la porta del teatro-sito archeologico bene vagienna

Sulla scena c’è un testo, dove il richiamo è a tutte “le porte”, in fondo quindi anche le traduzioni che di molti scritti si “costruiscono” come “porta” e portano a comprendere il contenuto, e anche in questo fanno capire meglio il titolo, criptico ma non troppo, che Arnold Aronson, professore di Teatro presso la Columbia University di New YorK e storico del teatro, ha pubblicato in New Theatre Quarterly il 20 aprile (Cambridge University Press, Novembre 2004, pagg. 331-340) http://www.columbia.edu/~apa4/pdfs/Aronson_doors.pdf.
In rete è possibile trovare la traduzione al testo a cura di Lorenza Pravato al link riportato: http://www.fucinemute.it/2015/06/le-loro-uscite-e-le-loro-entrate-la-porta-sulla-scena/
Ciò che dell’articolo mi ha colpito è proprio il soggetto: le porte, elemento strutturante architettonico di non poco rilievo. La porta, porta un carico che poggia sul vuoto, certo sfrutta un’architrave o un arco, una pietra tra altre due che fungono da piedritti, il classico trilite, ma ha anche una funzione di permettere l’accesso o la chiusura di questo. Oltre a permettere quindi l’isolamento, porta l’aria e la luce, dunque consente la ventilazione e l’insolazione di un ambiente, tanto quanto nel corpo di ciascun essere animale le aperture svolgono il medesimo ruolo.
In questo lungo e dettagliato saggio si attraversano di fatto diverse porte, letterarie, dunque testuali, e teatrali, quindi virtuali, con una realizzazione scenica in cui il prima e il dopo, la sequenza di quanto si volge si apre e si chiude attraverso porte di genere diverso, sia strutturali, che di sviluppo dialogico. Lo stesso dicasi per le rappresentazioni cinematografiche o quelle televisive. L’apertura è poi assegnata ai significati e ai significanti, come anche è elemento legato alla percezione di un avvenimento che in scena viene portato attraverso l’innesco di una situazione particolare, in cui l’empatia è l’elemento portante.
la torre di babele -Birs-Nimrud- la porta di dio
Fin dall’antichità la porta è una barriera e un punto di transito, poiché ciò che sta fuori, oltre il muro eretto è l’ignoto che può palesarsi e opporsi a quanto si vorrebbe mettere in salvo dentro. La porta è un guscio debole comunque, quell’uscio consente il passaggio delle forze a cui ci si vuole opporre o a cui ci si vuole dirigere. Ancora oggi il termine babele ha una connotazione decisamente negativa poiché sta a significare caos, confusione. Tuttavia questa accezione non è corretta poichè è frutto di un curioso equivoco etimologico. Il termine babilonese Bab-ili infatti, significava letteralmente la Porta di Dio, mentre il termine ebraico balal voleva dire confusione. Il testo della Genesi in cui si parla della babele delle lingue fu scritto con ogni probabilità intorno al 590 a.C., epoca in cui il popolo ebraico era prigioniero nella terra dei babilonesi. Non è chiaro se la torre costruita da Nimrod fosse situata in Babilonia. Alcuni hanno ipotizzato altri siti tra cui la città di Borsippa, dove si trovavano i resti di una torre chiamata Birs-Nimrud che evoca la famosa torre dipinta
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pieter bruegel- torre di babilonia
I Babilonesi chiamavano questa gigantesca costruzione Etemenanki, ovvero la Casa delle Fondamenta del Cielo e della Terra, anche Dante fa uso di questo genere di porte per scendere agli inferi di se stesso e della nostra memoria storica oltre che politica religiosa e geografica. Le sue parole sono porte che continuamente aprono il tempo facendo arretrare o avanzare luoghi, persone e fatti sulla scena della sua mirabile commedia mentre figure terribili cingono d’assedio il povero viandante intento a ritrovare se stesso lungo la via smarrita durante la terribile e mirabolante fatica di vivere la vita.L’attraversamento dei luoghi-porte cruciali sono il superamento delle barriere frapposte né più né meno a quanto si vede nelle ricostruzioni di innumerevoli pellicole fotografiche con argomento storico in cui l’assedio di una città murata e l’assalto alle sue porte è il gesto per antonomasia della sconfitta e della caduta di una civiltà. Le porte sono anche chiusure a tempo, non solo quelle delle banche, a cui siamo ormai abituati, ma dal passato ricordano che la città o il villaggio era un elemento autosufficiente, fatto per restare chiuso e rivolto pressoché verso il suo interno. Come faremmo oggi senza i portali di internet? senza i caselli delle autostrade, certo viaggeremmo meglio, visto che il pagamento del pedaggio comunque limita e qualifica il traffico dei mezzi che la percorrono e quindi discrimina.
