VI RACCONTO UN LIBRO- Milena Nicolini: Settima di dominante di Annalisa Ballarini

hester cox

Hester Cox.

Gli itinerari di formazione non sono tracciati solo nei romanzi; anche una silloge di poesia può presentare un percorso del genere. Mi sia concesso, tra parentesi, di manifestare un’insofferenza per la parola ‘silloge’, che nel suo significato generico di ‘raccolta’, pur nella sua veste dotta, mi rimanda sempre ad un’impressione di ‘fatto su/messo insieme’ un po’ casuale o comunque non troppo elaborato, che va bene per tutto; quando invece, frequentemente se non sempre, un libro – com’è bella questa antica complessa parola! – un libro di poesia è organizzato con cura per temi, scansioni, itinerari, insomma secondo una struttura propria che non ne fa una semplice collezione. E’ stato, infatti, l’andamento di progressione, di formazione che mi ha colpito in Settima di dominante, che, al di là della nominazione delle tappe, presenta una vicenda in cui, passo passo, si sente la fatica di ricerca, di lavoro non solo linguistici e formali, per cercare, e alla fine trovare, il proprio sguardo-corpo, la propria voce-parola, la propria identità-scrittura. Di donna.
La prima sezione, di soli sei testi, dall’impegnativo titolo Metamorfosi, è decisamente la più straniante, per movenze e scelte linguistiche: dai troncamenti aulici, soprattutto nei verbi (“mutar”, “asciugar”), ai termini desueti (“s’addormirono”, “indome”, “prieghi”, “fia”, “desii”, “frali”), alle anastrofi di maniera ( “non più ho braccia ora”), alle invocazioni auliche (“Cielo, dammi”, “Di acque limpide, Poesia,/ hai ricolmo”), ad una natura trasfigurata arcadicamente (“il gufo scrive in versi/ il principiar notturno della veglia”, “i pioppi non dormono/ nel rimembrar l’inverno”). Sono modi che a tanti di noi, all’inizio della scrittura, sono venuti, ad esempio, dai limiti di una scuola che per la poesia non superava mai la soglia del ‘900, o da un amore ‘matto e disperatissimo’ per Giacomo Leopardi, o dai segni profondi lasciati da Ugo Foscolo, da Dante e Cavalcanti e Petrarca e Tasso e Ariosto. Dice Antonia Pozzi: “Che in principio tutti debbano attraversare un lungo – a volte molto lungo – periodo di convenzionalità, di retoricità, ecc. è un fatto: ma è anche un fatto che questa convenzionalità e retoricità non si superano se non con la pratica, con l’esercizio quotidiano, assiduo, della penna. La massa inerte, spessa, grigia, delle frasi già fatte, delle parole già dette, va traforata pazientemente […] io non credo ai miracoli, alle improvvisazioni letterarie: credo al lavoro, alla dura fatica di lima e di scalpello, alla lotta continua, sanguinosa, contro se stessi, contro i propri “cancri” giovanili, contro l’enfasi, contro l’involuzione, contro l’eccessivo lirismo” [1],. Ma sono modi che potrebbero venire all’autrice anche dall’assidua frequentazione per ragioni professionali dei libretti d’opera e dei testi musicati da grandi compositori del passato. Inquietante, però, è un’impressione che rimane, sottesa, di un mascheramento, dovuta ad una difficoltà di dire, di cominciare a dire o, meglio, a dirsi, più di tipo esistenziale che linguistico. Perché poi, d’improvviso, ci si imbatte in versi densi e sapientemente compiuti come: “E pure le quinte del vicolo/ soffiano all’insù per secondare/ la danza di questa neve di maggio.” (Minuetto, p.24), o “Lì ripongo spalancato a sfaldarsi/ il bianco opaco dello stupore.” (Trasparenze, p. 27) Ma nella prima lettura mi attirò soprattutto l’aspirazione della poeta – quasi contraddittoria – per “parole/… /non grevi né austere/ … /non lacrimose”, che in Vorrei parole ( p. 20) – appunto – veniva, però, interrotta da una “preghiera” di morte: “Ma null’altro che Neve silenziosa, Cielo,/ doni… /… /sì che tu possa raggelare il fiato/ e render muta ogni parola”, che rimandava a “forse/ domani” la possibilità di dire. E che in Metamorfosi (p. 22) ) trovava quasi un’esplicitazione; infatti a un non meglio precisato “tuo sguardo”, prima la poeta dice: “ho occhi solo/ perché sei tu a donarmeli”, poi tenta invece il desiderio di diventare da sola la causa di se stessa: “vorrei/ essere albero, io sino ad ora frutto”, quindi prende coscienza della sua possibilità metamorfica: “sono ciò che sono in ogni istante”[2], , differenziandosi comunque dalla forma univoca che quel ‘tu’ le dà. Ed infine il desiderio, netto, consapevole, di essere solo se stessa: “ Nuda rimarrei al tuo cospetto (mia la sottolineatura: l’espressione è da rito religioso o da aula regia)/ solo albero nudo,/ per una volta almeno,/ prima che tu mi renda/ nuovamente frutto.” Voi direte: che c’è di male nell’essere frutto? Il frutto è benefico sì, ma la sua esistenza finisce nel distacco dall’albero, che resta vivo, e quindi nel suo uso, spesso gastronomico, quando la caduta dalla pianta non si concluda in uno sterile spiaccicamento al suolo.

