei voluto che qualcuna mi dicesse: Sono felice così . Ma non ho potuto porre a nessuna questa domanda in modo tanto diretto. Non ho visto giovani allegri per le strade di Teheran. A volte ho riconosciuto occhi annebbiati da stordimenti chimici e un bisogno di fare massa come per non lasciare spiragli alla solitudine. Non ho sentito leggerezza. Lunghe vesti di donne ma spesso anche di uomini, svolazzavano nei passi frettolosi e tutto quel nero tinteggiava le strade fino quasi a sostituirsi ai corpi e gli sguardi severi degli ayatollah che giungevano dai manifesti spesso giganteschi, sembravano spingessero anche me ad affrettare inutilmente il passo. Mi spiegavano che è una città enorme, che tutti corrono, che c’è fretta sempre, ma ero pur sempre in una città del vicino Oriente, non a New York…domande, domande…Tante me ne sono rimaste in gola…Ho recentemente letto un bell’articolo su un rotocalco americano, realizzato attraverso interviste a intellettuali che vivono in Iran, dai quali viene sottolineato che i giovani iraniani vivono sognando di andare via. Ed è questa una perdita insanabile per un paese, generazioni che pur restando vivranno una identità dimidiata, sofferta tra quello che non vivono e quello che potrebbero vivere, sostanzialmente non dandosi. Penso ora ai giovani appassionati universitari incontrati e mi chiedo se, anche per loro, lo studio costituisca non tanto un patrimonio da rifondere nel loro paese, ma un bagaglio con cui partire. E in fondo è la vicenda dei miei amici interpreti che amano l’Iran, che lì hanno studiato ma che in Italia vivono e costruiscono il futuro. Il proprio, e quello della collettività a cui ora appartengono, condividendo cultura, conoscenza, civiltà.
Non vi dirò del canto del muezzin che si leva nell’ora della preghiera né delle luci che verso il crepuscolo si accendono nei minareti effondendo l’aria di bagliore verde, e non perché siano elementi privi di suggestione, ma proprio perché è facile immaginare quanta ne abbiano. Vi racconto lo straniamento, il bisogno di stare lì e la voglia di andare via. La difficoltà di capire da vicino quanto invece da lontano sembrerebbe sufficientemente chiaro.
Sono arrivata in Iran durante il Ramadan, circostanza che comporta il non poter mangiare o bere per strada sino al tramonto, ma, come prescrive il Corano, chi è in viaggio è giustificato nella deroga al precetto. Questo vuol dire che negli alberghi si può mangiare secondo le proprie esigenze e si possono ospitare anche amici musulmani. Non ho quindi assaggiato i dolci che vedevo nelle vetrine di alcuni negozi, non ho bevuto i succhi di melograno amaranto che facevano mostra da vetrine ornate di frutta né assaggiato il pane appena sfornato. Nelle ore in cui avrei potuto acquistarli si rispettava il digiuno, in quelle in cui il digiuno era sospeso, io e i miei compagni di viaggio avevamo già mangiato in qualche ristorante. Ma il dispiacere non era quello di una golosità soffocata, no…mangiare per strada, comperare dove facevano acquisti gli iraniani, mi sembrava che sarebbe servito a mischiarmi un poco, a confondermi, a com-prendere qualcosa – che la mente non riusciva a contenere- attraverso il corpo. Questo mio corpo amico e senziente all’esperienza che a volte capisce la vita prima di ogni mia cognizione.
“<< Insomma, >> proseguì << bisogna proprio che lei venga a insegnare da noi, nell’ultima università veramente liberale rimasta in tutto l’Iran, l’unica che ancora ospita alcune delle menti migliori del paese. Il direttore del dipartimento le piacerà, non è un letterato ma è uno studioso serio.[…] Un brav’uomo …Vedrà che le cose adesso sono cambiate >> insistette. << Sanno quanto vale un buon insegnante.>>.