Le porte sono un elemento che utilizziamo praticamente ogni momento; porte su cardini, porte scorrevoli, porte ad apertura meccanica ed elettrica, porte a fotocellula, porte di ogni genere di materiale. A questo punto non posso non ricordare le favole in cui le porte erano l’elemento magico per eccellenza. Bisognava avere la chiave per aprire la porta giusta, per accedere ad un tesoro, alla salvezza oppure al mistero e all’improvviso, non sempre positivo e consolatorio.
E mi ritornano in mente le porte senza porta:la nascita, la morte ma anche la vita stessa, con tutte le sue vie, gli accessi e le uscite in cui porte invisibili sono comunque da attraversare, inconsapevoli sempre di quanto ci potrà capitare.
La vita come il teatro, dopo tutto, cosa sono se non una serie di entrate e di uscite? E anche la parola e la sua assenza, il silenzio, sono anch’esse porte che ci permettono di accedere ad un mondo sotterraneo o interiore, onirico o progettuale in cui ciò che si rappresenta è esso stesso porta, a sua volta, in una prospettività senza fine. Aperto o chiuso è il circuito elettrico, il sistema binario con cui si lavora al p.c., l’alba apre la porta al giorno e il tramonto lo chiude per aprire i battenti della notte. Terribili le porte dell’ascensore, che scende in un fittizio Ade nell’interrato di un palazzo e sale poi all’empireo del medesimo aprendo ai diversi piani di risalita le sue porte ma. Cosa accade se le porte non si aprono?
L’inferno si spalanca a qualsiasi altezza ci si trovi bloccati. Anche questo mi fa ripensare ai diversi casi della vita, alle situazioni in cui qualcuno crede di aver raggiunto vertici inarrivabili e si ritrova da un attimo all’altro con un pugno di cenere. In fondo è la stessa situazione delle favole, senza però avere un percorso obbligato verso una permanente felicità condivisa. E mi fa ritornare ai miti, agli eroi che scescero attraverso le porte degli inferi, il mitico Ploutonion o Plutonium per i romani. Da questa grotta, scoperta nel 2013 da archeologi italiani dell’università del Salento,a Hierapolis, antica città sacra della Frigia, in Turchia, continuano ad uscire gli stessi fumi tossici e Stradone, nelle sue cronache racconta stupito di avere comprovato che proprio lì ci si avviava verso gli Inferi, gettando una manciata di uccellini verso l’ingresso della grotta,e vedendo che questi subito dopo cadevano soffocati.
ploutonion o plutonium- Hierapolis- città sacra della Frigia- Turchia
In modo analogo, nel linguaggio dei sogni, dopo la prima porta da attraversare, quella del sonno, si accede al sogno, anche a costo di qualsiasi peripezia, in cui tutto è raggiungibile senza alcuna barriera salvo quelle che l’inconscio costruisce e che sono da attraversare per raggiungere il ventre, il centro dell’intimo, un vero labirinto senza porte, dove la porta è il percorso stesso che porta, appunto, ad un preciso luogo, e ci sono diverse fasi di sonno in cui i sogni avanzano oppure non se ne ha memoria. Trovo come Jung queste porte la più grande e accessibile meraviglia, la democrazia messa in atto, in cui ogni luogo si fa aperto e raggiungibile, vi si trovano chiavi e suggerimenti per aprire le tante altre porte del quotidiano scorrere, tra un vano e l’altro, nella vacuità del vivere che chiamiamo realtà ma è anch’essa sogno e porta.
