aitch
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Ogni volta che leggo i testi di Iole Toini resto sempre sospesa, come dentro un flash, poi il movimento che s’innesca mi porta in luoghi lontani tra loro, sia nel tempo che nello spazio, sono luoghi inattesi, spesso chiusi, addirittura abbandonati da lungo, dietro cortine di età e distanza, distanza presa da me stessa. Iole mi riporta là, dove qualcosa non doveva andare persa, dove ancora abita l’anima e vale la pena ripercorrere quei tratti di sé rimasti in bilico, sospesi in un vuoto di tempo. Per questo e ancora altro che considero punti di osservazione acuti, intensi, dalle sue letture del mondo offro uno scritto recentissimo, apparso nel blog personale di Iole: alveare . Il testo in questione mi ha riportato a Pratolini, al rione in cui facevano Quartiere i suoi ragazzi e ragazze , intorno agli anni 40, tra vie popolari e peripezie o peripli d’amore, colti nell’attimo in cui si passa dall’adolescenza alla giovinezza ma sopratutto si fa pratica di quei sentimenti che a poco a poco ci educano, tutti, formandoci così come saremo anche dopo, una volta diventati adulti. Mi piace l’ intreccio che propone, in cui affiora una situazione sociale precisa e in cui i fatti personali s’intrecciano con i luoghi ma anche con le vite degli altri, mostrando la complessità di ciò che costituisce davvero il nostro corpo, una creatura non comune, pur sembrando comuni le esperienze che si vivono e ci vivono.
Vivace la luce e i colori delle stagioni che sono attimi di quella vita tra case silenziose e pareti di bosco, barriere di alberi, abeti, in cui però niente resta isolato. E c’è, nelle sue righe, quella rivoluzione dello sguardo che coglie nell’altro da sé quel sé ignoto, che ci afferra e un po’ ci stordisce, ci impaurisce fiorendoci in corpo quel sè-greto del profondo, quello che sempre riportano i suoi versi.
Nella dolcezza del vuoto lasciato a schiarire
si è disseccata la terra dove i corpi – stesi, vicini –
per una volta si sono davvero baciati
Poi qualcosa è caduto.
Sono caduti gli alberi e i colpi
del sole hanno fatto un buco nel petto.
Ruote di bicicletta, montagne, tutto perso
in quel buco che pareva senza scopo.
Iole Toini non rinuncia mai a guardare, ad ascoltare il vento e gli altri elementi che in montagna, immersi in un silenzio che non lascia tregua, ci porta inevitabilmente a guardarci non solo intorno ma soprattutto dentro.
fernanda ferraresso
aitch
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Non credo agli angeli, né tantomeno ai demoni. Non ci ho mai creduto, nonostante in famiglia si raccontassero spesso storie dove il bene e il male facevano da cartello indicatore. Abitavo un luogo solo mio che assecondava soltanto in parte il mondo di fuori. Sentivo che c’era dell’altro da sapere, uno spazio che si muoveva oltre il confine delle cose approvate. Forse un pericolo, forse qualcosa di diverso che non veniva accolto solo perché sconfinava al di fuori di canali facilmente percorribili. Non ero propriamente una ribelle, ma certo non avevo un’indole facile. Francesca arrivò un’estate, come una falce. Recise gli ultimi deboli ossicini che sacrificavo al mondo regolare. Francesca era quello che io non avrei mai saputo essere. Veniva in montagna in estate coi nonni. Affittavano la cascina vicina a quella di mio zio. Non erano ricchi, ma erano sufficientemente diversi dalla mia famiglia da potersi concedere una vacanza. Aveva capelli castani, lunghi fino alla schiena. La voce era roca, le graffiava la gola, la faceva più adulta dei sui dodici anni. Era più piccola di me di un anno, ma la sentivo tanto più grande per come sapeva lasciarsi toccare dal mondo. Aveva addosso un odore selvatico, come se i modi disinvolti le venissero da dentro la carne e l’aria che respirava subisse una rivoluzione, ne uscisse stordita. Quando arrivava era una festa. Mi chiamava dalla finestra: vieni, sono arrivata! Non avevo amiche, vivevo in un posto isolato, fuori dal paese; a volte scorrazzavo con mio cugino per i boschi, in cerca di funghi. Ci si inventava di mostri, le lotte, le principesse. Spesso stavo sola. L’eccezione era lei, Francesca, e quei due mesi scavalcati di mondo. Mi chiedevo cosa ci trovasse in me da farle venire voglia di cercarmi, di passare proprio con me tutto il tempo delle sue vacanze. Quel periodo era come attraversare il muro, passare dall’altra parte del vetro. Stavamo insieme dalla prima mattina. La maggior parte del tempo lo trascorrevamo nel prato a parlare. Oppure andavamo per sentieri, a raccogliere more. Si muoveva in mezzo ai cespugli impalpabile, come non facesse parte del mondo, ma fosse felice di starci e lo vivesse con quel meravigliato stupore di scoprirlo dentro ogni cosa. Mi raccontava della sua casa, la gente che ci passava, gli amici di sua madre, i vestiti estrosi che vedeva indossare dalle loro donne. Sua madre la immaginavo bellissima, truccata, allegra e sempre circondata da uomini.
