Un’ansia di volo che porta via – per Narda Fattori. Lettura critica di Antonio Devicienti

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Cambiare di stato morire di natura (Edizioni CFR, Piateda, 2014) non è soltanto un libro sulla morte o sul prepararsi a morire, ma anche sull’entusiasmante bellezza della vita, del mondo e degli incontri; tale bellezza viene cantata in versi limpidi e di solido impianto metrico e retorico attraverso la stoica consapevolezza della presenza costante della morte, del suo starci accanto continuamente, cosicché quello che nel nostro tempo è un tabù ed un rimosso diviene invece, secondo l’idea di Heidegger, un “vivere per la morte”, ma non in senso luttuoso o deprivante, bensì lungo un cammino quotidiano di presa di coscienza, di un “esercitarsi a morire” d’antica tradizione che è esattamente il contrario del rinunciare a vivere o dell’odiare la vita e il vivere, per Narda Fattori, è molto spesso anche quei polpastrelli e dita / sporchi d’inchiostro (pag. 34), scrivere cioè, scrivere anche libri come questo che non concede nulla alla consolazione né al sentimentalismo.
Inizio la mia proposta di lettura da un mannello di testi che si trovano nella seconda metà del libro; eccoli:

Spaccare la forma perfetta del geode trovare
l’utero tondo che cova cristalli di ametista

e il grigio della pietra nella sua forma
che all’infinito rimanda alla domanda
dove come quando e perché io resto qui
voglio la durezza e la luce del nido di ametiste
che mi chiamano ad una sostanza di stelle
e nonostante l’opacità mi forma sprecandosi
in parole che sanno di destino e destinazione

qui su queste strade in questi incontri
nel sale dei dolori nel sangue che sgorga
e si raggruma
ci chiama a essenza di luce tagliente
cristallina appunto e fa male e sana
le molte malattie che piagano la carne
sarcofago come il geode che si spacca (pag. 39);

I rebbi inetti di questa forchetta
raccolgono frammenti di carne
si fanno avvinghiare dagli spaghetti
infilzano (oh) fusilli e maccheroni

a volte un rebbo cede si piega
troppo dura la materia sasso puntuto

posata sulla tovaglia ha un suo onore
con le punte sollevate appena curve
la forma morbida dell’impugnatura

somiglia ad un cavaliere nell’armatura
invece è un don Chisciotte
che perde col tempo lo sguardo
così la forchetta scambia per pasta
le valve delle patelle e si fa male

quanto mi somiglia l’utensile umile
facilmente sostituibile a poco prezzo

ormai tutti i miei rebbi sono curvati
e più non riescono a farsi uncini
ma la forma ha una sua armonia scura
da ringhiera di balcone che consente
il riposo al pettirosso con l’aria per il volo

dietro l’angolo la storpiatura la ruggine
tutta corrosa la bellezza
cambiare di stato morire di natura (pag. 41);

Arriverà lento il treno in stazione
con un cigolio lungo di freni senza olio
e si fermerà con un sobbalzo.

Sarò rimasta seduta svagata
allora la signora gentile scenderà leggera
mi prenderà sottobraccio – È ora.

Il posto riservato è in carrozza nove
lato finestrino così che con lo sguardo
possa seguire la corsa dei campi
dei pioppi lungo i fossati – come
la prima volta – ricordi? – la meraviglia

mi sono sempre accontentata del poco
il bello lo aggiungeva il mio sguardo
e quanto e quanti mi parevano tanto (pag. 53);

(…)
andarsene per troppa vita andarsene
per ingoiare l’azzurro cielo il blu del mare (pag. 59);

Argilla sfiorata da luce di stella
presi respiro e fui d’aria di fuoco
d’acqua e la terra mi rimase tutta
argilla lavorata da dilettante

Mi vedo sulla piastra sopra la ruota
e il vasaio che mi dà una forma
quasi sono e m’imbratto di colori

sarò terra per nespole e ciliegie
terra per gramigna e per ginestre
argilla che si sbreccia non si corrompe
e riflette con uno sprazzo la carezza
della stella (pag. 61).

