neil moore
.
tu sei colui che scrive ed è scritto
Edmond Jabès- Il libro delle interrogazioni
.
E’ come entrare in galleria, nella pancia di una montagna che sembra non avere fine, in cui si perde origine e fine, l’entrata e l’uscita. Dopo averla percorsa in “auto”, tutte le regole, le lezioni e i fondamenti, che ci sono stati impartiti, si decide di invertire la marcia e di percorrerla all’indietro, per andare avanti. E’ come rovesciare la testa per toccarsi i piedi e. Riform(ula)rsi. Uso la parola ri-formulare proprio perché ci sono numerose formule, che sono diventate forme, di conoscienza, all’interno del percorso. Non si abbattono muri, piuttosto si guarda in ogni direzione della galleria, tutti i cavedi e le vie di fuga o di aereazione e si sceglie di percorrere la direzione primaria, a piedi, toccando il suolo e scoprendo che questo è l’utero del grande ventre in cui maschio o femmina sono l’incompiuto che cerca di compiersi, spesso disperatamente o dis-parata-mente. A volte sembra che l’orizzontalità del percorso si faccia verticalità, verso il basso o l’alto,la direzione è una, solo il verso cambia ma tutto è relativo ad altro, nella percorrenza di un pozzo o di un precipizio. Ma non c’è, nel precipizio, nessuna prece, nessun perdono, come solitamente fanno le madri, pur non mancando un senso d’amore che vorrebbe espandersi ma riconficca il bulbo dell’occhio, che guarda dentro la terra, una germinazione che trova appunto i germi, la virulenza del virus e del verme che si propaga in un corpo morto in ogni sezionata parte del corpo mondo. E… Mi pare di sentire in lontananza una voce, sempre la stessa:- …lasciate che i morti seppelliscano i morti– colpendo la fonte stessa della bellezza che pur si vede con nitida chiarezza. E’ il compimento, che qui si va cercando ad ogni passo, in cui il corpo si disgrega senza volersi fare gregario nemmeno a se stesso, e che ogni volta è un concepirsi nella comprensione dell’accadimento e non ha importanza la sessualità come fatto fondante ma la capacità di trasformarsi e ricostituirsi attraverso un gesto forte, spesso una cesura, un taglio, profondo, nell’essere che ne resta sezionato.
Agile la scrittura conosce e mostra tutti i suoi canoni, tutte le legende e i cartigli, i carteggi che attraverso la storia hanno raggiunto la nostra quotidianità, spesso perdendo il loro smalto, spesso restando incompresi dai più.
Non a caso, penso, si utilizza la scrittura e la figura di una mistica di grande rilievo ma anche di particolare natura. Ildegarda di Bingen non è solo una mistica ma una donna che ha saputo abilmente vivere in un mondo di uomini che tenevano, trattenevano, nelle loro mani la gestione di ogni potere. Lei è la prova tangibile che quel potere si conquista con le sue stesse armi e con la seduzione della parola. Ildegarda ha fatto ingresso in convento da bambina, ultima di dieci fratelli, cagionevole di natura e visionaria. Le attività che svolse, all’interno delle mura conventuali, sono state molte: scrittrice, drammaturga, poetessa, compositrice di musica ma anche filosofa, linguista, e gli studi intrapresi e svolti nell’ambito della cosmologia, oltre alle sue attività di naturalista e guaritrice, l’essere riuscita ad essere consigliera politica e addirittura profetessa la dicono lunga sulle sue abilità di lettura dell’animo umano, maschile, e delle leve su cui agire per non essere trasformata da badessa e religiosa di alto rango in eretica. E’ una studiosa raffinata e una lettrice mai sazia che sa trasformare se stessa, ma non la sua natura profonda, attraverso “abiti”, costumi mentali, all’occorenza diversi, per raggiungere gli obiettivi che vuole ed è riuscita a diffondere, attraverso un acume sottile, tattile, intuitivo, non solo logico e raziocinante. Ildegarda fu spesso in contrasto con il clero della Chiesa cattolica, tuttavia, riuscì a ribaltare il concetto monastico che fino ad allora era rimasto inamovibile a favore di una vita di predicazione verso l’esterno da opporre all’altra tradizionale che prevedeva una vita di clausura. Fu controcorrente e anticonformista, fu lei a comprendere, attraverso studi attenti e una lungimiranza che implica uno sguardo nelle tenebre che ci compongono, la concatenzaione tra ben-essere e malattia, gli equilibri tra natura esterna e interiorità. Il suo Libro delle cause e dei rimedi, o Libro delle medicine composte, lo dimostra con ampiezza, come anche la musica che compone e usa come medicamento delle zone più nascoste e segrete della natura umana, da mettere appunto in risonanza con i suoni, che creano in noi vibrazioni, lenitivi e vitali e le stelle.Tutto è in connessione per Ildegarda, nulla è scomponibile, separabile. La sua libreria é la via della composizione della libertà profonda, che fonda nel silenzio del suo “assentarsi-assestarsi” in se stessa.
