reggia di caserta-venere
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L’estate di chi guarda
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Ormai l’agosto è un panico di lucciole
e la picchiante aureola del sole
è la madonna ossuta di una nicchia,
il ragazzo che accanto
zoccola alle more.
Marina Pizzi
da Il giornale dell’esule– Crocetti, 1986
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L’estate è l’etate, l’età di chi guarda e guardare è l’essere di guardia, di chi sorveglia e si sorveglia, veglia su di sé anche guardando intorno perché il corpo non è quel bozzolo che si consuma, in cui prima siamo un feto e poi qualcosa d’altro, che muore da uno stadio del suo essere all’altro. Meglio è vederlo, proprio nell’attimo in cui tra-passa, combattendo l’unica lotta che conti: vivere, in qualsiasi modalità la vita si esprima.
L’estate di Marina Pizzi fa emergere, da una spiga di panico, Pan in persona e dunque il dio stesso della campagna, delle selve e dei pascoli è quel corpo di lucciole. Il nome di Pan è assimilato a Phanes , Φάνης, da φαίνω phainō, “che porta la luce”, e dunque la sintesi panico di luce, in cui l’accento tonico su una medesima parola mostra le diverse sembianze di quanto appare, mette insieme, nell’unico seme che germoglia il suo intorno, la vitalità travolgente di un attimo in cui non solo quanto fermenta nel primo verso si oppone alla consunta dicitura che vien data per panico, ossessione, ma aumenta la sua dose di vigilanza in quell’aureola di sole a cui, subito dopo, si espone la madonna ossuta in una nicchia.
Devo tornare sui miei passi perché quell’aureola ha acceso in me lo sguardo su una parte anatomica, quel sole del seno, grande quando la donna, ma-donna, che allatta e qui tutta la catalogazione dell’arte dei maestri perugini mi ammicca, in tutte quelle madonne mai troppo rotonde, anzi aguzze, ossute ma dolci, dalle guance rosa-rosse, fresche come florilegio di piena estate ed estasi, in feconda alternanza a quella luce picciola delle lucciole, ragazzette ormai in arrivo da tutto il globo, che ora vedo venire verso di me nei panni delle tante ragazze che, d’estate, stanno per strada offrendo amori a tassametro. Dunque perfetta la chiusa del ragazzo che, zoccola alle more che, ripristinando la prima visione panica, quella ai bordi della selva, nella campagna, raccoglie more nelle siepi con ai piedi gli zoccoli, di cui si sente il rumore, il ticchettare dei tacchi e allo stesso tempo apre l’altra inquadratura del giovane che si offre, tra siepi di donne, more, come more di spina, in una spiaggia urbana che a sua volta è nicchia, per tutti coloro che della naturalità della visione perdono l’insieme, e si accontentano di zoccolare, senza vedere il quadro che invece riesce magistralmente a dipingere l’autrice, Marina Pizzi, in questi intensi e brevissimi versi, tendendosi tra un tempo in cui erano sacre le prostitute e questo oggi in cui tutto sembra prendere un corso senza altro senso che quello unico, a cui tutti sembrano obbligarsi, creando pennellate di un colore divinamente umano.
fernanda ferraresso
Un piccolo capolavoro e un degno commento. Fa bene leggervi!
ne sono lieta Fiammetta, trovo che Marina Pizzi abbia un talento magnifico per sintesi in cui molto, moltissimo, resta rappreso e aspetta solo una piccola miccia per mostrare la sua attività deflagrante, tellurica.
ferni
Letta ieri, poi per tutto il giorno i versi sono risuonati ed oggi sono tornata per completare qualche dimenticanza nella recitazione. Forse fra qualche giorno di nuovo perderò una parola, la memoria spesso mi fa cilecca, ma ora tutte mi paiono essenziali. Quanti autori non conosco, quanti!