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Ecco: dopo esserci concentrati soltanto sui testi della poetessa, proviamo ora ad imbastire qualche riflessione.
Dico subito che l’occasione biografica da cui scaturisce il libro è la malattia cardiaca da cui è affetta Narda, per cui il cuore è alla lettera il propulsore e il leitmotiv del libro, ma il dato biografico viene ampiamente superato dall’impianto concettuale dell’opera, dall’impegnativa e coraggiosa riflessione sul rapporto tra la morte e la vita, sulla presenza costante della morte, la ricorrente prospettiva in prima persona sottratta al pericolo dell’egotismo e del solipsismo grazie all’accumulo delle immagini che proiettano continuamente l’io verso l’esterno, in indefessa ricerca di un rapporto con il mondo, in una forma dialogica, dunque, che spesso porta a dimenticare quell’io cogitante e senziente e “cambiare di stato morire di natura” vuol dire forse proprio questo: annullare il proprio io per trovare il proprio stato più vero e profondo, riconoscersi natura e, come lei, essere soggetti a cicli stagionali e vitali. Il geode è immagine minerale del cuore, infatti e l’atto concreto di aprirlo e guardarne l’interno è un preciso metodo conoscitivo che permette di vederne forme perfettamente corrispondenti a quelle diffuse nell’universo (bellissima l’immagine dell‘utero tondo che cova cristalli di ametista) per cui ci si sente chiamati a sostanza di stelle; la dialettica gioia/dolore, morte/vita, malattia/salute approda al distico finale (le molte malattie che piagano la carne /sarcofago come il geode che si spacca) in cui la parola di derivazione latina carne è richiamata nel composto greco sarcofago (alla lettera “mangiatore di sarx – carne appunto), per cui il corpo è sarcofago di se stesso (si potrebbe definire un concettismo di ascendenza barocca).
C’è poi l’originale testo consacrato ad un oggetto apparentemente umile, la forchetta, cui già Charles Simic ha dedicato The fork e che nei versi di Narda Fattori esprime la fame di vita e gli inciampi cui la vita stessa è soggetta, cosicché la forchetta ha un suo carattere metamorfico inatteso e inaudito (Don Chisciotte o ringhiera di balcone) ed una tensione metaforica intesa a dire l’arco di un’esistenza, il susseguirsi di giovinezza e senilità, il medesimo tema svolto nei versi dedicati al treno, ove la metafora del viaggio uguale a vita è risolta nella semplice ed intensa immagine dei pioppi, meravigliante scoperta d’infanzia e tutt’ora meravigliante visione.
Ho scelto di mettere in evidenza, infine, il testo contenente la metafora del vasaio che riprende un tema caro a Narda, quello della materia di cui sono fatte le cose e il cuore stesso, qui l’argilla, materia umile eppure capace di far scaturire da sé l’utilità e la bellezza che hanno fondato la civiltà stessa e, come nei memorabili versi di Mandel’štam la stella si scioglie simile al sale nell’acqua della botte mentre il poeta si lava di notte, anche in quest’argilla si riflette una stella e la materia ch’è acqua e terra e lavoro del vasaio (il corpo, cioè) è identica per tutte le altre forme (viventi e non) dell’universo.
Non a caso l’intero libro comincia con i seguenti versi:

Me ne uscirò da me prima che si faccia buio
il cuore nasconderà nel suo guscio duro
ancora sabbia dorata e merli sui castelli (pag. 17)

e le strofe seguenti, nelle quali Narda immagina il mondo nel momento in cui, ella dice, me ne andrò da voi, non hanno il tono dell’elegia, ma del canto sereno o, mi sembra, rasserenato dall’esperienza esistenziale e, proprio come accennavo all’inizio di questa mia proposta di lettura, il libro sembra dar conto di un prepararsi alla morte secondo l’antica scuola stoica e proprio nel senso filosofico, non in quello attribuitogli da una facile vulgata: esercitarsi a morire, coltivare la sapienza, studiare, conoscere e riconoscere il valore dell’essere in vita e quello del non esserlo più. Ecco, per esempio:

Faccio l’appello per mettere
un po’ d’ordine in capo all’esistenza (pag. 21).

Infatti:

(…)
gli addii non li capisco non esistono
sono carne della mia carne
fluido che innesta cellula su cellula
perché dirsi addio se qualcosa vibra? (pag. 22)

Acquista così senso la presenza dei morti, anzi l’intimità con loro, il loro stare dentro la mente della poetessa, non fuori:

Mi guardano dall’interno i miei morti
non hanno vertici e segmenti
retta delle assenze senza abrasioni
soffiano una brezza sul mio cuore

non mi guardano dalle fotografie
non amo il cimitero in argento ornato
di chi già fu stato di chi non è più

no mi guardano da dentro sorridono
non mi chiamano aspettano la svolta
dentro un gran silenzio che ci abbraccia
e dipana con mano ferma l’infinita pace (pag. 25).