Ogni movimento del libro di Pivanti, che si fonda sul numero sei, sembra voler attingere dalle radici delle diverse linfe dell’arte e i testi che spesso rievocano i nomi dei personaggi a lui cari sembrano dimostrare la ricerca e la produzione di una cura in cui gli insegnamenti di Ildegarda sono struttura, fino a comporre il palindromo 66, chiudendo in sé un’alchimia che non si palesa immediatamente, procede per quadri e quadrature in cui sembra che sfere ruotino su se stesse, nei vertici delle nostre nefandezze o delle bellezze a cui non sappiamo dare, con la dovuta consapevolezza, il risalto che meritano e dando a noi la possibilità di trasmigrare in quel salto di vertigine ad uno sguardo più ampio e rassicurante.
Poichè la qabbaláh, kabbalah o cabbala parla e si esprime attraverso i numeri, sono andata a ricercare il numero 6, che in questo libro risulta matrice ed anche es-pressione (sei, tu sei: come se chi parlasse si guardasse da un fuori e si vedesse, appena distaccato da quel corpo che non vede abitandolo ma percepisce al momento in cui sta per abbandonarlo)
Si trova quindi che questo numero è ricco di significati, dato dal prodotto di 3 x 2 . Il sei si ritrova nella stella di Davide ed è la struttura portante dell’esagono regolare, che è l’ultimo poligono in grado di riempire un piano. In astronomia è il sesto pianeta, il pianeta Giove, il pianeta più grande del sistema solare, associato alla divinità più forte del panteon greco-romano.Ciò che colpisce è anche la relazione, nella tavola periodica, del sei con il sesto atomo che, per Mendeleev, è quello che individua il carbonio, base di tutta la chimica degli organismi viventi.
Inoltre sei sono le facce del cubo, uno dei solidi perfetti, simbolo della terra, ma anche forma più comune delle gabbie, le cui sei facce impediscono a chi è dentro di fuggire, bloccando tutti i sei versi di spostamento nello spazio.
Nella cabala ebraica il numero 6 corrisponde alla lettera vav, o anche waw (la lettera V,W dell’alfabeto latino), e rappresenta completezza, redenzione, trasformazione.
Proprio come ci aveva annunciato l’immagine, in cui dal taglio delle bende sarà visibile qualcosa, qualcosa però a cui noi non partecipiamo ma possiamo solo ipotizzare.
L’immagine ancora una volta mi riporta alla mistica Ildegarda. Erano infatti solite, le monache, bendarsi il corpo, per non mostrare gli attributi femminili, i seni, mentre l’ampiezza della veste contribuiva ad aumentare l’ impossibilità di leggere la forma del corpo.
