leonardo da vinci- disegni
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“La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede. Adunque queste due poesie, o vuoi dire due pitture, hanno scambiati i sensi, per i quali esse dovrebbero penetrare all’intelletto.
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Leonardo da Vinci
da Trattato della Pittura- Parte Prima- Differenza che ha la pittura con la poesia– XVI sec.
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leonardo da vinci- disegni
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Più che in precedenza, la disciplina che da anni m’in-segna, e che cerco di trasmigrare nei ragazzi, mi mette nelle condizioni di pormi domande, molte domande e in quelle trovare le tracce delle nostre “visioni”, delle illusioni su cui poggiamo le nostre “realtà”. Penso ai disegni e mi domando: – Il disegno è un lusso? E’ la parte superflua delle cose? Di tutte le cose e dei corpi, a cui crediamo di riconoscere la necessità di dedicare un tempo specifico per la creazione di elementi estetici? C’è necessità di una “superficie” come uno degli aspetti fondamentali della vita quotidiana e possiamo considerarlo realmente “essenziale”?-
Tutti, oggi, siamo centrati sulla vista, più che sull’ascolto. Anche la musica soffre di un apparato che è la messa in scena, si vede un video, uno spettacolo e si raccoglie della musica l’immagine suggerita o ispirata dalle immagini, disegni animati da …Da cosa? Quale volontà sta dietro? E c’è davvero una volontà? Nella società odierna la decorazione è diventata taglio di un messaggio ma anche crosta, l’ornamento persiste e copre, dissolve, spoglia ciò che sotto si nasconde, sempre più lontano. Non c’è più l’uomo o la donna ma una parvenza, la larva mai nata di una persona.Eppure ci sono disegni in cui il segno racchiude nel suo guscio grafico quanto appunto si vorrebbe celare, ciò da cui si vorrebbe distogliere lo sguardo per appuntarlo su una qualsiasi superficie, il più lontano possibile dalla propria realtà, oscurata.
Disegno: mi piace leggerlo come “di sé segno”, o il doppio segno dentro cui stiamo, siamo cioè una modalità secondo cui accogliere l’ambiguo, l’altro, ciò che fa scattare il dubbio, relativamente a qualsiasi condizione in cui si proponga l’essere e ci mantiene svegli, in veglia, attenti, vivi insomma. Il disegno è una “pro-cessione” di proiezioni dentro uno sguardo, che è lancia di salvataggio di tutto quanto la luce porta come un dardo e l’ombra smista, porge, sottolinea, evidenzia, come un supporto su cui troviamo appoggio al nostro andare senza, di fatto, sapere nulla. Lavorare, elaborare le proiezioni, significa guardare il tra, che è il quadro in cui disegniamo noi stessi, il luogo sezione dell’altro, quell’immenso che ci mette allo sbaraglio, ci sbanda, ci disassa e dis-articola in tutto ciò che balbettiamo appena, credendo di sé-lezionare, dandoci lezioni sulle impronte, abili “labilità” che sempre si dissolvono e sfuggono,dissolvendo la nostra in-consistenza, su cui è impossibile eseguire fondazioni continue, tutto è un oggetto visivo, un reticolo interattivo che è un mas-sacro di inter-sezioni, messaggi tra messaggi, interferenze che sgomitano per sgomitolare ancora una volta una proiezione, tra coordinate che sono sempre relative, mai assolute.
Eppure c’è, nella fantasia di un bambino, una fonte di creatività che non può essere trascurata. A nulla dovrebbero servire le convenzioni-convinzioni sociali se il ritmo con cui viviamo, il passare del tempo di cui ci lasciamo fare preda, ci fanno perdere molte delle essenzialità che prima, da bambini, avevamo sentito, raccolto, disegnato. Dopo tutto si slitta sulla neve e altra neve cade facendoci perdere i segni e i sensi, i segnali di quell’altrove che il bambino aveva invece ascoltato e quindi visto, senza essere una copia di un falso vero. Da adulti si è così occupati a pensare la realtà, a farne una che ci permetta di vivere tra le altre tante sbarre costruite intorno e soprattutto dentro, che raramente si ha la possibilità di liberare la mente tanto quanto riesce facile ad un bambino, che appunto libera i suoi pensieri. Eppure la tragedia di oggi è che nemmeno i bambini sono più liberi. Lo sviluppo tecnologico imprigiona i bambini in moduli, modelli in cui assemblano solo i fantasmi altrui e i propri corpi morti. Nei bambini l’uso e l’accesso alla tecnologia non offre la comprensione del mezzo che stanno usando e ne restano a tal punto sedotti, sé-viziati, da perdere la parte migliore di ciò che sono. Tutte le informazioni nel palmo della mano e l’incapacità di smistare, vedere dentro quelle immagini, disconoscerne la formulazione, la materia che le arti-cola facendone alla fine materia avulsa dalla vita che non è cosa, formato di una cosa, segno e limite di un essere ma un misterioso movimento di relazioni che si fanno cammin facendo, letteralmente facendo un cammino, il proprio e all’interno e attraverso di questo non conoscere io–esso, l’avere, ma io e tu, l’essere, come ben scrive Buber. Dove c’è un oggetto ci sono confini, quei confini appartengono al mondo dell’esso. Il mondo del tu non è confinato entro dei limiti, non ha oggetti da es-per-ire o da utilizzare, ma sta nella relazione.