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Nella sezione finale Frammenti musicali, quasi una vera e propria chiusura del cerchio-serpente, dell’uroburo, tornano, anche se con minore occorrenza, certi modi aulici, e torna un ‘tu’ che – non importa se lo stesso o no di Metamorfosi – con “dita dispensatrici di visioni” può nascondere “sotto un lenzuolo/ di educata indifferenza/ i fantasmi della mia mente” (Settima di dominante, p. 84). infatti, si sente che carezze, abbracci, baci del ‘tu’ sono mortiferi: “Così mi vesti come dea/ mentre abbandono le mie spoglie.” (Punto coronato, p. 89). La scelta lessicale di “spoglie” non lascia dubbi: la resa è quella di un cadavere. Anche nelle poesie di questa sezione emergono di colpo versi di grande potenza e bellezza: “E anche la paura svanisce/ mentre i corpi si vestono di coralli. (Notturno, p. 88),“Ma questa notte il tempo dorme/ e ha inizio la veglia sul suo sonno/ fino a domattina.” ( Rapsodia, p.87). Si possono intravedere le tensioni di una poetica che comincia a delinearsi con sicurezza, dove scrivere versi è “dar forma al caos/ rinchiudendolo in parole” (Congedo, p. 91). Questo caos, di sicuro, non è cosmico, ma riguarda soprattutto la propria vita, se “la parola… / mi conduce… / … / compie il suo prodigio,/ trasporta corpi morti/ che riprendono il respiro”: è la resurrezione delle “spoglie” precedenti. Anche nel mascheramento (supposto), anche nello straniamento di un linguaggio a volte desueto, la potenza della poesia ne esce straordinariamente intatta e, umanissimo, il dibattersi di una donna che lotta per essere se stessa.
Nella seconda, terza e quarta sezione, Vertigini, Carillon, Poemetto prosaico, si entra in una vera e propria officina. Ci sono ancora, sempre più sporadiche, occorrenze auliche. A volte le poesie si dividono nettamente in due parti, come ad esempio in Il rampicante (p. 32), dove, dopo i primi dieci versi di immagini barocche, nei restanti la parola è capace di ridare la sincera compassione per la morte dell’arbusto di gelsomino, immergendola in un accumulo umilissimo e vivissimo di cose che ci stanno limitrofe nella nostra quotidianità e che rischiamo di perdere nella disattenzione dell’abitudine: “Lo zerbino accanto all’uscio,/ la ciotola del gatto, la tegola/ in bilico sul tetto, il tacco/ della scarpa che affonda nella/ terra.”, con una chiusa di grande valore poetico ed etico: “Ora so cos’è un mondo senza fede./ L’impronta della scarpa sia colmata di giardini.”. A volte – non a caso – tornano le forme auliche dove torna la violenza sofferta nella condizione di ‘spoglia’: “voleva/ … / far morire il suo inferno nel mio,/ con un bacio.” (Rifiuto, p. 39);oppure servono a definire un oggetto ormai distante, come un “metà amor” che, se potrebbe sembrare difeso strenuamente (“non alcuno osi impugnare lame/ a recidere l’amore, poiché io voglio/ venti ali di parentesi e … /… / ascolterò parole in fila con i fiati/ delle virgole”), in realtà però il punto-fine (“punto e basta di un discorso senza capo”) è già presente (“il più e il meno si equivalgono/ nulla si moltiplica e tutto si divide”) e non a caso è lui che chiude la poesia: “e il punto, allora,/ procederà in avanti lento lento.” (Ripartizione, p. 36). Oppure ne resta solo un titolo desueto come Afflato, o qualche occorrenza qua e là, quasi un refuso. I versi ormai hanno conquistato uno sguardo limpido, diretto su un mondo che si abita con certezza di tatto ed esperienza sensoria: la “sporta” della spesa, la “ninna nanna” o il gioco magico dei colori per il figlio, il “muro scrostato”, la “dispensa” in cucina, la “polvere” della casa e della vita. Non si tratta, sia ben chiaro, di approdo a qualche sorta di minimalismo, perché nella nominazione di queste cose c’è un recupero fisico ed esistenziale, un ‘realismo segnico’ per dirla alla Conci (vedi nota), un valore nuovo: “E sempre sull’inconsistenza della polvere/ prevale la durezza del fondo./ Attrazione inesorabile.” (Discese, p.40) Se, anche, in questi versi si potrebbe avvertire un residuo amaro, comunque è di fondamenta che si tratta: nessuna più celeste astrazione. Perché nelle sezioni Linee e Apocalisse ormai la poesia è “evento inesorabile”, “vertigine sull’infinito”. “E allora le cose iniziano a chiamarsi.” (Verticale, p.58). Magico. La poesia si apre alla cosalità, a qualcosa che in qualche modo si apparenta alla ricerca di Clarice Lispector [3]. E’ possibile immergersi davvero nelle cose, nella loro infinità (Canali, p. 59), ascoltare i “tombini della strada”, senza sfondare nell’umanizzazione di oggetti (Vortici, p.60); entrare in sororità con la casa, rovesciando il dentro del corpo a fuori (Incroci, p. 62); fare delle parole “vetrate” dietro cui “rinchiudere il delirio” (Sbarre, p. 61); inseguire l’infinita rincorsa di corpi che alla fine rovesciano i ruoli, alla maniera di Caproni:
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I corpi si rincorrono e non si incontrano
Perché i corpi rincorsi rincorrono altri corpi.
Il risultato è un foglio di linee spezzate,
universo senza collisioni. (Zig zag, p. 63)