La vestizione, nelle monache di clausura, non era condivisa, nemmeno la spogliazione del corpo se non al momento della morte, quando nel rito delle abluzioni, si preparava la defunta per la sepoltura. Nell’immagine, su cui torno ancora, il corpo non è morto. Non lo si vede completamente, solo la parte della testa, reclinata in senso opposto a quello delle gambe, non viste se non per un brevissmo tratto, allontanandosi prospetticamente verso l’alto, verso il chirurgo che opera il taglio delle bende, mentre il capo, abbandonato e senza sguardo se non verso se stesso, all’interno, o assente, essendo le palpebre chiuse, è completamente visibile ma, ancora una volta non fornisce alcun elemento interpretabile. Le mani, e dunque il gesto, il fare, ci dice, anche se impercettibilmente, qualcosa sullo stato di quella forma, appoggiata ad uno strano tavolo operatorio. Stesso colore del telo, verde, identico al camice del chirurgo che indossa i guanti per tagliare le fasce che ricoprono la parte del corpo che indicherebbe con chiarezza qualcosa sul sesso, o sul tipo di intervento subito dal corpo non esposto, ancora imbozzolato, avvolto nelle garze.
L’impercettibile ma visibile tensione delle mani sul telo verde fa comprendere che la persona è sveglia, è rilassata, ma vigile, in attesa che qualcosa che lei conosce avvenga, accada, sotto lo sguardo vigile del chirurgo. Alla fine dunque, tutti noi che guardiamo, siamo esclusi da qualsiasi comprensione dell’evento che sta vivendo, la comprensione profonda intendo, tanto quanto avviene nel testo di Pivanti che, pur mostrando molto del cammino che compie, delle diverse sezioni che effettua, in realtà cela la profonda trasfigurazione che in sé vive, più come accade nei quadri di Friedrich. Qui, nel testo, le epifanie, che sono una lunga serie di passaggi, ben esposti e disposti nella sequenza voluta dal chirurgo, o dal demiurgo, a cui sembra avvicinarsi Pivanti, ricostruiscono e ripercorrono tutti i miti di cui ci siamo nutriti e ancora vorremmo allettarci senza comprensione però, delle profondità insite in tale memoria della simbologia collettiva mentre colui il quale è l’artefice dell’opera non mostra l’acqua del segreto, del suo segreto profondo.
Il demiurgo è infatti la figura filosofica e al tempo stesso mitologica, un essere divino, come noi tutti siamo e ben lo ha espresso la mistica che Pivanti usa nei suoi passaggi di ma-ter-nan-za (ritornerò più tardi a questa definizione e alla sua particolare composizione). E’ una figura che per primo descrisse Platone, nel Timeo. Il termine greco da lui usato è δημιουργός (dēmiurgòs), composto da “δήμιος” (dèmios), cioè “del popolo”, ed “ἔργον” (èrgon), “lavoratore”, quindi lavoratore pubblico o compositamente artigiano. Proprio come fu Ildegarda e come cerca, in questo percorso di de-costruzione, di fare Pivanti.
Mi fermo un istante sulla figura del demiurgo, perché senza di esso «è impossibile che ogni cosa abbia nascimento». Pur non essendo argomentata razionalmente, viene introdotta come ipotesi cosmologica, e porta con sé, in sé, la verosimiglianza. Per Platone si tratta di un mito, di cui si serve per descrivere attraverso una narrazione che sfrutta l’intuitività, più che un rigoroso percorso dimostrativo, un aspetto del pensiero difficile da dire e anche da comprendere.
Il demiurgo, «artefice e padre dell’universo», è una forza ordinatrice, imitatrice, plasmatrice, che trasforma e forma, ma non crea. E in questo si avvicina alla dottrina cristiana ortodossa che vede in ogni uomo, e nella sua somiglianza, al divino, la capacità di creare e in qualche misura vivificare la materia, dandole forma e ordine, e la rende anima del cosmo, proprio come pensava Platone.
L’albero delle Sefirot, in cui la base numerica riporta anch’essa il sei, è lo sviluppo del germe divino che è Verbo e Spirito e che è il Santo Nome che gli Ebrei chiamano Yod – He – Waw – He.