Credo di aver conosciuto una buona insegnante all’università di Teheran, Nadia Moaveni, una italianista, che molto si era adoprata per organizzare la presentazione di Sotto la pioggia scrosciante, in quanto tradotto dalla sua ex allieva Pouran. Nadia mi appare donna solida e dolce, colta e modesta. Animata da amore per la lingua italiana, per l’Italia, per gli studenti a cui- mi dicono- si dedica con generosità. Nadia se volesse potrebbe andare a vivere negli USA dove parte dei suoi familiari risiede esercitando ottime professioni ma mi dice che non ha senso andare in un paese straniero per fare una vita di comunità esclusivamente con i propri connazionali. Perché questo è quanto succede ad un iraniano in America. L’impatto con l’istituzione universitaria ed i suoi membri fu inevitabilmente formale, ma proprio in quelle situazioni mi veniva spontaneo porgere la mano per salutare anche agli uomini, come se lì più che mai ci fosse il bisogno di riconoscimento. Qualcuno mi aveva già detto che sembravo una iraniana per i tratti del viso, lì me lo ripeterono in tanti e allora successe una cosa curiosa- un merito della sapienza del soma– cominciai a sentire che avevo qualcosa in comune con quel popolo, con quella terra. Che probabilmente il mio miscuglio di sangue, colori e forme, derivava da quella stirpe per via immemore. E qualcosa finalmente in me si sciolse.
Nella bacheca della Facoltà di Italiano, molti classici, mi pare di ricordare tanto Verga, lo scrittore dei vinti. Mi dicono che la letteratura contemporanea è diffusa più dalle riviste che dall’accademia. Ma mi pare che in misura variabile sia quasi ovunque così. Proporre, validare il lavoro di autori contemporanei nel suo manifestarsi, comporta maggiori probabilità di incorrere in errore, ci si muove su terreni instabili e l’essere umano pare temere più di ogni cosa l’instabilità. Sebbene rinunciando ad essa si rinunci ad una grande componente di libertà e, così riflettendo sulla letteratura, mi trovo a considerare cose delle società, della vita di persone, popoli, stati. E c’è qualcosa di commovente in questo.
.
le donne all’università
.
Qualche giorno prima della conferenza, il preside di Facoltà ci ricevette nel suo studio. Una vera conversazione persiana, come si legge sulle guide di viaggio, la maggiore attenzione fu rivolta ad Oretta, in quanto poetessa ospite. La conversazione si svolse prima in inglese e poi in francese, poche le domande dirette, grande discrezione, un simulato distacco da parte dell’interlocutore che pareva più una cautela, un riguardo. Immagino che sia chi studi una lingua minoritaria come l’italiano in Iran, o il farsi in Italia, sia mosso da un trasporto intenso verso un popolo, una cultura: infatti la sera della conferenza, i tanti giovani erano colti, curiosi, attenti. Per tutti, prima di iniziare, the accompagnato dai dolci tipici con cui si rompe il digiuno al tramonto, nel periodo di Ramadan, di nuovo per me quella sensazione di essere dentro una stanza e non sulla soglia.
Isfahan o, come dice il suo nome, la metà del mondo. È stata l’unica nostra deviazione dalla capitale ed è una delle più belle città che io abbia mai visto. Dodici i ponti magnifici che accarezzano la sua schiena bagnata dal maestoso fiume Zajandehrood. Ecco la dolcezza immaginata in una città persiana, le cupole a mosaici azzurri, blu e verdi delle tre moschee, la Meidun, maestosa piazza che poco alla volta emerge quale ricordo cinematografico dal film pasoliniano Il fiore delle mille e una notte. E una cordialità diffusa, una distensione nel parlare, nello stare per strada che dopo l’impatto con Teheran trovavo balsamico. A Isfahan abbiamo avuto un taxista a disposizione per tutti i giorni della permanenza, al costo di un percorso lungo in taxi a Milano. Ci aspettava zelante e soddisfatto fuori dal bellissimo albergo in cui alloggiavamo, ricavato dall’antico caravanserraglio, fatto di giardini interni, portici, una preziosa e visitata sala da the e begli oggetti sparsi. Finalmente parlavo con chi incontravo nel solito buffo miscuglio di lingue che viene fuori quando non si ha nemmeno una lingua in comune. Nei pressi della città visitammo il monastero armeno di Julfa, piccola rispettata enclave cristiana. Esso è in buona parte rifatto, ma si presenta con una sua autorevolezza e molti sono i visitatori. Mohamed, il nostro chaperon, voleva mostrarci le cose che più possono colpire l’immaginazione del turista occidentale con l’idea di un mondo magico e misterioso, e per le compere ci portava senza esitare dai suoi amici fidati che, al nostro arrivo, scambiavano con lui un consueto cenno di intesa da sodali in affari, ma senza mai far trasparire un interesse venale. In ogni bottega, negozio, bancarella si ripeteva l’offerta del the e immancabili parole di attenzione sul viaggio, sull’Italia, con Mohamed discretamente vigile e appartato. Si sente in quei momenti ancora intatta quella abitudine antica di stabilire rapporti grazie ai commerci, come se ogni essere umano possa divenire un minuscolo punto su una cartina geografica.