fernanda ferraresso
Condivido pienamente queste tue riflessioni. Grazie.
Grazie. f
Grazie, cara Fernanda, del tuo magnifico intervento, e un rinnovato, grande augurio per il tuo odierno compleanno.
Un amichevole saluto da Mariella
Grazie Mariella carissima, grazie per la lettura e per gli auguri, graditissimi. Ti abbraccio, ferni
Condivido il tuo pensiero e aggiungerei che forse la coperta dei fantasmi, delle riproduzioni virtuali, la finta oggettività della realtà trasmessa dai media, non impediscono solo la costruzione di una relazione con il tu , il riconoscimento, ma, pensandoci ora sollecitata dalle tue parole e cercando di entrare in questa proposta di ragionamento, impediscono anche la costruzione dell’esso, di un’alterità che ha confini e che non ci consente la relazione: con il mistero. La confusività della riproduzione di un mondo tanto piccolo da stare in una mano, l’illusione protratta dell’onnipotenza, di un’immagine di sè che può permeare, farsi centro, sfociano poi in una dilagante indifferenza, in un disconoscimento della dimensione umana, della misura del passo, del gesto, della distanza della voce. Tutto è vero e tutto è falso, quel che conta è divenuto l’essere continuamente nell’immagine del mondo che teniamo in pugno. Diveniamo fantasmi che contemplano un mondo ormai non più loro: vagano senza più possibilità di incidere, di ferire realmente, di scegliere la direzione. Se la tecnica può, allora sarà; non se l’uomo possa dominare questo futuro, ma se la tecnica lo potrà e , naturalmente, i detentori del potere tecnico.: questa sembra ormai la questione. Ci impianteranno le immagini del mondo nella testa e noi saremo terminali.
Ma altro, Fernanda, sono le immagini disegno, direi di-segno opposto e mi pare tu lo abbia ben delineato. Cartesensibili, per me, è sempre un invito al pensiero nutrito dai diversi segni.
Hai sollevato un grosso problema che, a mio avviso, mette in crisi tutto il sistema della percezione, del mondo e di sé, naturalmente, e questo implica la condizione in cui quella percezione di volta in volta viene fatta, sotto quali pressioni ed es-pressioni la elaboriamo e/o la subiamo.Argomento affatto semplice perché implica sfere dell’etica e dentro questa tutto ciò che contribuisce a costruirla.Niente è innato ma in-nato da una es-tensione verso l’altro, che poi resta comunque una immagine, proiezione di sé.Altro non possiamo esperire, la relatività della misura e della visione si amplifica e si può modificare (il modo portato è un artificio?) nel tempo e nello spazio vissuto e abitato.
Grazie per le tue estensioni di riflessione. ferni
un ultimo piccolo spunto, anche per me naturalmente, per continuare a interrogarmi: certo vediamo il mondo dei nostri sensi, lo elaboriamo attraverso i nostri strumenti di conoscenza, ma l’albero che vediamo sulla mano è una riduzione tecnologica e noi ormai, e soprattutto i bambini, elaborano attraverso la vista quella che immaginano sia la realtà e invece è solo simulacro della realtà. Dove ci porterà? Il mendicante all’angolo della strada sembra inesistente, mentre le immagini del Nepal sono visibili, ma sterilizzate da quella mancanza del “tu” cui facevi riferimento. Gli altri noi sono pure immagini, pesci in un acquario. Non mancano teorizzazioni su tutto ciò, pensieri importanti, ma non riusciamo a immaginare prospettive.
Coltiviamo i disegni, Fernanda.
ecco, è proprio questo, non coltiviamo le utopie, le uniche , proprio perché irraggiungibili, che riuscirebbero a non farci restare in uno stallo pericoloso in ogni percorso. Serve uno sguardo lungo, che oltrepassi l’attimo che ognuno è e raggiunga il noi in cui ogni tu è ciascuno di noi, non fossilizzatosi nell’esso.