Passare una porta è passare l’oltre, è passare da un mo(n)do ad un altro, è poter essere qui e là senza la dimensione che è il corpo, anch’esso di fatto porta strutturante e “portante”.
Carl Jung si serve della porta per dire che il sogno è l’elemento di passaggio più nascosto nel profondo di ciascuno di noi ed è anche il luogo più intimo, il recinto sacro dell’anima, attraverso cui si accede alla notte cosmica originaria di cui l’anima partecipa prima di qualsiasi trasformazione in un io conscio. Tutto il Libro rosso di Jung è di fatto una porta dentro un’altra fino a raggiungere, oltre il flusso di immagini che lo avevano spezzato, così dice lo stesso Jung, il Liber novus Jung . Mi piace pensare a quanto liber sia il libro o l’autore perché liber e novus si può affiancare sia al libro che al libero Jung fattosi nuovo per questa stessa libertà scaturita dall’attraversamento di una porta potente e terribile quale quella del sangue, che ci individualizza e ci collettivizza, come a dire in un uomo tutti gli altri e le loro sofferenze, le loro erranze, i loro universi.
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libro rosso-c.jung
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Nella storia del teatro greco l’introduzione della porta avviene ben oltre l’inizio della rappresentazione tragica (circa VI.sec.).
Ogni attività commerciale e gli scambi in generale, come ricorda con esattezza l’autore a cui faccio riferimento, A. Aronson, venivano svolti in quelle città all’aperto, dunque non c’era necessità di aprire e chiudere alcun accesso. Tutto era direttamente fruibile. L’esercizio commerciale o la discussione politica erano di fatto una costante apertura allo scambio. Tanto quanto avviene in un dia-logo in cui il passaggio tra due dialoganti avviene di fatto attraverso il linguaggio come porta che apre o chiude il dis (duplice, diverso) corso della parola (dis-corso). La porta portò due luoghi: il noto e l’ignoto. L’azione tragica, violenta, non viene mai proposta palesemente, ma visiva-mente attraverso una percezione sonora. Il dramma non si consuma mai in piena scena ma dietro una porta e questo acuisce la drammaticità dell’evento. Ciò che non si sa, che non si conosce, che non si vede, atterrisce molto di più di quanto è misurabile attraverso tutti i sensi e la mente.
Nel nostro tempo, ci ricorda ancora Aronson, Jim Morrison, leader del gruppo rock degli anni Sessanta The Doors, non a caso questo nome, diceva che: – Ci sono cose note e cose ignote, e in mezzo ci sono le porte . Il riferimento alle droghe e all’apertura, come estensione della visione sotto effetto di allucinogeni o altre droghe, ancora una volta ci fornisce una ulteriore ricerca dell’oltre , oltre la porta che si considera chiusura costruita come gabbia culturale, facendosi essa stessa altra gabbia di un cult a cui in molti si sono rivolti con effetti devastanti. Mentre le droghe portano alla teatralizzazione di un universo singolare individuale, la teatralizzazione di un racconto, sia esso commedia, dramma o tragedia, è in concreto, nella sua verità-virtuale una specie di sogno collettivo per la società che ne partecipa. È una porta in cui mente, e quindi esperienza, e anima, quindi sensibilità e fantasia, convogliano nel genere umano una visione epifanica di fatti altrimenti non messi a fuoco come parte di tutti. La creazione di un confine tra privato e individuale, o pubblico e collettivo in teatro diventa la porta a cui tutti possono accedere ad una condivisione del bene pro-mosso in scena, eliminando, paradossalmente, ogni tipo di confine. Non posso non ricordare un grande scrittore che, ancora giovanissima lessi affamata di scoprire appunto in quale modo si attraversa il confine invisibile già qui, non in sogno ma in uno stato di veglia che supera le barriere percettive. I libri a cui mi riferisco e che lessi sono tutti di Carlos Castaneda. A scuola dallo stregone, una via Yaqui alla Conoscenza, Una realtà separata e Viaggio a Ixtlan, scritti da Castaneda mentre frequentava ancora l’università, questi libri possono sembrare il diario delle sue ricerche in cui descrive l’apprendistato di un giovane che segue un vecchio sciamano Don Juan. Inizialmente acclamato per il percorso descritto in questi libri, con grande ampiezza di dettagli, fu poi oggetto di una accesissima critica, non solo contro il contenuto dei testi ma contro lui stesso.
