Navi e tempeste – Gianluca Mungo (I parte)

ivan konstantinovič ajvazovskij

Ivan-Aivazovsky-Wave.

Nel presente lavoro, desidero occuparmi di un tema ampiamente sviluppato in ambito poetico e artistico: la Tempesta.
Spesso utilizzata come metafora di una certa condizione umana o simbolo di un’intera situazione, la tempesta, come elemento fenomenico, non ha mai mancato di affascinare quanti nel suo manifestarsi hanno visto una potenza distruttiva e spiazzante con cui l’uomo è chiamato a fare i conti. Spesso alla tempesta si contrappone la quiete di un paesaggio naturale dove si armonizzano le diverse forme di vita, quasi, però, dimenticando che la tempesta stessa è anch’essa espressione di vita da parte della Natura. È chiaro, comunque, che, istintivamente, si sia indotti ad ascrivere alla tempesta caratteri negativi. La percezione che l’uomo tende, infatti, ad avere di un simile fenomeno è quella di pericolo e, come ogni cosa che appare pericolosa agli occhi umani, anche di elemento con una forte dose di fascino. Ne è prova la nutrita produzione artistica e letteraria che ha, appunto, una tempesta come elemento principale di una narrazione o come sfondo di una scena.
Nella presente sede, voglio però analizzare il tema della tempesta così come esso viene affrontato in un ambito più strettamente filosofico nella sua veste di metafora della condizione umana. Il mio pensiero va a due autori della classicità che, utilizzando immagini di equipaggi in difficoltà o di tempeste propriamente dette, arrivano a conclusioni diverse riguardo, in particolare, al ruolo del saggio/sapiente nella società: Platone e Lucrezio. Entrambi ci descrivono la condizione umana simile ad una barca in preda alle onde o a problemi di organizzazione interna.
Nel VI libro della Repubblica, Platone ci paragona, per esempio, la vita della polis ad una nave che occorre di una guida in un momento di forte crisi. Il pericolo, però, non proviene dall’esterno, la vera tempesta che il filosofo vuol qui descrivere si svolge tutta all’interno della nave/città.
Riporto il testo:

Pensa che su molte navi o su una soltanto stia succedendo una scena come questa: figuriamoci un nocchiero superiore per grandezza o forza fisica a tutti i membri dell’equipaggio, ma piuttosto duro d’orecchio e così pure corto di vista e con altrettanto scarse conoscenze di cose navali; e i marinai che altercano fra loro per il governo della nave, ciascuno credendosi in diritto di governarla lui, mentre non ne ha mai appreso l’arte né può dichiarare con quale maestro e in quale tempo l’ha appresa; e inoltre affermano che quest’arte non si può insegnare, pronti anche a fare a pezzi chi la dica insegnabile; tutti sempre stretti attorno alla persona del nocchiero, a pregarlo e premerlo in tutti i modi perché affidi loro la barra .” (Rep., VI, 487 – 488)

