IL BIANCO E IL NERO- profondità e riverberi nel percorso di Paola Mongelli- Marco Ercolani

paola mongelli- my mirror
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L’esposizione di Paola Mongelli, IL BIANCO E IL NERO (sabato 29 marzo–21 giugno 2014, Galleria Civica d’Arte Contemporanea Filippo Scroppo, Torre Pellice) raduna la prima antologica fotografica dell’autrice torinese, già nota per diverse mostre personali (Senza titolo, India, Benin, Anima e corpo, Mio padre (non è un cuoco, etc.) e collettive (On the move – Quartetto, etc…)
Mongelli si confronta, negli spazi ampi e accoglienti della Galleria Civica d’arte contemporanea, con l’insieme della propria opera, e per la prima volta lo spettatore è guidato nella complessità del suo mondo interiore come dentro un libro composto ormai di diversi capitoli, che si differenziano, si assomigliano e si rifrangono attraverso il calore dei “bianchi” e la profondità dei “neri”. Il bianco e il nero (la semplicità classica del titolo già lo rivela) situa l’autrice dentro le diverse tappe della sua fotografia, che è l’esposizione senza maschere del suo viaggio psichico: Bellevue, La flamme d’une chandelle, Hara, Benin, Mio padre (è un cuoco), India, Selfportrait, Rampicanti, Vele, Giardino, Anima e corpo, Occhi, Interno e Neve.
La mostra comincia con un’opera isolata: Bellevue. La nonna dell’autrice, fotografata accanto a un drago dipinto sopra un muro, è colta in atteggiamento di fierezza: è questo il lasciapassare che consente al visitatore di capire uno dei nodi di questa esposizione, la fierezza dello sguardo femminile come vittoria, anche temporanea, contro il prevalere delle ombre.
Il bianco e il nero delle foto di Paola scopre, allo spettatore, un paesaggio composto e austero, la cui potenza non smette di ardere lentamente, dai lampi espressionisti dei Selfportrait ai rembrandtiani chiaroscuri di Mio padre (è un cuoco), dall’ipnotica danza corporea di Hara ai lumeggiamenti commossi di India e Benin. Ma è forse in Occhi, dove i crateri scavati nelle cortecce degli alberi sembrano occhi umani dolenti, che Mongelli ci rivela meglio come la sua foto non smetta di pensare se stessa come umana posizione rispetto al proprio vedere. Come i guerrieri-sentinelle espressi dai platani di Anima e corpo. Ogni fotografia è gesto intimo, sonda nel proprio essere. Guardiamo i paesaggi scancellati di Neve e leggiamo ciò che ne dice l’autrice: “Ciò che la neve nega alla vista è ciò che il mio scavare vuole ritrovare. Però sotto, invece delle cose, piccoli salti nel nulla: amnesie dell’occhio, bianchi sprofondamenti, incursioni nell’incerto e nell’ignoto. Ed è proprio l’ignoto a stimolare la curiosità del vedere, di cui è stretta necessità”.
La necessità dell’incursione nell’ignoto mi sembra una delle cifre del lavoro “classico” di Mongelli. Queste foto ci parlano sì degli sprofondamenti della psiche nel bianco e nel nero dei propri labirinti ma anche e soprattutto delle tenaci resistenze che l’occhio trova, determina, impone a se stesso. I veli-vele che oscillano dai terrazzi, i nodosi tronchi dei platani, gli occhi-crateri degli alberi, i solenni e complicati altari dei rampicanti, la “grana” scura e dolente degli autoritratti, le mattonelle vive e potenti di interni privi di esseri umani, tutto ci parla delle risonanze del dentro e del fuori che questa fotografia, modellata e lavorata in camera oscura, quasi ”dipinta” nelle sue ombre e nelle sue luci, sa far scaturire nello spettatore. Osservare i “cicli” di questa opera è osservare il lavoro strenuo di un’anima che ha saputo costruire dentro l’oscillazione delle emozioni una sua austera intensità, un rigore compositivo che ha permesso a quelle emozioni di svilupparsi e non di dissolversi, di essere non vaghe impressioni d’ombra e di luce ma composte e perentorie tracce ancorate al visibile per il bisogno di esprimere l’invisibile. Non è un caso che Mongelli prediliga l’opera di Bavcar o Woodman, fotografi “estremi” che hanno sempre praticato la loro arte come sismografo visionario-e-reale di un sentire mai omologato.
Mongelli si serve di un bianco e nero ottenuto con tecniche fotografiche tradizionali, in modo da costruire un dialogo con le cose fatto di empatia dolorosa, riflessione sulla condizione umana, tra l’essere e il paesaggio, in una sinestesia dove esplorazione di sé e osservazione del mondo finiscono per sovrapporsi, una entrando nell’altro. Stimolo centrale sembra la volontà di rivelare la natura nascosta delle cose, di mettere a fuoco l’anima del mondo visto e fotografato non attraverso un’astrazione mentale ma nella molteplicità delle sue forme, nella singolarità dell’occhio vedente.
Essere spettatori di questa mostra è come assistere a un film dove non si tratta solo di vedere dall’esterno come si sviluppa una storia, con i personaggi, i paesaggi, l’appropriata sintassi che li lega, ma percepire dall’interno, come accade nel primo cinema di Tarkovskij, la “necessità” di quelle luci e di quelle ombre nel ritmo esatto e non ripetibile di uno sguardo vertiginoso: quel “nero di Paola” (suggerisce Enrico S. Laterza), “bianco-e- nero, forse. Bianco assoluto. Dentro le infinitesime sfumature del nero”: quel personale “scolpire il tempo” così come si modula nella psiche dell’autrice e nelle foto che lei “lavora” con erotica intensità fino a cercare il massimo di espressione possibile, ai confini del silenzio, un silenzio cancellato o dal bianco o dal nero.
L’esposizione di Torre Pellice sigla un periodo della vita artistica di Paola, forse non concluso ma di certo già definibile: è una firma che le permette di ricapitolare il suo passato. Il futuro dell’artista possiamo intuirlo dalla sua volontà di sperimentare campi ulteriori (disegno, performance, ancora fotografia), che aprano varchi nuovi a una ricerca appena iniziata.PAOLA MONGELLI – Vive e lavora a Torino. Formatasi all’Accademia Albertina di Belle Arti, intraprende sin da principio una personale ricerca attraverso l’immagine fotografica. Ha partecipato a varie mostre personali e collettive ed e’ presente con le sue opere in diverse collezioni private e in Fondazioni. Servendosi di un bianco e nero ottenuto con procedimenti fotografici tradizionali, ritrae una realtà carica di valori affettivi ed emozionali, con cui intrattiene un dialogo fatto di empatia, contemplazione, di riflessioni sulla condizione umana che prendono spunto dalle corrispondenze tra l’essere, la natura e i suoi elementi, in una dimensione in cui l’esplorazione di se’ e l’osservazione del mondo finiscono per sovrapporsi. Stimolo centrale di questo lavoro e’ la volontà di rivelare la natura nascosta delle cose, mettere a fuoco l’anima del mondo dietro alla molteplicità delle forme.