 

Si rovesciano le radici del vaso nell’apparenza delle cicche spente conficcate nella terra (Segmanti, p.64); si rovescia il giorno nella notte, quando per un istante il tempo si ferma, si dilata: “prima che il giorno si cali nella sera/ e la sera fugga nel buio, nuovamente.” (Semirette, p. 65). Si rovescia l’inizio nella fine di una poesia, in un cerchio-uroburo, senza tempo:
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Senza tempo
senza virgole senza punti
voglio scrivere
come il pensiero
che guarda il ritorno
al pensiero
che scrive
senza punti senza virgole
senza tempo (Cerchio, p. 66)

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Può rovesciarsi anche il rapporto con le cose, se diventa quasi reificazione dell’io: “La valigia è colmata/ di scarpe arroganti/ e vita vissuta/ a forza imprigionata/ tra cerniere stridenti.” (Implosione, p.76); ma non è mai definitivo: “I piedi nudi cedono la forma ai tappeti/ e si rigenerano ad ogni passo,/ così le forme si susseguono/ ogni volta diverse./ Poi il divano si inarca/ e accoglie fino all’alba/ le membra del viaggiatore stanco.” (Viaggio, p. 78). Il tema del tempo è frequente in queste poesie, un tempo sospeso, dilatato, goduto dal di dentro. Che, forse proprio per questo, permette di arrivare alla matericità delle cose, non più muro muto invalicabile, ma palpabile compartecipazione. E’ il tempo della poesia che sospende anche dalla morte, senza negarla:

Le dita suonano sulla carta
con le unghie tagliate
suono finalmente suono
finché la falce non mieterà le mani (Raggiera, p. 67)
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C’è il piacere della musica dei versi, del suono delle parole che può anche travolgere come una fiumana, ma che ancora magicamente – perché fiato fisico, perché suono materico che corre “sui calici” – avvicina a quello che potrebbe restare l’assolutamente-altro, la cosa, tanto da sentirne la voce:

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Sui calici, il fiume del discorso
cerca se stesso, insegue
indugia
e non si arresta
se non davanti alla porta di casa.
Lungo il bordo dei bicchieri
Rimane soltanto l’eco della materia. (Greto, p. 68)

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La poesia ha permesso di ritrovare il mondo attraverso la parola-mondo:
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Nella ricerca della forma
le parole camminano a ritroso
verso l’elemento generatore,
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che non è l’idea pura dell’iperuranio platonico, ma la cosa, dove si tace perché lì si incontra il mondo, ancora muto, extralinguistico, quando ancora non ne è stata partorita la parola; poi:
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poi ad esse è impresso nuovo impulso
fino al punto. (Indietro e avanti, p. 70)
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come nel nominalismo magico dell’origine, dove la parola è la cosa, perché il nome non è astrazione concettuale, ma fisica aderenza alla realtà del mondo. Si pensi alla parola materna che indica al bambino sul filo del dito, dentro un soffio caldo che esce dal suo corpo, una cosa e la dice. E il bambino riprende quel fiato e, nel ridirlo come può col suo corpo, la deve toccare, tastare, sentire con la bocca, almeno guardare o annusare o ascoltare.

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Ci dice Annalisa che il poeta è come l’alchimista, ma il nuovo alchimista del ‘700, il già chimico come Lavoisier, quello del “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”: materico, vede la forza, l’energia dentro la cosa, dentro la materia, e quindi “la trasmutazione della forma”, da cui non viene cancellata “l’essenza”, ma solo ‘travasata’ e ‘distillata’ “secondo nuove proporzioni” (Linea composita, p. 71); si ricordi Foscolo, nei Sepolcri:
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… e involve
tutte cose l’obblio nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto… (vv. 17-20)

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La poesia sa cogliere l’essere metamorfico delle cose e del mondo “e di questo divenire cosmico/ si serbano le tracce.” (Linea composita, p. 71)
Con la parola-mondo anche l’identità è stata riconquistata:

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Così sono io:
torno alla mia icona
e da lì
mi diparto (Indietro e avanti, p. 70)
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Se è vero che l’icona è una rappresentazione molto schematica, quasi astratta, simbolica dell’oggetto di cui si fa immagine, è pur vero che la nostra unicità identitaria è solo una facciata utile, molteplici come siamo delle nostre parti fisiche e psichiche e dei nostri esseri temporali e relazionali. E’ comunque importante che Annalisa dica di non fermarsi lì, ma da lì ripartire, anzi di-partire, che vuol dire dividere in due, a volte, anzi, anche morire. Ma non credo che in tal senso vadano letti questi versi. Credo che la divisione-taglio dicotomico avvenga rispetto all’immagine-icona, precaria e provvisoria, di un io che sa di potersi e doversi calare molto più a fondo, molto più nel magma metamorfico, per trovarsi.

Milena Nicolini

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Note al testo.

[1] Antonia Pozzi, lettera a Dino Formaggio, agosto 1937, cit. in Antonia Pozzi, Poesia, mi confesso con Te, Ultime poesie inedite (1929-1933), a cura di Onorina Dino, viennepierre.edizioni, Milano, 2004, pp. 12-13