La sua casa era sempre piena di gente. Era per lavoro, diceva. Non ho mai capito di che si trattasse. Certo qualcosa per me di sufficientemente misterioso da renderlo affascinante.
Mi diceva che c’era un uomo, uno grande, che veniva spesso da loro. Lui le sorrideva, le sfiorava la guancia. Lei rideva, diceva che prima o poi lo avrebbe baciato, così, perché le andava di farlo. Ma a Francesca piaceva Gianni, un ragazzo di quindici anni che viveva poco lontano da casa sua. Un tipo che sembrava sempre infuriato, passava sotto casa la mattina col muso incollato alle scarpe. Con quel modo scontroso di schivare le cose, a lei gli andava dentro fino sul fondo. Mi raccontava che conosceva sua madre, aveva un negozietto di frutta, era senza marito e tirava a campare come poteva. Lei parlava e parlava, io restavo a ascoltarla senza altro mondo. Sorrideva spesso Francesca, aveva una bocca grande, ma in armonia col resto del viso. Camminava con un movimento sciolto, le natiche sode curvavano decise in cima alle gambe. Non so perché la guardassi in quel modo. Aveva una sorta di magnetismo che sentivo salire dentro la pancia come qualcosa di strano. Con lei ho indossato per la prima volta un costume, li avevo visti in televisione. Fino a quel giorno pensavo servissero solo per il mare. Sentirmene uno incollato alla pelle fu una sensazione curiosa. Mi sentivo ridicola infilata in un costume e tutto intorno niente altro che boschi e montagne. Ma lei seppe da subito mettermi a mio agio. Stese una coperta sulla terrazza: sdraiati qui, vicino a me – disse – così ti abbronzi un po’. Le guardavo le gambe tornite. I piccoli seni erano noci che spingevano contro la stoffa.
Era bella, teneva gli occhi chiusi, le braccia lungo i fianchi. Mi allungai vicino, attenta a non toccarla, con l’apprensione che invece viene proprio dal desiderio di farlo, sentendomi impaurita da questo impulso. Era come stessi provando a fare la grande, come infilarsi i tacchi alti, con l’unico vestito di festa della mamma. Ma non stavo imitando nessuno. Intuivo che il sole, il costume, erano un pretesto, un necessaria rappresentazione per esprimere quello che entrambe volevamo ma che non si poteva dire.
Lei sapeva aprirmi come una castagna. Restavo lì, senza guscio con l’aria che mi percorreva. Mi toccò la mano, disse – ti va se ti bacio?. La testa mi girava, forse era tutta quella luce rovesciata addosso. Mi voltai verso di lei senza dire una parola. Mi infilò un braccio sotto la nuca, come avevo visto fare nei film. Mi passò la lingua sopra le labbra. Tenevo gli occhi chiusi, avevo paura di guardare, o forse volevo poter sentire così forte da non perdermi niente.
Non volevo che smettesse. E’ bello – disse. La sua mano mi accarezzava. Fallo anche tu. Mi sono chiesta più tardi se mi innamorai di lei. Non so. Certo la mia fu una dedizione cieca al suo corpo, a quell’estroso ripetersi del sorriso che non nascondeva niente. La libertà di viversi senza sentirsi sbagliati con lei veniva facile.
Iole Toini
leggo Iole e avevo letto il suo inedito ricevendo una sensazione fisica di viaggio, di movimento rappresentato in modo vivo, quasi vicino al lettore inteso come “corrispondente”, altro dialogante
è una scrittura pregna di colori, li contempla tutti, le parole sviluppano l’interezza della vita, non nascondendo suoi “tratti” o spicchi o specchi
grazie Fernanda per averla proposta qui
[…ci impaurisce fiorendoci in corpo quel sè-greto del profondo…]
la poesia mi ha permesso almeno in parte di guardare dritto in faccia il mio uomo nero – nel bene e nel male – e farci in qualche modo i conti.
un processo che – come tu mi insegni – non smette mai e che spero mi aiuti a dare a me stessa il volto o i volti che sono.
che dirti, Fernanda, grazie immensamente della generosità con cui mi offri sempre te stessa.
con amore e stima
iole
davanti alla poesia che offri mi sento sempre in debito.Grazie a te. f
parole che illuminano emozioni profonde restituendole alla coscienza.
Iole è unica in tutto quello che scrive. La si conosce di più per la poesia, invece eccola con un racconto delicato, profondo, a me pare perfetto. Grazie a Fernanda per averlo proposto e un caro saluto a Iole.
hai assolutamenta ragione Daniela e cerco di trarla fuori dalla sua tana, dalle sue montagne in cui questo magnifico mondo ruota nuove ellissi. per portarle anche ad altri. Tra qualche tempo avremo la possibilità di leggerla in una raccolta di poesia ….una vera strenna di Natale. Avrete notizie. ferni
grazie a Giovanna per la sua lettura e le parole generose.
grazie sempre a Daniela che da sempre è responsabile ( nel bene e nel male :) ) delle cose che scrivo
a Ferni mia musa ispiratrice grazie di ogni.
ciao a tutte!
stupenda scrittura, parole chiare per raccontare qualsiasi cosa, semplicemente. Tra le letture più belle. Iole è davvero speciale. Grazie