Nei primi due libri Castaneda, descrive come la Via Yaqui per la conoscenza richieda l’uso di potenti piante indigene, come il Peyote e la Datura. Nel suo terzo libro, Viaggio ad Ixtlan, ribalta però la sua idea sul potere delle piante e afferma che Don Juan le ha usate su di lui proprio per fargli comprendere che le esperienze fatte fuori dalla vita vissuta nel quotidiano, quella dunque ordinaria e di noi tutti, sono certo reali, sono esperienze sì tangibili ma non sarebbero necessarie se la mente di chi le usa fosse stata per suo conto più fluida.
In Viaggio ad Ixtlan, il terzo libro, Castaneda scrive:
<< La mia percezione del mondo attraverso l’effetto di questi psicotropi è stata così bizzarra ed impressionante che io fui costretto ad assumere che questi stati erano la sola via di comunicazione e apprendimento di ciò che don Juan stava cercando di insegnarmi. Questo assunto era erroneo. >>
In seguito arriva addirittura a negare di aver utilizzato droghe per raggiungre i suoi obiettivi di conoscenza e afferma che le droghe di cui ha parlato possono irrimedibilmente danneggiare la sfera luminosa che emana spontanea il nostro corpo energetico, alla pari del corpo fisico.
Scrittore e antropologo peruviano è stato una delle figure più enigmatiche del nostro tempo. Partito negli anni sessanta alla volta del Messico, s’imbattè in un indio yaqui, Juan Matus (don Juan), grande sciamano che gli rivela una nuova dimensione. ” Affascinato da questa personalità carismatica, Castaneda abbandona gli schemi occidentali e si addentra nei meandri di una complessa arte magico-esoterica. Da questa esperienza totalizzante sono nati i suoi libri, divenuti famosi in tutto il mondo, in particolare Il dono dell’aquila.
Sullo sfondo del paesaggio allucinato dell’arido altopiano del Messico, tra le antiche rovine delle civiltà autoctone più remote, Castaneda raggiunge il più alto dei poteri magici, il dono dell’aquila, la libertà. Privo di ogni tipo di condizionamento, diventa nagual, energia cosmica pura.
<< La mia mente era in un particolare stato di euforia. Incominciai a raccontare quello che avevo visto… giungere all’involucro luminoso… la totalità del nostro essere. Quello che sto per descrivere è un mondo estraneo al nostro; solo per questo sembra irreale. >>
In L’isola del Tonal, troviamo invece l’autore sul punto di saltare da un picco in un abisso, segnando così il suo passaggio da discepolo a uomo di conoscenza in quanto, invece di “morire” come avrebbe dovuto “sfracellandosi” sulle rocce, riesce a suo avviso “in qualche modo” a sopravvivere, appunto però “trasformato”. Anche se, di fatto, non superiamo questa porta, la pagina del libro resta ferma in quell’immagine e non vediamo il fondo, non arriviamo mai a saperne di più.Quindi di fatto ancora una volta una porta, anche se di carta, viene chiusa. Il lato attivo dell’infinito, è infine l’opera in cui Carlos Castaneda racconta di eventi straordinari della sua esistenza che lo hanno segnato per sempre. Scrive Casteneda:
«Questo libro è una raccolta di eventi memorabili della mia esistenza. Li ho riuniti seguendo le indicazioni di don Juan Matus, uno Sciamano indiano Yaqui originario del Messico, un maestro che per tredici anni ha cercato di rendermi accessibile l’universo conoscitivo degli Sciamani che vivevano nell’antico Messico. Egli mi suggerì di procedere a tale raccolta come se si fosse trattato di un’idea del tutto casuale, qualcosa che gli era venuto in mente all’improvviso.