L’esempio della nave, per molti versi, precorre il celeberrimo passo della Caverna e ne è forse ancora più indicativo per taluni punti. In tale immagine, si ravvisano, infatti, tutti gli elementi platonici riguardanti il ruolo del filosofo e della filosofia all’interno di una società e al rischio cui va incontro un professato amore per la verità. Da una parte l’accusa più stereotipata che possa essere rivolta alla filosofia vale a dire quella di essere inutile chiacchiera per via della sua vocazione ad una conoscenza del Tutto; dall’altra il dovere che, secondo Platone, dovrebbe essere proprio del filosofo, colto nella sua vocazione ad andare avanti allo scopo di portare un messaggio di coerenza tra un certo dire ed un certo fare. Il filosofo platonico ha, pertanto, un dovere verso la società che nasce dalla sua stessa inclinazione a filosofare e, in particolare, nella politica ovvero nell’educazione ad una certa vita spirituale e nel contempo pratica, la filosofia vede compiersi il proprio destino. Nell’esempio della nave è palese sia la consapevolezza che Platone ha delle accuse di inutilità mosse alla filosofia e della visione, assai superficiale, che di essa la società del tempo, in maniera non dissimile dalla nostra, si era fatta che l’intenzione di sottolineare un ruolo specifico della figura del filosofo all’interno di questa stessa società. Nel mito della Caverna i filosofi sono coscienti di rischiare anche la vita nel loro portare avanti un messaggio di verità, così come di ricevere pure un’offesa di natura morale ben più grave: la denigrazione del loro logos che si spinge a porre il filosofare ai livelli di una follia se non di insensatezza. In fondo, non v’è aggettivo più dissacratorio per un filosofo di quello di “acchiappanuvole” (‘scrutatore del cielo’ con chiaro riferimento a Talete che cadde nel pozzo mentre camminava, osservando e studiando le stelle). Il fatto che nell’arco della stessa opera una simile questione ritorni due volte in due esempi e in due libri diversi, suggerisce quanto sia importante, all’interno della filosofia socratica e platonica, la riflessione sul senso vero della filosofia. Dalle cronache del tempo, si evince, per esempio, che, coerentemente al suo stile ironico, Socrate riesce, forse per primo, a prendere in maniera bonaria la critica mossa a chi dà un certo e particolare quanto sarcastico alone al filosofare. Sappiamo, infatti, che un buon rapporto lo legava ad Aristofane e che non disdegnasse di assistere, con un certo piacere, alla rappresentazione delle “Nuvole”. Nel VI libro della Repubblica, l’interlocutore di Socrate, però non è Aristofane, ma un amico che sembra quasi volersi sfogare del fatto che a molti la Filosofia appaia come un’inutile perdita di tempo. Perché, infatti, porre tanta attenzione ad un qualcosa di propedeutico alla politica? La cultura classica vedeva nella politica il fine ultimo e l’occupazione principale della vita di un uomo: il cittadino della polis era chiamato a partecipare attivamente alla vita politica della propria città e le scuole di retorica e pensiero fungevano a formare i futuri rampolli della classe dirigente. La filosofia, in tale contesto, era vista dai più come una sorta di mero esercizio intellettuale che era bene, crescendo, mettere da parte. La risposta socratico/platonica confluirà nella famosa provocazione (uno dei tre “scandali” di cui parla Vegetti ) di presentare i filosofi come gli unici degni a salire al potere. La filosofia non s’identifica, così, con l’infanzia dell’umanità, bensì con la sua crescita e in un’opera quale il Fedone la stessa viene chiamata ad educare l’uomo alla preparazione della conclusione della propria vita. Una compagna, quindi, che segue la vita dell’uomo lungo tutte le sue