atsuko goto
Facendo un salto di parecchi secoli, si può notare che, da un punto di vista simbolico e letterario, la tempesta continua ad essere immagine di forza, ma anche di turbamento sia per il singolo che per un’intera comunità. Ad essa viene sempre accomunata l’idea di un qualcosa che si abbatte violentemente su una certa quotidianità, sconvolgendone l’ordine. Non è un caso che nel Novecento all’immagine della tempesta venga associata l’idea di una guerra o di una dittatura. Nei riguardi della politica, i due atteggiamenti prima analizzati che la classicità ci ha consegnato restano fondamentalmente immutati: se la Grecia di Platone era una terra di poleis e di tirannidi e la Roma di Lucrezio conosceva i germi delle diverse metamorfosi che il corso della storia le avrebbe fatto incontrare, l’Europa del Novecento è un continente di democrazie e di dittature totalitarie. La filosofia non cambia quella posizione che Platone aveva descritto nel VI libro della Repubblica ovvero di disciplina inascoltata e ridicolizzata dal potere (ormai si è andata a fare sempre più marcata la distinzione tra “uomo di pensiero” e “uomo d’azione”) . Gli intellettuali sono comunque chiamati a prendere una posizione nei riguardi del potere: Se Camus paragonava il Nazismo alla peste, c’era chi, come D’Annunzio, diffondeva un’immagine di uomo tipicamente legata agli entusiasmi dell’epoca e la bellissima “Pioggia nel Pineto” dava un’incisiva immagine di fusione tra forze naturali ed umane. Ben presto, però, la realtà avrebbe mostrato il suo vero volto e le promesse fatte da un qualsiasi tiranno del Novecento si sarebbero rivelate le stesse megalomanie tanto osteggiate millenni prima da Platone.
I due intellettuali che nella presente sede eleggo, quindi, a “campioni” del Novecento sono due figure molto diverse tra loro: Eugenio Montale ed Hannah Arendt. Entrambi vivono il fenomeno del Nazismo e del Fascismo, ma ambedue consegnano un’immagine molto diversa del rapporto intellettuale/potere. La Arendt propone, in fondo, malgrado alcune sue osservazioni, per la verità un po’ fuorvianti, in ‘Vita activa’ un vero ritorno al mondo classico e filosofico di Platone: ne “Le origini del Totalitarismo” ci descrive, così, l’evolversi di un fenomeno che nella perseverante cura della propaganda di massa, finisce, tramite una sorta di pioggia incessante dove le gocce d’acqua sono sostituite da parole e slogan, per entrare nel cervello della gente fino a fare un’autentica violenza concettuale alla spontaneità ed alla libertà del pensiero. Spina dorsale di un totalitarismo, secondo lo Arendt, è la sua intrinseca coerenza logica, così come suo fine è far rientrare l’intera realtà all’interno di un suo concetto. Un’ideologia dittatoriale nasce, infatti, con un’operazione di concettualizzazione della realtà e una tempesta di parole, suoni e immagini inneggianti sono il mezzo più efficace per raggiungere un simile obiettivo e con esso il consenso delle masse. Da una politica di classi si passa ad una propaganda di e per le masse. Senza consenso la dittatura si annulla: la retorica di un regime fa necessariamente leva sulle immagini di forza, di stabilità e di “assolutamente buono e giusto”, rispolverando tutte le tecniche che i sofisti avevano insegnato per storpiare i lineamenti della verità, al fine di irrigidire l’intera realtà dentro un concetto il cui mantenimento ad oltranza è indispensabile per la sopravvivenza del regime stesso oltre che per assicurarsi poteri sempre più ampi. Il concetto violenta in questo modo la realtà per poi trascurarla e sovrapporsi ad essa. In natura, una normale tempesta sconvolge lo status quo delle cose per poi aprire ad una rinnovata quiete; una dittatura, invece, stravolge per poi immobilizzare.
Da cosa trae, però, un totalitarismo la sua vera forza? La risposta della Arendt è una delle più incisive: dall’indifferenza del cittadino verso i valori di una civiltà. È interesse dei regimi mantenere tale indifferenza e da ciò si spiega l’abolizione e la persecuzione spesso attuata nei confronti della libertà di pensiero e di espressione. Nelle pagine finali delle Origini del totalitarismo la Arendt scrive:
“La coercizione del terrore totale, che irreggimenta le masse di individui isolati e la sostiene in un mondo che per esse è diventato un deserto […] Come il terrore, anche nella sua forma pretotatle, semplicemente tirannica, distrugge tutti i legami fra gli uomini. Così l’autocostruzione del pensiero ideologico distrugge tutti i legami con la realtà […] Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra il vero e il falso non esiste più .”