.
aank cathedral- armenian quarter- esfahan, iran
interno
.
Un giorno, verso il tramonto, Mohamed si offrì di portarci in una fabbrica di tovaglie, percorremmo una campagna piatta, attraversata dal fiume, molti venditori improvvisati stendevano a terra carote, patate, verdure, la gente si accingeva a fare compere o preparare da mangiare, molte famiglie sostavano e chiacchieravano in riva al fiume, grossi corvi volavano bassi e gracchianti, l’atmosfera mi ricordava quella del giorno prima di una festa religiosa importante nel sud Italia, tutto era lento, disteso. Arrivammo in uno spiazzo, da lontano avevo intravisto delle tende basse tipo igloo e il nostro taxi si dirigeva proprio in quella direzione, Mohamed ci fece cenno di scendere…eravamo arrivati. La fabbrica era l’accampamento di due tintori, due facce d’uomo che erano sculture umane, c’era una storia addensata nelle rughe, nella pelle di colore stratificato che mi lasciò senza fiato. Una sorta di testata contro un tempo fermo come l’acqua rossa nel grande paiolo di rame a fianco della tenda. La mia guida suggerisce[2]: “generalmente si chiede il permesso ad un iraniano di scattargli una foto, questo viene accordato più che volentieri. La foto risulterà un po’ innaturale, è ovvio, ma è meglio di niente.”, chiesi il permesso al tintore di fotografarlo; non aveva voluto vendermi le sue tovaglie poiché non ancora era finito il processo di tintura, ma non mi rifiutò la foto. Il suo volto è una delle cose più belle che ho riportato dall’Iran.
Venerdì 28 ottobre: giorno di preghiera e di solidarietà con la Palestina, per le strade del centro incontrai un esiguo corteo. Qualche ora dopo in televisione venne mostrata la piazza stracolma di manifestanti. Non ero al posto giusto nel momento giusto, forse?
Tornammo a Teheran; gli aeroporti sono luoghi caldissimi. Nei banchi per l’imbarco uomini e donne lavorano fianco a fianco. Gli uomini in maniche di camicia, le donne con camicia, giacca, capo coperto. Questa disparità era per me difficile da accettare; il pensiero del caldo patito dalle hostess mi provocava un disagio fisico. Oggi il ricordo si frammista a rabbia e dispiacere e mi fa apprezzare la lingua che batte le consonanti mentre penso alla differenza preziosa tra i verbi dovere e potere.
In aeroporto ho assistito ad un episodio di grande fierezza femminile avvilita, purtroppo, da un’altra donna. Ho visto una piccola, forte donna iraniana in partenza verso l’occidente, litigare, urlare contro una imponente, nerovestita guardiana della fede che aveva espresso dubbi sulla moralità dell’altra, a partire dal sospetto che il contenuto di una bottiglia non fosse succo di frutta ma alcool. Intervennero i poliziotti, i parenti della piccola donna in partenza la pregavano di non replicare, ma lei difendeva se stessa dall’offesa ricevuta, come se tutta la sua vita si giocasse in quell’istante. Non è innata la solidarietà di genere anzi, in certe situazioni di rigidità e patriarcali, pare che proprio le donne si sentano in dovere di stigmatizzare quelle meno conformi alla regola. Io oggi trovo una plausibile spiegazione in una sorta di istinto di specie arcaico e biologico che ha memorizzato quanto l’esotico divenga erotico – così usano dire gli psicologi sociali – e quindi come una donna diversa dal modello dominante possa essere attraente per il maschio dalla cui permanenza nel nucleo familiare dipende la sopravvivenza. La poligamia, in fondo, fu una risposta a questo rischio accanto alla certezza di una discendenza numerosa. Mi sovviene inatteso un altro ricordo; una sera eravamo in un ristorante defilato dalla via principale, ma centrale e di buon livello, sicuramente non un posto per turisti, vi erano diverse tavolate con famiglie, c’era un’atmosfera allegra che non avevo trovato in altri locali ma, al contempo, c’era anche una sorta di cautela verso l’esterno. La mia amica iraniana vide un pianoforte e chiese di poterlo usare, dopo le prime note, fu avvinta dalla musica che suonava e felice continuò con entusiasmo, ridente. Notai abbastanza presto sguardi di riprovazione sempre più ostentata da parte delle donne ai tavoli circostanti e dopo poco un cameriere le chiese di smettere. Ma lei ormai aveva suonato e la gioia le rimaneva sulle mani, nell’animo, benché affiancata al dispiacere di un ennesimo tacito divieto. Da donna a donna.