Si chiama il tetragramma YHWH di cui gli ebrei ci dicono che è la Spada. Lo Yod è il manico della spada. Il Waw è la spada e le due He sono le due lame. Le lettere corrispondono ciascuna a dei numeri e si hanno due volte H, il numero 5, la W , che corrisponde al numero 6 ma è anche la congiunzione, e la lettera Yod, che ha valore 10, che indica la lettera divina. E’ il divino che si incarna: cioè il divino che fonda l’immagine dentro di noi. La stessa immagine che non vediamo e non potremo mai vedere …se santa sei…il numero complessivo con cui Pivanti dice di giungere alla fine della percorrenza della galleria, in risalita dalle vertebre sacrali che sono ormai soltanto i nustri ruderi , i primi capitoli, cioè quelli alla fine di questo libro-rovescio e palindromo, e i nostri desideri, manomessi in questa terrestrità e che quindi non ci tengono in piedi, non ci sor-reggono, in una sorellanza reciproca, ma in una ma-ter-nanza che può essere feroce, una tremenda e tragica mattanza, oltre che una benevola e forse tellurica cura d’amore, o d’amaro. La maternità implica anche ambiguità (nel senso del doppio: maschile e femminile ma anche luminoso ed oscuro, temibile e tenerissimo…) e incompletezza,è l’acqua della possibilità in cui il tutto prende forma o viceversa si disintegra per riformarsi (il ventre della morte che è ventre della terra e questa ventre nel ventre del cosmo).
Ancora qualche nota dovuta.
MA, in accadico, è la parola creatrice dell’UNO, TRE è la diversità che comprende non solo maschile e femminile ma tre, che si dice essere il numero perfetto, che si ottiene dall’unione di uno più due, è il numero con cui si indica Dio, uno e trino. La domanda è perché proprio tre. Quale aspetto della natura si presenta in tre forme?
In geo-me-tria sono 3 le operazioni base di simmetria su un singolo oggetto: piano, asse e punto di inversione, tre sono le direzioni elementari dello spazio tridimensionale che ci circonda.
Per continuare potremmo ricordare che la Terra è il terzo pianeta del Sistema solare. Inoltre tre sono le virtù teologali: fede, speranza e carità.
Nella cabala ebraica il numero 3 corrisponde alla lettera ghimel (la lettera G in latino. La stessa con cui si identifica nei miti contemporanei il punto segreto femminile del piacere) e rappresenta beneficienza oltre ad essere apice di qualcosa, che dovrebbe essere “riuscita“.
Nan-še è, nella mitologia sumera, la dea della giustizia, la protettrice della città di Nina, ora Surghul, nell’attuale Iraq. Era figlia del dio Enki, che organizzò l’universo, e affidò a lei i pesci e la pesca. Nun è invece il mare e An il cielo, si vede come uno rincorra e partecipa dell’altro pur essendo ciascuno una figura e una forma diversa.
La traduzione del nome NAN SE è “interprete dei sogni ” ed era anche considerata la divinità in grado di pre-vedere il futuro, dando ai sacerdoti la capacità di predirlo dall’interpretazione dei sogni.
Ma (i doni divini, la parola creatrice)- ter- nanza si potrebbe allora tentare di tradurla oggi, in una poligamia di radici e trasformazioni, come la creatività dell’interprete che, attraverso i segni, le parole che ci creano, ripercorre i sogni che hanno originato la parola stessa e anche la divinità che in essa può essere riposta. Ogni uomo è chi è ospite, dice Jabès ne Il Libro dell’Ospitalità. Come il libro di Jabès ora citato, che è una specie di testamento spirituale del poeta, anche questo di Pivanti vorrebbe essere una specie di percorso che chiude il cerchio, l’anello di uno sposalizio con se stesso e l’essere che, a mio avviso, invece, resta sempre aperto comprendendo non solo questo percorso terrestre ma la nostra relazione con il tutto cosmico, come ricorda Ildegarda.
Ti benedico, ospite mio, mio invitato poiché il tuo nome è colui che cammina.