L’autrice fa quindi una distinzione molto profonda tra isolamento ed estraniazione:
“L’isolamento e l’impotenza, cioè la fondamentale incapacità di agire, sono sempre stati tipici delle tirannidi. […] L’isolamento e l’estraniazione non sono la stessa cosa. Posso essere isolato – cioè in una situazione in cui non posso agire perché non c’è nessuno disposto ad agire con me – senza essere estraniato; e posso essere estraniato – cioè in una situazione in cui come persona mi sento abbandonato dal consorzio umano – senza essere isolato. […] Mentre l’isolamento concerne soltanto l’aspetto politico della vita, l’estraniazione concerne la vita umana nel suo insieme .”
L’isolamento non è estraniazione, ma può diventarlo ed è tutto interesse dei regimi far sì che divenga tale. Resta sicuramente abissale la differenza tra la scelta di isolarsi e il subire un’estraniazione: un uomo, intellettuale o no, può volutamente decidere d’isolarsi, di distaccarsi, sia pure per meglio meditare le cose della propria esistenza e/o vita in generale. Nell’isolamento si può trovare un’isola di pace e di quiete per poter prendere serenamente coscienza di una data realtà e cercare di elaborare una risposta ad essa. Estraniare significa, invece, alienare, annullare interessi e vitalità allo spirito dell’uomo, rendendolo apatico e restio ad ogni forma di reazione ad un regime. I sudditi ideali di una dittatura sono, pertanto, assai simili ai plagiati, timorosi abitanti degli orwelliani continenti descritti in 1984. l’estraniazione leva il coraggio e la libertà di volere o di negare ( dire “No!”) dell’essere umano, facendolo divenire lo strumento principale per il protrarsi di uno status totalitario. La Arendt per scongiurare il pericolo di avere un popolo di estraniati, propone un ritorno all’interesse vivo che legava il cittadino greco alla sua polis. All’indifferenza deve subentrare la passione di un interesse e all’apatia la cura della cosa pubblica. Resuscitando e mantenendo, infatti, lo spirito della Boulé, intesa come assemblea viva di uomini liberi chiamati a dire la propria, la democrazia rafforza le proprie radici, relegando ad un margine sempre più ristretto uno spirito totalitario. Nel momento in cui, invece, si attua lo scarto tra individuo e comunità, si viene a definire quel tipico vuoto spesso riempito da una dittatura. Avvicinare il cittadino alla propria collettività è, dunque, l’unico modo per scongiurare il ritorno di un tale vuoto nella storia civile di un popolo. Il totalitarismo, in fondo, proprio in quanto fenomeno di massa, non può essere arginato da una politica classista ed elitaria, che vede solo in qualche nicchia il proprio consenso. Per impedire il sopravvento di una tirannide è necessario che il popolo divenga spazio d’incontro tra individui in cui ogni membro si percepisca come parte armonica di un comunità e dove il proprio diritto politico giunga a prendere l’aspetto di dovere morale e prima aspirazione di un uomo nella vita. La “massa” o, meglio, il cittadino diventerebbe, in questo modo, non più oggetto e territorio fertile su cui fare propaganda, bensì primo soggetto della storia di un paese.
Se la filosofa Arendt spinge, quindi, l’uomo, in particolare l’intellettuale, a riappropriarsi della sfera politica e a muoversi verso la gestione della cosa pubblica, manifestando interesse a ché le regole del gioco vengano rispettate per aprirsi ad una forma di partecipazione di democrazia diretta intesa, in primis, come discussione aperta, di ben altro avviso è il poeta Eugenio Montale.
