Riparto da qui e ripercorro le vie, gli incroci …- Riflessioni di Fernanda Ferraresso

carlo ravaioli- la sesta terra- città dell’anima 

carlo ravaioli-la sesta terra- città dell'anima.

L’articolo a cui faccio riferimento si trova in rete qui, http://daseyn.blogspot.it/2015/05/parole-di-riferimento.html, un blog in cui spesso passo per gli appunti che propone all’attenzione, sempre  mirati  a lasciare una domanda in chi legge, penso,  ma anche in chi solo passa e guarda…(s)correndo.

Riparto da quelle parole, Parole di riferimento, e ripercorro le vie, gli incroci e le croci di uno sguardo sempre più offuscato, in cui le parole architettoniche e urbane, hanno perso le loro storiche voci, le loro con-sonanti voci umane,  perse entrambi in parole di mercato, in false tras-parenze che appaiono come specchi ma non ci rispecchiano affatto, soprattutto quella loro apparenza non è fulcro di parentela ma di un mettere in vetrina ciò che di fatto resta celato e oscuro, pronto a colpire spiando, ogni cosa e tutti, non visto.
Scrive Calvino nel suo  famosissimo Le città invisibili, nella presentazione di Marco Polo al grande Kan di una delle città che appartengono al ciclo delle città e il desiderio.

<< Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello d’un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per un’altra, diventata come oggi la vediamo. In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual’era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro. Fedora ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo: ogni abitante lo visita, sceglie la città che corrisponde ai suoi desideri, la contempla immaginando […]
Nella mappa del tuo impero, o grande Kan, devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nelle sfere di vetro. Non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte. L’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più.>>

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In Parole di riferimento, nel sito sopra citato, il cuore, con un intorno di fotografie che riguardano l’attuale urbanesimo metropolitano, riporta il seguente dialogo.

“Dialogo udito sull’autobus

<<A- Non puoi dire che X sia una bella città. Va bene il centro, ma appena fuori le strade fanno schifo, le case di periferia saranno anche caratteristiche ma sono solo tristi, per me.
B-  E chi ha detto che una città è fatta di edifici e strade? Una città è fatta di luoghi e tragitti, sì, ma questi non corrispondono per forza alle categorie di cui sopra.
A- Non sto parlando dal punto di vista sociale, capisco che a uno possa piacere la città che gli offre lavoro o studio… Parlo del punto di vista architettonico. Se una città non è fatta di edifici e strade, di cosa è fatta?
B- Io quando vedo una città per la prima volta mi imprimo nella mente dei punti di riferimento, e quelli più facili da ricordare sono le insegne, le parole scritte, i graffiti e le pubblicità. Ci sono delle insegne che diventano simboli e punti di riferimento al punto che nessuno si chiede più il loro significato originale: basta riconoscerne i caratteri, la grafica, i colori.
A- E tu dici che quello che ti piace di X sono le insegne e i graffiti? Vuoi fare l’originale.
B- Se prendi una città dal punto di vista architettonico, la prendi dal punto di vista spaziale e visivo, non puoi tralasciare nulla. Quindi le insegne non le puoi ignorare e secondo me alcune scritte hanno caratterizzato tanto la città da essere architettura.>>

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Personalmente, anni fa, scrissi una sintesi dopo aver a lungo lavorato con i miei studenti relativamente alla riprogettazione architettonica di uno spazio urbano centrale nella città dove risiedeva  l’istituto in cui insegnavo allora. Il testo mette insieme, o tenta di farlo, il proprio corpo e quello della città, di cui esso vive e in cui abita, cercando di mostrare come la sintesi dell’una s’incorpori in quella dell’altro senza possibilità di fuga e come del resto ha fatto magistralmente vedere e sentire Calvino, in ogni sua città, perché l’uno innesca l’altro, corpi dello stesso luogo, questo spazio che si moltiplica e ci con- forma, con-figura un corpo come l’atlante dei segni omessi, segni in cui l’uomo invece che riconoscere la sua vita e la memoria di tutta la vita che in esso è collocata, come uomo continuo, non semplicemente individuo-isolato, riconosce ormai un mercato acquartieratosi intima-mente attraverso uno sfavillio abbacinante e frastordente di cose,  inutili,  vani del vacuo che ci distrugge ogni giorno un mappario di vie che, un tempo, ci portavano nel centro di noi stessi: all’interno dell’incontro, della relazione con l’altro. Per questo scrissi quanto si legge di seguito.