tappe fino al suo epilogo. Per il singolo, l’opera della Filosofia finisce quando si conclude la vita di questi, una continua conversazione il cui “Alt!” è suonato dalla morte dell’individuo, ma che prima di allora è servita ora a demitizzare, ora a costruire una vita esistenziale più autentica e un atteggiamento più maturo e sereno verso la morte e, di conseguenza, verso le cose della vita. Nel momento in cui si parla di collettività, si parla però di storia dell’umanità e gli interrogativi qui coinvolgono tutte le contraddizioni tra un dire e un fare cui la vita quotidiana dà adito.
In tal caso, la filosofia non può esaurire il proprio compito con la morte di un individuo, ma deve andare oltre: è chiamata a dare un segno tangibile nella storia e ciò può farlo solo con la “paideia”. Il compito del filosofare è, pertanto, educare ad una ricerca più solida di una certa moralità. La nave non può continuare a stare in balia delle acque e delle chiacchiere che la bloccano, gli “acchiappanuvole” devono cercare di condurla ad un porto stabile. Quello che abbiamo, quindi, qui definito come una sorta di “tempesta interna” è, in realtà, una partita interamente umana: da una parte gli eventi; dall’altra l’opera di un essere dotato di raziocinio, ma anche di passione e come tale volubile. L’aspetto più peculiare dell’esempio della nave è che Platone non ci dice se effettivamente una simile imbarcazione si stia trovando in condizioni critiche da un punto di vista climatico e naturale: non ci viene descritto né uno stato di bonaccia né di tempesta, ma un autentico “tram tram” interno che arriva a sconvolgere la normalità della vita quotidiana di una polis in qualsiasi momento. In uno stato in cui tutti vogliono governare e fomentare i propri egoistici interessi, come più volte nota Stenzel , gli unici a restare fedeli alla propria “paideia” e a cercare di porre una certa Phronesis a guida dell’immaginaria nave saranno appunto i saggi, i quali si ritroveranno, però, ad essere inascoltati. Nella visione platonica, malgrado tutto, questi stessi saggi rimangono comunque al loro posto all’interno della nave, continuano a dimorare dentro di essa e non si allontanano neanche dopo la derisione. Subiscono il destino della nave né più né meno di come Socrate accetterà il proprio e questo nonostante essi sappiano in che modo andrà a finire una navigazione così mal gestita.
Per via di un simile modo di insistere sulla questione, Platone si rivela un pensatore “greco” e, nella fattispecie, “ateniese”: l’attività politica è e resta un bene, il fine ultimo in cui lo spirito filosofico deve concretizzarsi .
A distanza di anni, diametralmente opposta sarà la visione che Lucrezio avrà della filosofia e della politica: nel celeberrimo passo del II libro del “De rerum natura”, viene descritta una tempesta sul mare, ma, soprattutto, viene commentato il piacere che si può provare nell’osservarla, sapendo di non essere da questa toccati a differenza di chi invece deve affrontarla, rischiando la propria vita. Anche se non viene direttamente menzionato, è chiaro che il riferimento va all’equipaggio di una nave. Stavolta si tratta dunque di una tempesta in piena regola e l’ipoetico equipaggio che si può intravedere tra le righe è costretto a barcamenarsi e ad impiegare tutte le forze per non fare affondare la nave e cercare letteralmente di salvare almeno la pelle. Da lontano, assiste alla scena un saggio che, pur provando compassione per i poveri uomini, guardando al proprio stato interiore, gioisce del pensiero di vivere una situazione ben diversa. Facendo leva sul senso di sicurezza che psicologicamente ciascun uomo è indotto a provare quando si accorge di non esser toccato dal pericolo che incombe su altre teste, Lucrezio scrive:

È dolce, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare,
guardare da terra il grande travaglio di altri;
non perché l’altrui tormento sia un giocondo diletto,
bensì perché t’allieta vedere da quali affanni tu sia immune .”
(De Rerum natura, libro II, vv. 1-4)

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ivan konstantinovič ajvazovskij

Ivan Konstantinovič Ajvazovskij a.

E’ cambiata un’intera epoca e la nostra nottola di Minerva prende atto di quanto, nel frattempo, è avvenuto: la politica ha smesso di essere la principale occupazione degna di ogni uomo libero, la polis non chiama più a sé i suoi cittadini e la filosofia cambia il proprio ruolo. Se prima Platone spingeva il vero filosofo ad entrare nella caverna e a correre il rischio di farsi deridere sulla nave, in omaggio ad una visione in cui la filosofia deve diventare una sola cosa con la politica, in Lucrezio è l’esatto opposto: la filosofia deve allontanare l’uomo dagli affanni della quotidianità e sostituire un proprio chiuso spazio interiore al Daimon socratico, che invece pungola l’uomo a un ‘non fare’ che di fatto è, in realtà, una spinta ad agire. Si fa sempre notare, a riguardo, come il Giardino epicureo sia lontano dalla città né più né meno di come l’Accademia e il Liceo avevano sede al suo interno.
La tempesta descritta da Lucrezio non è causata dagli uomini desiderosi di potere, ma è un evento esterno che si abbatte su una società e che coinvolge quanti sono al suo interno. L’intellettuale sa che il rimedio è allontanarsi e trovare una certa solidità nel proprio animo, cosa, questa, che conferma come la ricerca di quiete intesa come lontananza dagli affanni sia l’unica strada percorribile per ottenere una vita beata. È impressionante quanto abissale sia la distanza tra i due autori: un saggio per Platone non può godere di una sua distanza dai problemi umani: quel che in Lucrezio diventa motivo e sintomo di serenità e di distacco, in Platone sarebbe stata impotenza e, pertanto, situazione da non ricercare. La filosofia ha senso solo quando diventa mero interesse per l’uomo e per i suoi interrogativi e si apre a quella che è un’autentica prassi politica. In Lucrezio, invece, il compito del filosofare consiste nell’alienare il saggio dalle passioni quotidiane: la politica è, così, tanto più in Platone un terreno di passioni come d’ideali in cui filosofare significa tracciare le differenze delle une dalle altre quanto in Lucrezio è solo cumulo di passioni e di affanni legati ad un momento effimero che conduce l’uomo ad una manifesta vanitas vanitatis. Il filosofo epicureo non trova, dunque, posto all’interno della barca, ma preferisce starsene lontano e passeggiare sulla sicura terraferma, guardando, in maniera distaccata, la società né più né meno di come il filosofo platonico assiste le cose all’interno di essa e parla con i suoi diretti protagonisti.
Prepararsi alla morte in Socrate voleva inoltre dire vivere intensamente le cose della vita e meditarle; in Lucrezio la morte ideale è, come in Epicuro, il sereno spegnimento di una vita interiore conscia della materialità dell’esistenza e della necessità di distaccarsi dalle vacuità della vita quotidiana.
In entrambi gli autori la metafora di una nave con il suo equipaggio in pieno affanno è usata con intenzioni, come abbiamo visto, diverse. Nel secondo di essi, in particolare, si avvertono gli echi di un’epoca in cui la politica è uscita dalle piazze per chiudersi nei palazzi di potere e la discussione è affrontata all’interno di chiuse stanze. I problemi dell’uomo iniziano ad essere così marcatamente ancora più individuali ed esistenziali e, soprattutto, non più oggetto della “politica”.
Se nell’Etica Nicomachea, Aristotele continuava ad insistere che fine della politica fosse l’eudaimonia , in Epicuro prima e in Lucrezio dopo cambia l’ottica della “felicità”: essa non è amministrazione e cura del bene comune o, meglio, della giustizia vista come dimensione per realizzare la ricerca etica e pertanto filosofica, né, tanto meno, ricerca di un Sapere superiore quanto distacco dagli affanni quotidiani mentre quel che in Platone come in Socrate era dovere del filosofo, negli epicurei diventa mera ambizione. L’uomo, in sostanza, cessa di essere uno “Zoon politikòn” per divenire soprattutto individuo.
Prendere coscienza della materialità dell’esistenza è il primo passo per comprendere la vacuità delle ambizioni umane e la filosofia invita il saggio a non affrontare mai la tempesta, ma a guardarla, un po’ compiacente, da lontano. Un poema che iniziava con l’inno a Venere e si chiudeva con la drammatica rappresentazione della peste di Atene induceva secoli dopo un San Gerolamo a ipotizzare il sopravvento della follia nella mente dell’autore. Vista da una certa prospettiva, in realtà, la descrizione di un malessere che, appunto, al pari di una tempesta si abbatte su una città come Atene in piena gestione di una strategia di guerra quale quella voluta da Pericle per controbattere l’offensiva spartana, dovrebbe far meglio cogliere l’essenza della vacuità umana che sta alla base dell’esasperata ricerca di un trionfo, non curante che tutto ha una fine, che gli eccessi volgono sempre al peggio e che l’uomo nulla può contro gli imprevisti (Pericle non poteva certo prevedere che l’ammasso di gente all’interno delle mura del Pireo avrebbe facilitato il diffondersi dell’epidemia) e contro un destino che lo porta necessariamente al nulla. L’unica soluzione che l’uomo può trovare è a livello individuale e non collettivo ovvero accettare la realtà nella sua essenza materiale e nella sua caratteristica di esser sempre e comunque volta ad una fine per dedicarsi, così, alle poche cose importanti che possano assicurare una certa serenità interiore, tenendo, di conseguenza, lontani i falsi timori (morte e dei) e gli inutili affanni.
Socrate e Platone, a differenza di Lucrezio, avevano, però, assistito direttamente allo sfascio di Atene e di tale esperienza avevano tratto l’interesse più vivo per affrontare direttamente i problemi della vita etica e politica, dando alla filosofia un ruolo di farmaco molto diverso da quello che avrebbe poi descritto Epicuro. Al pari di una medicina che consente ad un corpo malato di riacquistare salute e vigore per riprendere le attività di sempre, il filosofare avrebbe dovuto restituire all’anima i suoi orizzonti più propri e quindi riconsegnarla ad una sfera politica.
Tanto in Platone quanto in Lucrezio, la metafora della tempesta non è, dunque, semplice riferimento alla politica, ma alla vita in generale così come essa va affrontata giorno per giorno: il male in Platone si può curare; in Lucrezio è solo da accettare e da tenere lontano.

Gianluca Mungo

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Note al testo

1- Platone, 1994, pag. 201.
2- Platone, 1994, pag. 4
3- Stenzel, 1966, pag. 258
4- Lucrezio, 2006, pag. 157
5- Aristotele, 2001, I, 3-4, 1095 a 5 – 1095b 6, pag. 55

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