Se virtualmente possiamo costruire un ponte che lega il Platone del VI libro della Repubblica alla Arendt che analizza il fenomeno del totalitarismo, mettendo a confronto anche le due visioni di “tempeste interne”, che generano la tirannide, altrettanto possiamo fare, con le dovute differenze e cautele, tra i poeti Lucrezio e Montale. La Arendt e Montale sono autori sicuramente diversi in tutto: Montale, a differenza della filosofa tedesca, predica un “aristocratico distacco” verso la società e alla presa di coscienza che l’esistenza è attanagliata dal “male di vivere”, dal cui cerchio non si po’ fuggire e che si può solo rappresentare tramite uno stile “scabro ed essenziale”, fa eco un rifiuto, da parte del poeta, a rendersi partecipe di talune vicende umane che, nel loro insieme, non fanno altro che esasperare la condizione del male di vivere che abbraccia ogni forma di vita presente sulla faccia della terra. Se ne deduce il poco impegno politico che Montale, malgrado la sua nomina a senatore a vita, poté avere in quanto poeta: le sue tematiche ruotano, soprattutto, attorno al tema dell’esistenza e al ruolo della poesia come rappresentazione e rifugio. Tuttavia, possediamo anche qualche scritto di Montale che ha un carattere più propriamente politico e non solo esistenziale, il più suggestivo dei quali è sicuramente il componimento poetico “La primavera hitleriana”, che ritengo opportuno riportare qui per intero e di cui consiglio vivamente la lettura, la quale, come si noterà, procede secondo ritmi incalzanti quanto incisivi da un punto di vista emotivo.
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La primavera hitleriana
Né quella ch’a veder lo sol si gira….
DANTE (?) a Giovanni Quirini
Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
stende a terra una coltre su cui scricchia
come su zucchero il piede; l’estate imminente sprigiona
ora il gelo notturno che capiva
nelle cave segrete della stagione morta,
negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.
Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
e pavesato di croci a uncino l’ha preso e inghiottito,
si sono chiuse le vetrine, povere
e inoffensive benché armate anch’esse
di cannoni e giocattoli di guerra,
ha sprangato il beccaio che infiorava
di bacche il muso dei capretti uccisi,
la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
s’è tramutata in un sozzo trescone d’ali schiantate,
di larve sulle golene, e l’acqua séguita a rodere
le sponde e più nessuno è incolpevole.
Tutto per nulla, dunque? – e le candele
romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
l’orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
forti come un battesimo nella lugubre attesa
dell’orda (ma una gemma rigò l’aria stillando
sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
gli angeli di Tobia, i sette, la semina
dell’avvenire) e gli eliotropi nati
dalle tue mani – tutto arso e succhiato
da un polline che stride come il fuoco
e ha punte di sinibbio….
………………………………..Oh la piagata
primavera è pur festa se raggela
in morte questa morte! Guarda ancora
in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
che il non mutato amor mutata serbi,
fino a che il cieco sole che in te porti
si abbàcini nell’Altro e si distrugga
in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
che salutano i mostri nella sera
della loro tregenda, si confondono già
col suono che slegato dal cielo, scende, vince –
col respiro di un’alba che domani per tutti
si riaffacci, bianca ma senz’ali
di raccapriccio, ai greti arsi del sud…
da “La bufera”
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La poesia rievoca la storica visita di Hitler a Firenze nel 1938 cui Montale poté assistere di persona. Sin dal primo verso, il componimento ci proietta in un clima surreale: dal cielo sulla città si abbatte una pioggia di falene impazzite, che cadono e muoiono per terra, riempiendo le strade dei loro cadaveri che scricchiolano “come zucchero” sotto il tacco delle scarpe. Alla pioggia di falene, corrisponde un gelo improvviso che sembra emanarsi da un’estate che ancora deve venire, ma che già cova, nel suo interno, una certa inquietudine. Pare essere l’intera natura a voler rifiutare e manifestare il proprio dissenso ad un evento che non s’identifica con l’umano e che non viene mai citato per nome, ma che ben presto si manifesta nell’immagine di un “messo infernale” che sull’auto che lo porta si fa strada tra “alalà di scherani” e croci uncinate. Molto forte è la contrapposizione tra una simile immagine di Hitler, che impersona il Male e che viene, così, paragonato ad un “messo infernale” inghiottito come da un turbine di folla e, dall’altra parte, una natura che manifesta una sorta di negazione di un suo stesso figlio che di fatto pare essere del tutto contro-natura, in quanto pericolo e fonte di inquietudine per la natura stessa. Alla pioggia di falene, ad un’atmosfera come bloccata, ad un gelo improvviso e alle finestre delle case e delle vetrine dei negozi che, per protesta, si chiudono e si sbarrano, fa eco lo scroscio delle acque del fiume Arno che vorticano indifferenti e che sembrano, man mano che le porte delle botteghe si chiudono, voler quasi evidenziare che “nessuno è incolpevole”. Al poeta non resta che rientrare nella propria casa, invocare Clizia, la personificazione della Poesia, e trovare un riparo dalla tempesta che i suoi occhi hanno appena visto avvenire nel mondo di fuori.