Tuttavia, ripeto ed insisto, tuttavia questo non è un libro funereo, né triste, né lamentoso: ai miei occhi esso si traduce, pagina dopo pagina, in un calmo e sereno poema traverso il quale Narda contempla il mondo intessendo mille variazioni musicali e luminose cercando di mantenersi fedele alla propria voce poetica, per cui ella può legittimamente puntualizzare e quindi chiedersi:

(…)
Troppe voci a ciarlare e nulla
che somigli alle corde della mia laringe

(…)

Si è sparpagliato tutto l’amore
ma questo che mi scorre fra le dita
qualcuno sa dirmi cosa sia? (pag. 32)

Scrivere è affermazione e riaffermazione di vita, habitus irrinunciabile, esercizio di coraggio, spazio di consapevolezza; non riesco a farne a meno: inoltrandomi attraverso Cambiare di stato morire di natura mi torna in mente la scrittura senecana, sempre così limpida e controllata, ma facente presa su di una materia incandescente e, diciamolo pure, disturbante o, almeno, inquietante e dislocante qual è il morire:

Stringo polpastrelli e dita
sporchi d’inchiostro
nei tempi miei equinoziali
i piedi calzati in scarpe
troppo strette per il passo
che volevo per andare
l’ossame che s’infiamma
uno scrocchio un accendino
dismesso fra le carte nei cassetti
le calze velate un’ invetriata
d’alabastro sul cuore
a preservarlo dall’artificio
della troppa luce che spiove

animale a sangue caldo
annidata in cucce di stanchezze
in nanne buone e corrosa
da una ruggine impotente
che serra l’indignazione
incernierata dentro un golfino

e nel silenzio che rode
all’incrocio dei mali incontrarti
salvezza di lemmi ri-creati
cieli spalancati mani inermi
incontri di res totius
su fragile argilla –mia terra
mia vita- mia voce (pag. 34).

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Da notare il tema dell’animalità la quale, nella sua istintività totale e nella sua altrettanto totale immersione nel flusso dell’esistere, è paradigma di un vivere non viziato da intellettualismi, per cui già alcune pagine prima l’autrice aveva potuto scrivere:

(…)
sarò dietro l’angolo sotto tegola
scheggiata e lì nascosta avrò trovato
il mio giaciglio nudo come la bestia
che s’acquatta quando sente la fine (pag. 26).

Ma è fin dall’inizio del libro che Narda (e già con la bella dedica a tutti i cari) dialoga con molte persone, cerca i propri interlocutori, la futura memoria tanto per usare un rimando al titolo della prima parte della silloge:

Che cosa ti racconto amica mia?
Che or sono vent’anni che ho seminato
la gramigna e l’ortica mi è fiorita
sui palmi come un cespetto di viole

ma siamo un niente che abbaglia
e a volte acceca
più spesso spento come la focaraccia
di San Giuseppe il 20 marzo che sparpaglia
polvere cenerina sui campi sui finestrini
delle automobili e sulla messinpiega
fresca della signora in spolverino.

Siamo nelle lunghe giornate tumuli
di pensieri- intenti sfioriti -vanità violate
come quella mia cocorita
che presuntuosamente avevo chiamato
Nietzsche disinteressata al sesso ( il suo)
e al suo essere un uccello nato libero
di cui il gatto ha fatto pasto la notte
che dimenticai la gabbietta sul davanzale.

Ecco la colpa le omissioni il restare
fra il poco e il nulla come su una foglia
di novembre che il vento ruba se gli pare
e quando

le omissioni appunto gli esclamativi caduti
quei punti fermi e neri come il tronco
che il fulmine

ha colpito questo ti racconto amica mia
del mio restare sempre sull’uscio
con quell’ansia di volo che mi porta via (pag. 35).

L’etica del vivere prende coscienza delle mancanze e delle dimenticanze, delle omissioni, per questo la parola poetica è forse anche un dialogo ed un tentativo di riparazione, soprattutto è un prendere il mondo nelle proprie mani, ma non da soli, bensì assieme agli altri, come accade nella bellissima immagine seguente:

(…)
a voi amici parole per unire
come si faceva da bambini mani in girotondo

e non casca il mondo – lo sorreggiamo –
è il mio grido di poco fiato (pag. 36).