Il suo stile di insegnamento era proprio questo: don Juan celava l’importanza delle sue manovre dietro un aspetto più terreno, e nascondeva l’importanza del suo obiettivo, presentandola come qualcosa di simile alle faccende della vita quotidiana.
Con il passare del tempo don Juan mi rivelò che gli Sciamani dell’antico Messico avevano concepito questa raccolta di fatti memorabili come una sorta di accorgimento bona fide per scuotere le tracce di energia che esistono all’interno del sé.
Essi ritenevano che tale energia avesse origine nel corpo e venisse poi spostata, allontanata e spinta fuori dal suo campo d’azione dalle circostanze della vita quotidiana.»
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il serpente cosmico, il dna e le origini della conoscenza
Ricordo che molti anni fa dissi ad una mia allieva del corso di scenografia, che più tardi diventò anche assistente di Ronconi, che il teatro è proprio il gioco per eccellenza dell’essere e del non essere, del vedere e del non vedere, ri-velati da un ruolo e da quel nascondimento che ci palesa, di fatto, alla pari di quanto avviene nel gioco che si fa con i bambini piccolissimi: il gioco del “bu-bu-sette-te”. Addirittura le appioppai quel soprannome che, a distanza di molti anni, usa nei suoi scambi internettiani. Anche in quelli il gioco e la teatralizzazione del gioco del nascondersi o palesarsi, per nascondersi ancora, è proprio la messa in atto dello stesso gioco infantile, dimostrando che, di fatto, non cresciamo mai oppure, trattando di porte, non vogliamo mai attraversare certe porte e preferiamo restare nascosti dietro alcune, che poi siamo noi stessi. Anche il salire sul palcoscenico, attraversare il sipario, di fatto significa innalzarne altri, che solo noi vediamo e opponiamo agli altri con le maschere, porte anch’esse, che non tra-ducono chi siamo, ma ci permettono di usare un trucco. Il nostro oltre, intimo, profondo, resta segreto, è l’oltre dietro la porta chiusa in cui stanno insieme la possibilità di piacere e la paura dell’ignoto, la paura di essere respinti, della perdita di potere, di essere simbolo di qualcosa, di partecipare al mito.
Dalla prima porta usata su un palcoscenico greco, circa nel 460 a.C., per tutto l’arco dello sviluppo del teatro e della messa in scena delle maggiori opere letterarie la porta assume un ruolo portante nella struttura della teatralizzazione, del racconto di una storia. Eschilo, con la sua Orestea, 458 a.C., cambia radicalmente l’impianto dell’opera, non solo quello scenico e quello del rapporto tra opera, attori e pubblico. Ibsen, Čekhov, Kafka e tutti gli altri commediografi e drammaturghi fino ai nostri giorni non hanno fatto che seguire e ampliare quei nuovi canoni.