<< Il corpo è un abito abitabile. E’ una casa organizzata. Il corpo è una città che si moltiplica in periferie e centri, in sobborghi di-messi e radure, paesaggi con ferro-via e altari, angoli ortogonali e fughe prospettiche. Il corpo è il sensibile agri-men-so-re che guarda e sta di guardia a se stesso senza sapere i suoi confini, solo costruendo l’illusione di saperlo , di questo con-vincendosi. Il corpo chiede una casa e un dominio e resta domi-nato, nasce nuovo ad ogni matto-ne che s’incastra nell’acciaio dei suoi tendini e dei suoi sogni, plasticamente crede a tutti i credi osannandone uno solo e ne dist-rugge uno dopo l’altro. Il corpo sa che è il corpo a creare idoli e gli altari ma ci crede, così pro-fonda-mente che lo dimentica e crea il gioco dei giochi il-ludendo la regina in-visibile col suo giogo. Mette la mente dentro un lab-oratorio e quello e-legge a para-d’osso. In-ven(t)a la lettura e là de-cifra i suoi zeri. Il corpo tesse e ritessera se stesso in viali e lunghe isole di pe-doni in scacchi-ere di tanti secoli, formula magie dai sogni sognando olt-re se stesso. Il corpo non vede che il suo sogno attraverso il segno ri-versato nell’il-lusione. Si, sogna spesso e capita che non si veda se non attraverso questo segnarsi. Il corpo è l’Amazzonia, una foresta pluviale d’acque iride-sc(i)enti, una foresta di fiati che s’impiantano nel pneuma, com-premendo i respiri al mantice del cuore, una turbopompa che intuba l’ossigeno nel fluido scorrere della solidità di un corpo insieme al pulviscolo del creato. Ad ogni passo sollevato in questo pianeta, infestato di miliardi di stelle cadute e batteri in colonie invisibili di caos, noi diciamo che stiamo solo camminando per una via della città, o in mezzo ai filari di vite. Il corpo è sba-dato e va ri-con-segnato usato, senza sapere qual è l’arma-d’io in cui rip-orlo al limite di questo stato in luogo.>>

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doris salcedo- accion de duelo- The installation Acción de Duelo was a space created for thought and for remembrance. It was an invitation to shift our routine in a different direction outside of our own habits, heads, and comfort zones. It was an invitation to stop feeling powerless and busy and actually do something within our reach to manifest support, defiance, and sadness. All of us who were present there that evening had experienced violence in different ways and we all mourned accordingly.
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Sempre Calvino, ne Le città invisibili,  disegna Ottavia, città in cui vedo il contemporaneo, dove il cuore della città, come quello umano, come il centro del pensiero stesso, di questa attuale società e della sua configurazione sociale e politica è ormai un profondissimo  precipizio o, se si preferisce, un ingoiatoio di vite.

fernanda ferraresso

2 Comments

  1. Un ingoiatoio di vite, si.
    Per assurdo, ma anche no….le persone stavano “più vicine” nelle campagne nonostante le distanze tra casa e casa…che in città nello stesso pianerottolo.
    Il cuore della città ha un battito accelerato, una paura incredibile: nemmeno i quartieri\ventricoli riescono più a contenerne il rumoroso\silenzio.

    1. infatti, per me che ho vissuto quel tempo, la ruralità, la rusticità non significava disumanità e indifferenza ma partecipazione, aiuto, vicinanza, condivisione.

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