[2] Non perché la poesia di Ballarini vi rientri in parte o in toto, ma solo in quanto alcuni versi aprono una adiacenza alla prospettiva dello studioso, vorrei inserire qui un riferimento agli studi di Domenico Antonino Conci sulla cultura supposta presente nel Neolitico della Grande Madre, da lui definita “realismo segnico”, per cui: “ i nomi sono proprietà e determinazioni delle cose e delle persone stesse (realismo nominale). […]
l’indistinzione tra lo spirituale e il materiale, il corporeo e lo psichico, il pensiero […] e l’ente cui esso si riferisce (realismo concettuale), l’essere e l’apparire delle cose, il soggetto e l’oggetto, l’espressione e il significato dell’espressione, il sogno e il contenuto del sogno (realismo onirico). […]
il termine “realismo” […] esprime in maniera pregnante la fiducia […] che tutto ciò che comunque si manifesta, nei limiti in cui si manifesta, sia realmente, cioè in sé e per sé, tale quale si manifesta. Poiché la relazione di identità che qui si scopre non è simbolica, ma reale, dato che i segni si annullano negli enti (e viceversa) al punto di dare gli uni come l’immediata e concreta manifestazione degli altri […] Qui detta legge il poco indagato principio che io qualifico della metamorfosi, regolante il dinamismo generale dell’intero essere manifestativo. […] un ente qualsivoglia può tramutarsi in un altro pur restando identico a se stesso. […] un ente qualunque può, contestualmente, essere letteralmente se stesso e qualcosa di altro, di diverso.” (Il matricidio filosofico occidentale: Parmenide di Elea, in Le Grandi Madri, a cura di Tilde Giani Gallino, Feltrinelli, Milano, 1989, pp.148-9)
[3] “La blatta e io siamo infernalmente libere poiché la nostra materia è più grande di noi, siamo infernalmente libere poiché la mia stessa vita è così poco contenibile dentro il mio corpo che non riesco ad usarla. La mia vitaè più usata dalla terra che non da me, io sono così più grande di quel qualcosa che definivo “io” che solo possedendo la vita del mondo, io mi avrei.” (Clarice Lispector, La passione secondo G.H., Feltrinelli, Milano, 1991, p. 113)

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cover

Annalisa Ballarini, Settima di dominante – Blu di Prussia, Piacenza, 2012

 

3 Comments

  1. Un libro di ampio spessore poetico ,in cui la parola fa da iniziazione per la trasformazione dell’essere e da finalmente voce a colei che scrive!

  2. La recensione di Milena Nicolini è una saggio densissimo e molto profondo che rende giustizia al bellissimo libro di Annalisa. Che non si può confondere con gli innumerevoli libri o… sillogi che si pubblicano, che sappiamo pochi leggono e che restano prerogativa del circolo ristretto di parenti, amici e poco altro. «Settima di dominante» è un libro agile ma sempre incisivo, scandito come una partitura musicale a testimoniare energicamente pure la cultura e la formazione dell’autrice. Gli spunti e i commenti di Nicolini sono efficacissimi ma debbono lasciare aperti altre suggestioni e chiavi di lettura dell’opera di Annalisa. Che secondo me non si declina solo o necessariamente al femminile, quantunque le sue vicende in specie le più recenti possano senz’altro indicarlo. Quindi non il genere conta ma il fatto che si tratti di grande poesia, aulica ed espressiva come quella di un oracolo. Che traduce in versi mai scontati sensazioni ma anche situazioni, persone, riti, archetipi, decomposizioni e desideri. Annalisa può dire «bruciatemi nel ventre dei camini» oppure che «precipita il vuoto in me» ma il risultato non è mortifero, comprende ed evoca una rinascita, una ripresa di profumi e di calore, e di vento, quello delle cose, degli oggetti e delle parole «solo fatte di Vento» il vento che è fenomeno naturale, a volte perfino violento. Parole come cose appunto. Per me non è solo l’appello alla parola, alla poesia, c’è sotto sotto qualcosa di più, passatemi il termine, prosaico. I finali «Frammenti musicali» contengono immagini evocatrici di eros: «possano i suoni delle parole giungere / come bacio appena accennato» (Preludio, p. ), «Ortensia e giglio / opulenza e voluttà, tu» (Rapsodia, p. 87), «E anche la paura svanisce / mentre i corpi si vestono di coralli». Un eros soffuso e celato forse, ma per vivo vivo più che mai. Infine il «Congedo» manifesta una indubbia e semplice maturità poetica, nella sua forma tradizionale di chiusa epica e rinascimentale: «la parola va veloce / e mi conduce, altera. / Senza pena alcuna / compie il suo prodigio, trasporta corpi morti / che riprendono il respiro /all’adagiarsi lento / sulle labbra della gente, / sicché moribonda omai / anch’io avrò nuova vita / quando mi leggerai.»

  3. Questa raccolta di lirica unisce diversi aspetti: classicità, introspezione, intensità lessicale, percezioni visive e uditive. Le poesie di Annalisa raggiungono il cuore del lettore.
    Lo consiglio a tutti!
    Elena Loranzi

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