A differenza del saggio di Lucrezio, che prova serenità nel vedere di non essere in mezzo a certe situazioni del mondo e nen prendere consapevolezza di non avere parte alcuna alla dimensione della tempesta, il poeta Montale continua a provare angoscia anche nel chiuso della propria stanza e tra le braccia della Poesia/Clizia: se era una ricerca di serenità a spingere il personaggio lucreziano a immergersi nella Filosofia e a trovare distacco dagli affanni quotidiani, è invece l’angoscia a muovere l’intellettuale Montale a cercare rifugio interiore nel silenzio come dimensione pacata per leggere e scrivere versi. Il distacco è presente in entrambi gli autori, ma in uno è motivo di serenità, in un altro è consapevolezza di un’impotenza tipicamente umana che non mette fine all’angoscia e mentre duraturo è, secondo Lucrezio, il rimedio della Filosofia, temporaneo è per Montale quello della Poesia. Anche l’immagine della tempesta è diversa: in Lucrezio è una tempesta marina che smuove le acque del mare e sconvolge un intero paesaggio, in Montale è invece una evento surreale che pare immobilizzare più che muovere la vita di una città e degli esseri che la abitano. Le figure umane che fanno da sfondo alla macchina che conduce Hitler sono some bloccate e apatiche a differenza dei rimandi allusivi che Lucrezio ci proietta, il quale, all’opposto, ci fa immaginare gente che comunque si barcamena per sopravvivere alla tempesta.
Sicuramente la posizione del Montale è più simile alla forma d’isolamento di cui parla la Arendt mentre in Lucrezio troviamo una ricerca alla non cura assai vicina ad una forma di distacco che può divenire anche indifferenza e, per quanto Montale, il poeta della Divina Indifferenza, predichi uno sdegnoso “aristocratico distacco”, la sua partecipazione alle cose della vita tuttavia permane come ben si evince dal verso “nessuno è incolpevole”.
La stessa invocazione finale a Clizia come unica forma possibile per opporre uno stile “scabro ed esenziale” ad una retorica di regime, uno sprazzo di luce alla tormenta di parole, un silenzio meditativo che apra ad una dimensione altra a parallela rispetto a quella che la mistica e bestiale coreografia totalitaria prospetta, induce ad una riflessione sul ruolo di una posizione meditativa all’interno di un contesto d’inquietudine e di prepotenza. Due sono, quindi, le figure che aprono e chiudono la poesia: una metaforizzata (Hitler/messo infernale) ed una metaforica (Clizia/la Poesia), in mezzo sta la descrizione di una tempesta surreale dove le falene sostituiscono la pioggia che storicamente si era davvero abbattuta su Firenze prima del passaggio del Fuehrer e dove tutto pare bloccarsi fino a quando non giunge l’immagine di una “stanza” personale nella quale si racchiude il poeta. A differenza della Arendt, però, qui pare fermarsi Montale: manca quel vigore che non poteva che essere proprio della Filosofia vale a dire il voler reagire attivamente ad una situazione di crisi, facendo avvertire con sempre maggior forza l’invito ad una presa di coscienza che muova verso la storia e verso la realtà..
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atsuko goto
Conclusioni
Nei quattro autori da me trattati emergono, dunque, due visioni riconducibili all’immagine di una tempesta: una che abbiamo definito “interna” ed un’altra “esterna”.
Platone e la Arendt hanno mostrato il pericolo che scorre lungo le dinamiche che accompagnano la vita di una comunità e il danno che sorge quando il silenzio dell’intellettuale si fa palese e, attraverso un atteggiamento di indifferenza, favorisce l’avvento di una tirannide. Il ruolo di educare ad una vita etica diventa fondamentale per porre il coraggio e la libertà a guida della civiltà e mantenere viva l’attenzione del singolo verso la collettività.