Di ritorno a Teheran, a pochi metri dall’hotel in cui alloggiavamo, su una parete giganteggiava un manifesto inesistente prima della partenza per Isfahan: una enorme clessidra conteneva nella parte superiore una raffigurazione della terra e in quella inferiore c’era Israele. Campeggiava su tutto una scritta: Sionism is out of the world. Qualcosa di grave stava per accadere in un equilibrio nei fatti mai stato tale.
<<I fatti concreti di cui parliamo non esistono, se non vengono ricreati e ripetuti attraverso le emozioni, i pensieri, le sensazioni>>.
La notte della partenza incontrai nella hall dell’albergo la bellissima figura di una donna occidentale, velata, cordiale e quieta con quel sorriso che sono quasi sicura di aver visto in fotografie, film di cui lei è la conturbante protagonista. Sono quasi sicura fosse Fanny Ardant, La signora della porta accanto. Una delle mie attrici preferite. Alta, longilinea, con quelle labbra carnose e offerte al sorriso, i piccoli occhi vivaci e mobili. Era notte fonda, il taxi aspettava, dovevo affrettarmi verso l’aeroporto e, a dire il vero, per carattere difficilmente l’avrei importunata anche se fossi stata certa della sua identità. Mi è rimasto un dubbio. Uno dei tanti, il minore in fondo, ma varcando l’uscita mi sembrò di andare via lasciando qualcosa di me. Un presidio d’affetto tra mondi diversi
Mariella De Santis – Milano 26 marzo 2008
.
NOTE
[1] Questa, come tutte le successive citazioni in corsivo e virgolettate, sono tratte dal libro di Azar Nafisi Leggere Loita a Teheran, Adelphi, Milano, 2004.
[2] Anna Prouse, Iran, Ulysse Moizzi, Milano,2001.
.
Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran
Breve notizia bio-bibliografica
Mariella De Santis è nata a Bari in un raro giorno di neve del 1962. Vive tra Milano e Roma . Nel 1991, per la sezione inediti, viene segnalata al Premio Internazionale Eugenio Montale. Suoi racconti sono trasmessi dalla Radio Nazionale Croata e dalla Radio della Svizzera Italiana. Ha collaborato alla realizzazione di prodotti videopoetici. E’ presente nel lavoro antologico curato da Mariella Bettarini Donne e poesia. E’ autrice teatrale rappresentata in rassegne e festivals. Tra le sue pubblicazioni in poesia: Porta d’ingresso (Bergamo,2005), Silenziosi Immobili Frammenti (Milano,2006), La cura di te, poemetto per il libro fotografico di Viviana Nicodemo Necessità dell’anatomia (Milano,2007), Ipnos il poema del sonno, in Gli Smerilliani( 2011). Con Gilberto Finzi è curatrice di Menhir, opera omnia di Delfina Provenzali ( Milano,2004). Del 2014 è La Cordialità (Nomos ed.) con sezione di traduzioni in inglese a cura di Anthony Robbins e del 2015 Vinerotiche e altre delizie (Leggeredizioni ). Suoi testi sono musicati da compositori contemporanei (www.novurgia). Collabora con artisti, case editrici e cura progetti di animazione culturale. È stata vice direttore della rivista Smerilliana, luogo di civiltà poetiche. Scrive per tentare di mettere ordine tra le cose che stanno dentro, accanto, attorno al visibile e all’invisibile, senza smarrire il sorriso.
Mariella De Santis was born in Bari, in 1962 on a unusual day of snow. She is a poet, dramatist and novelist. She is involved as consulent for cultural project for communities and publishers. She’has been on the editorial board of several literary magazines. In 1991, she received a special mention in the Eugenio Montale prize. In 1993, she published her first book of poetry ( Da luoghi incerti). She wrote plays and made readings for international Radio broadcasts. Her plays ‘ve been performed in Festivals and Special Events.
Her latest book of poetry is LA CORDIALITA’ ( 2014), Nomos ed. (Italy). She works with videomakers, artists and composers of classical contemporary music (www.novurgia.it). Her aim in writing is to create some order in thinghs without loosing her smile.
Foto courtesy Dino Ignani.
Viaggio in un mondo così diverso raccontato mirabilmente
Quello che però ne esce come quadro non è civiltà, la nostra intendo, che nel 2015 ancora ci comportiamo peggio dei preistorici, come se niente della cultura e delle relazioni si fosse stabilmente memorizzato dentro le nostre ossa e costituisse davvero ciò che ci sopporta