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teatro di dioniso-atene
teatro eraclea minoa-sicilia
Nel teatro di Dioniso, inizio del V secolo a.C., costruito sul fianco dell’Acropoli, mancano tutte le strutture specifiche che per noi sono l’emblema stesso del teatro. Tutto avviene allo scoperto: da una parte panche di legno praticamente conficcate nel pendio del monte, sotto il Partenone, dall’altra, e fuoco della loro prospettiva, una piana come un terrazzamento, l’orchestra, dove gli attori e il coro vanno in scena. A completare questo paesaggio un ulteriore elemento: l’altare, perché dietro l’orchestra sorge il tempio dedicato a Dioniso, oltre il quale solo la campagna è il fondale dell’aperta scena. L’anfiteatro greco porta i semi del divino , non solo per la presenza dell’altare ma anche e soprattutto attraverso il tempo e gli elementi che lo configurano: gli astri, partecipi della scena, primo il sole e poi le stelle, la luna, partecipi tutti di una specifica ragion d’essere in scena. Mai come allora si sente con violenza la passione dell’eros e una carica panica tracimante che fa sentire di essere non oltre la scena ma dentro una sola opera che vive, senza soffrire alcuna recita. Oggi, nel moderno teatro, o nei cinematografi in cui sediamo nell’oscurità , inconsapevoli di quanto avviene fuori dalle porte d’ingresso, attraversate in un tempo parallelo ma di cui siamo in questo intervallo inconsapevoli, lanciati nel tempo dell’opera a cui si assiste, scrutando dentro una specie di scatola, illuminata artificialmente, viviamo false storie in cui il luogo abitato è dimenticato e rivissuto nell’artificio di un disegno o di una proiezione, morto dunque, mentre gli antichi Greci, nei loro anfiteatri erano completamente immersi nel paesaggio, in cui il mare o la foresta, o entrambi, erano il sontuoso e magistrale sfondo, infinito che veniva loro incontro in cui le storie della mitologia davano loro modo di rivedere la propria origine, e la mutazione dentro quella stessa sorgente, la loro comune storia, consapevoli sempre di essere parte viva di quel sacro, quindi vuoto per eccellenza, che era il centro dell’universo.
teatro olimpico- andrea palladio- vicenza
ho molto apprezzato questo tuo scritto: le porte sono un elemento molto suggestivo. Mi è venuta in mente la Porta di Duchamp, una porta che – posta all’angolo tra due aperture – apre e chiude, immette e preclude,nello stesso tempo, cosa che ogni porta in effetti fa.
E riguardo al teatro greco e ai nostri cinema e teatri, è proprio così: dal romanticismo in poi sembra che la notte abbia iniziato ad assumere quella valenza magico-sacrale che il mondo diurno ha perso: fagocitata la natura, solo la notte ci restituisce il senso dell’ignoto e della paura e del coraggio. E il buio del cinema ci concede di ritornare a quella condizione infantile di libero abbandono al fluire delle storie, alle paure che ci incutono, consapevoli comunque che esiste una protezione.
Abbiamo illuminato le notti, con tutti i nostri lampioni, e abbiamo spento i nostri giorni all’interno di aule e uffici e case, casette condomini, prigioni.
Grazie Adriana della tua lettura e del tuo punto di vista. Ho corretto i diffusi sparsi errori di battitura e le parti “sperse” che ogni tanto mi ritrovo sotto gli occhi quando leggo a distanza di tempo. (anche la distanza una porta?)
Considerata la mia preparazione professionale e il mio percorso di studi, la porta è un elemento basilare e questo in tutto il suo arco di sviluppo e trasformazione storico, oltre che metaforico e letterario. Noi siamo porte vive, che lasciano, come tu sottolinei, fluire attraverso tutto il corpo il corpo dell’universo, peccato non ce ne si renda conto e si rimanga chiusi in piccole gabbiette quali quelle che ci precludono sguardo e respiro, vastissimi. Scrissi qualcosa, anni fa, ma chissà dove sarà finito, sul cinema di Anghelopoulos relativamente alla messa in scena del tempo attraverso la ripresa continua, come se la scena fosse la scatola in cui tutto passa e poi ci si ritrova là dove si era partiti senza aver mai staccato la ripresa. Fossimo capaci di farlo con la vita! Grazie ancora.
ferni
cara Fernanda, così tante suggestioni! Ti ringrazio molto per questo articolo.
“La porta porta un carico che poggia sul vuoto” : questa osservazione, apparentemente quasi banale, mi ha insinuato molti pensieri. Echi. Sei generosa.
sì, sembra banale ma è il vuoto il fulcro, il centro del nodo in cui si eseguono gli equilibri, anche nello studio delle forze.