Lucrezio e Montale hanno, invece, presentato al lettore un’immagine di tempesta tumultuosa e in piena regola il primo; surreale e simbolica il secondo. Anche in questi due ultimi casi il richiamo non è tanto alle forze naturali, quanto alla società ed entrambi gli autori propongono un atteggiamento di distacco ed isolamento, mantenendo, però, caratteristiche molto diverse.
La cosa che dovrebbe maggiormente saltare all’occhio è come la riflessione sulla condizione umana spinga a vedere quest’ultima spesso come una situazione di continua turbolenza, così come in un continuo stato di irrequietezza pare voler essere la società in cui si è calati. Quella mitica età dell’oro tanto cantata nel Politico dettata da tempi più statici e dilatati cede il passo ad un ritmo di vita decisamente più frenetico ed incalzante che immancabilmente si riflette sulla psychè umana e, di conseguenza, sul tipo di società che questa contribuisce a produrre. I ritmi di una dittatura sono, a loro volta, assai simili a quelli di una tempesta: veloci e spesso improvvisi. Una dittatura non avvisa mai quando sorge o quando cade, così come non avvisa mai quando adotta un provvedimento verso un singolo o un numero di cittadini. Si manifesta e si abbatte come lo scoppio improvviso di un tuono che segnala che il tempo per correre ai ripari è oramai irrevocabilmente ridotto se non esaurito. I modi con i quali gli uomini messi al potere da un colpo di Stato o da una tirannide agiscono sono spesso veloci, al pari dei fulmini di una tempesta estiva, così come simili a piogge torrenziali sono i meccanismi di propaganda con i quali un dittatore spera di mantenersi in auge. Al contrario, i tempi della democrazia sono lenti, le discussioni prendono spazio e spesso rallentano l’applicazione di un provvedimento, ma, soprattutto, ogni democrazia che si rispetti avvisa con anticipo i cittadini dell’emanazione di una certa legge e riconosce loro il diritto di manifestare un certo dissenso e di organizzarsi per farlo. Spesso i detrattori della democrazia hanno paragonato il sistema democratico ad un pantano o ad una bonaccia, la lentezza dei suoi tempi passa così per un ostacolo allo sviluppo di un paese e una “tempesta” viene, invece, elogiata come sintomo di fase nuova e di cambiamento. Eppure la vita di ogni giorno dimostra come grazie ad una certa lentezza, un uomo può comunque avere una garanzia di tutela e impiegare il tempo per organizzarsi, reagire o accogliere il Nuovo.
Aristotele segnalava, in modo incisivo, gli svantaggi della democrazia, ma ne sottolineava anche il vero grande punto di forza ovvero quello di avere le degenerazioni meno cruente rispetto ad una forma di governo come la monarchia o ad un’altra come l’aristocrazia. Pur mantenendo un fascino di forza e di sgomento, una tempesta resta, così, pur sempre un elemento di pericolo e, in realtà, più di blocco del corso di una vita che non vita stessa.
Gianluca Mungo
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Note al testo:
6-H. Arendt, 2004, pag. 649
7- Arendt, cit., pp. 650 – 651
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BIBLIOGRAFIA
Arendt H., 2004, Le origini del totalitarismo, trad. di A. Guadagnin, Torino, Einaudi
Aristotele, 2001, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Milano, Bompiani
Camus A., 1965, “Le opere”, a cura di G. Cintioli, Milano, CDE
Conte G. B., 1989, Letteratura latina, Firenze, Le Monnier
D’Annunzio G., 1995, “Alcione”, a cura di P. Gibellini, Torino, Einaudi
Lucrezio, 2006, La natura delle cose, trad. di L. Canali, Milano, BUR
Montale E., 2004, Poesie, a cura di G. Roboni, Milano, Corriere della sera
Orwell G., 1989, “1984”, trad. di G. Baldini, Milano, Mondadori
Platone, 1994, La Repubblica, a cura di Sartore e Vegetti, Bari, Laterza
Platone, 1997, Tutte le opere – vol. IV, a cura di E. V. Maltese, Roma, Newton & Compton
Salinari C. e Ricci C., 1970, Storia della letteratura italiana, vol. III, Bari, Laterza.
Stenzel, 1966, Platone educatore, a cura di F. Gabrieli, Bari, Laterza
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RIFERIMENTO IN RETE:
https://cartesensibili.wordpress.com/2014/12/09/navi-e-tempeste-gianluca-mungo-i-parte/