Sguardo e voce di Narda Fattori si rivolgono con intatto amore agli animali e al paesaggio costituito essenzialmente dalla campagna, immagino soprattutto la campagna romagnola e, più che (pur probabili) suggestioni pascoliane, mi sembra di riconoscere una concomitanza con la cordiale, saggia e terrestrissima poesia di Tonino Guerra, senza dimenticare il gusto per i colori ed anche in questo caso l’attenzione per i piccoli animali della poesia di Giorgio Orelli:

La scia d’argento di una lumaca
percorre il selciato fino alla siepe
nel buio della notte a lento piede
è andata dove la vita chiamava

con occhi ottusi e vista breve
aperto l’uscio cerco la meta
non ci sarà ma non lascerò scie
perché altri percorrano la stessa via

non so nulla e alzo una cortina
per nascondermi o per pudore
sarete voi che ve andate viandanti
piste per i miei passi stanchi

se il vento così a caso cancella
i segni di polvere resto confusa
fra cianfrusaglie dove lo specchio
non mostra ma abbaglia (pag. 42).

E la campagna è anche luogo del ricordo, dell’infanzia:

Tu non li vedrai più quei papaveri
che sono tornati a fiorire fra le messi
sono tornati abbandonati i pesticidi
e le fanno belle come era bella l’infanzia
che correva sulle zampe di grillo col canto
serale quando chiamava la sua bella

io li ho visti andando per campi
quasi a ricercarmi fra odori e colori
la timida viola l’azzurro fiordaliso
sulle prode dei fossi che non disegnano
più verdi diversi in rettangoli regolari

li ho qui tutti fra le mie mani
un mazzo grande per una bambinetta
che abbandonava la bambola bionda
per rincorrere le lucciole di giugno

non ardono più i seminati la via
è ben asfaltata ma le foglie di un gelso
superstite mi dice di morti veloci
di svolte improvvise e al posto del melo
signoreggia una superba magnolia
dove i passeri non possono fare il nido (pag. 47)

e ancora:

Si andava verso il culmine del giorno
irti di fiori azzurri piume di carciofi
dentro le ali distese delle farfalle

si era dentro la storia della vita
appoggiata sul muro la bicicletta
fra l’erbe che vibravano d’elitre

non ho sorvegliato il pieno di quegli anni
prima avevo perduto altro e conosciuto
le notti in fuga sulle righe nere dei libri
in viaggi sempre troppo brevi
di sbucciature sui gomiti e sulle ginocchia
e il male trapanava stanco
dentro lunghissimi voli incoscienti.

Ma lì è rimasto- tarlo che corrode –
la ruggine delle giunture rende il passo breve
resta un pallido sole biondo a consolarmi

mentre le piume nere del merlo posato
sull’erba del giardino mi guarda sbieco
e pare sorrida all’ombra che s’allunga (pag. 55).

Quel che trovo convincente in una poesia di tal fatta è l’assenza di sentimentalismo, la classica compostezza del canto, la ricca tessitura ritmica e lessicale che fanno del linguaggio il mezzo privilegiato affinché possa accadere questo colloquio costante con la morte, ma non con i foschi e tenebrosi apparati scenici della poesia del barocco spagnolo, ad esempio, persino compiaciuta dei suoi riti funerei, né con le ardue concettosità di un John Donne, ma con una modernissima sobrietà, con un vibrante amore per la vita, con una laica consapevolezza all’interno della quale la malattia conferma la serietà e il valore del vivere; la superficialità, la distrazione, la frettolosità sono, da un punto di vista etico, errori che sottraggono dignità all’esistere, che lo svuotano della bellezza, che lo allontanano dalla sua sorgente e la morte interviene a ricondurre la vita in maniera definitiva a tale sorgente, anche se il pensiero poetico di Narda Fattori è, in questo libro, indissolubilmente legato alla terra, dalla terra si lascia riscaldare e dallo spettacolo della natura affascinare, cosicché nell’apparente presa di distanza dalla vita Narda sembra guadagnare in ricchezza prospettica e in consapevolezza, in prolificità di canto e cordialità di sentimenti.

Antonio Devicienti

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Narda Fattori, Cambiare di stato morire di natura -Edizioni CFR 2014

5 Comments

  1. il libro di Narda è bellissimo ed emozionante ( e sincero e vibrante come sanno vibrare i versi del poeta che “tocca” la nostra parte più interiore) e il commento di Antonio Devicienti non è da meno.Complimenti caldissimi a entrambi!

  2. Caro Antonio, sono ammirata per l’ampiezza e la profondità della tua lettura; hai colto lo spirito che anima quei versi che parlano di vita prima che di morte. Tracciano punti di un percorso che non mi ha mai visto renitente: la vita ti trapassa, lascia ferite e una pioggia di meteore. Ci sono tanti poeti , e tu lo sai,, sono nella polpa dei versi, Non so come esserti grata, la tua lettura è preziosa e precisa, coglie il bersaglio senza fletterlo all’improvvisazione e all’emozione.
    Grazie.
    Narda

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