Il cammino è nel tuo nome
L’ospitalità è crocevia di cammini.
(…)
Davvero ospitale è, fino in fondo, l’Attesa.
Di noi intesi come ospiti in attesa scrive:
non siamo fatti per pensare gli inizi. Sono gli inizi che, successivamente, ci pensano.
Come a dire che noi, tutti, gli incompiuti, o anche in- compiuti, siamo pensati, programmati, per altri inizi, senza fine, senza soluzione altra che l’inizio.
Percorrere il pozzo, come a percorrere l’orizzontalità di un tunnel, identico a quello in cui i fotoni e gli elettroni corrono, si rincorrono o si scontrano, come fa Augusto Pivanti partendo dal retro della sua costruzione poetica, che solletica e sollecita le nostre fondazioni in-stabili, cercando il big bang delle azioni e dei pensieri, della logica sottesa, le varie uscite e la resa, porta inevitabilmente all’inizio, del libro e di ognuno di noi, uno, uno dei tanti che ancora è possibile essere.
Fernanda Ferraresso
.
neil moore
.
I. madre del primo e dell’ultimo vivente
sono io, la mia generazione di generazione
in altra generazione, la mia alternanza tra terra
e sottoterra – la carne a vibrare oppure a consumarsi
e dirsi altro dalla carne, altro dal conosciuto, altro
dall’immortalarsi sacrificale di una mancata eternità
come la madre del primo uomo, diversa e uguale per somma
e differenza dei particolari, io sono diverso dalla madre mia,
dalla madre di mia madre, ma so- sento- che una
è la sostanza che ci lega, una è la verità che va oltre
il minimale atto del resistere apparetenere al mistero
consapevole che il non restare è solo una supposizione,
un dirsi addio senza paira di voltarsi ad osservare
l’accoglienza larga delle molte madri, dell’unica Madre
II. madre del nulla apparente
è la Parola, la punta sumerica che traccia il primo
segno sulla terra risecchita apposta, la maternanza
di un’idea che permane nelle generazioni a seguire,
così che nulla vada perduto eppure nulla ostacoli
il nuovo che diviene parola a seguitare, per le duecento
e più generazioni, da Eridu a Marte raggiunto da Curiosity
madre Parola che si fa poesia, offesa, lode e racconto
dell’uomo e del suo lutto, della sua storia che senza parola
sarebbe storia minima, storia guardata a vista dagli occhi
che si aprono e si chiudono sul mondo senza averne stabilita
la circonferenza delle duecento e più generazioni
madre Parola che stabilisce il vero della specie, l’unica ragione
del pasto consumato al fuoco dell’espandersi oltre la nascita,
fino alla parola che chiude questo libro e tutti gli altri, insieme.
LXVI. madre delle Scritture nutrienti
è numero di Dio, somma di trentatré
più trentatré nella Sura dei Puri –
Gente della casa del Profeta, vi purufucherò
di purificazione pura – istinto di pienezza,
aureola salvifica e cibo del poi
è il primo sentimento del formarsi intorno
alla suzione ricordata, al femminino capezzolare
insediato al centro della terra, perché
ogni centro ha una terra a contornare, ogni
selvezza ha un’areola prominente, ogni
volo ha uno sfioro da compiere fino alla purezza
dichiarata, senza strascichi di ali perse al suolo.
.
Sesta maternanza
O rosso sangue
che scorri dall’alto
dove la divinità ti seduce
tu sei un fiore
che il respiro gelido del serpente
non può mai ferire.
Hildegard von Bingen
sotto il lungo, articolato, complesso, tappeto di fernanda ferraresso arriva la mia parola. che è un seme. uno di quei semi lasciati scoperti fuori terra. qui a scrivere una fratellanza di ricerca, di solco nella cui concavità gli odori comuni si sono congiunti con la stima e il sangue. avrei poche parole, ora, dopo quelle che sono state scolpite, pochi gesti. solo un dito a indicare il petto di Augusto Pivanti, le sue tempie, la sua opera.