Marco Ercolani
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HARA (2005)
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Hara è una piccola, solitaria, ipnotica performance. Danza del ventre in versione contemporanea. Esplorazione del centro di sé.
Uno specchietto.
Un raggio di sole.
Il mio respiro.
In nove scatti.

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RAMPICANTI (2007)
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Rampicanti, (o Sindrome degli antenati), è una metafora sui legami di discendenza, sulle invisibili alleanze che accomunano le generazioni all’interno di una famiglia: le gabbie del pensiero, l’eredità involontaria dei limiti, la coazione a ripetere, l’irretimento.
Una riflessione sulla libertà, sulla necessità di realizzare il proprio destino, sulle difficoltà di scegliere in autonomia l’orizzonte del proprio cammino di crescita…GIARDINO
2012Un omaggio monocromo alla bellezza disarmante dei fiori.«L’uomo primordiale trascese la propria condizione di bruto offrendo la prima ghirlanda alla sua fanciulla. Elevandosi al di sopra dei bisogni naturali primitivi, egli si fece umano. Quando intuì l’uso che si poteva fare dell’inutile, l’uomo fece il suo ingresso nel regno dell’arte.
Nella gioia come nella tristezza, i fiori sono i nostri amici fedeli. Con i fiori mangiamo, beviamo, danziamo e amoreggiamo. Con i fiori ci sposiamo e battezziamo. Senza di loro non osiamo morire. »  Kakuzo Okakura
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paola mongelli- LA FLAMME D’UNE CHANDELLE

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LA FLAMME D’UNE CHANDELLE  (2001)
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«Nella galleria di A.W. stavo guardando questa serie di fiammelle addomesticate in cornice quando ho sentito la domanda di Paola: “quale preferisci?” Sul momento la domanda mi è parsa sconcertante, poiché, a un primo sguardo frettoloso, tutte queste fiamme parevano somigliarsi. Ma ho capito d’un tratto la lezione. Bastava guardare bene. I fuochi (quei fuochi, in particolare, così trasfigurati dall’atto artistico) i fuochi noi li possiamo riconoscere: come persone, viventi del loro prestigio. Di più, il barbaglio che guizza davanti al nostro sguardo ipnotizzato ha la forma ideale di qualcosa che ci dirige e ci sopravanza. Ben altro, rispetto a una banale identificazione psicologica. Queste fiamme lasciano come segno in chi le osserva una piccola, invisibile ma decisiva ustione.»   Dario Capello.

paola mongelli- self portrait

paola mongelli -self portrait

SELF PORTRAIT (2003)
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Courtesy ISTITUTO GARUZZO PER LE ARTI VISIVESenza corpo. Senza ingombro di pensieri. Acefalo profilo.
Lontano dal presente, là dove tutto è già passato, tutto sta per accadere.
L’eco della vita culla in sottofondo il mio assolo di dormiveglia: io, incastonata nel ventre profondo del cielo. Come la luna, senza compagnia.
Passaggio notturno. Al riparo dal dolore della trasformazione, dallo schianto della nascita, dai desideri. Quasi uguale a me stessa.
Riposo astratto e senza sogni. Nessun senso trafitto, nessun senso da dare.
Resta quest’onda, la sua traiettoria, da sempre un fiato ostinato che sospinge e solleva. Io. Rifletto, con la grana d’una pelle antica, la luce cangiante delle emozioni..INDIA (2004)
Courtesy GALLERIA PAOLO TONIN
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Una notte in pieno sole. Luce ideale allo sguardo interiore, quello dagli occhi socchiusi, che sa leggere i lineamenti più sottili, i chiaroscuri più complessi, i riverberi normalmente azzerati dal chiarore arrogante del giorno.
L’aria è cenere sparsa fatta di odori, suoni, rumori, fame. Cielo e terra insieme: una patina. Quella che avvolge i grandi misteri, inseparabile dai segreti che racchiude.
Qua e là flash inattesi, piccoli incendi, cortocircuiti. A tratti il velo si squarcia, dentro tutto vacilla sotto i colpi delle contraddizioni. Intuizioni fulminee, da afferrare più con il corpo che con la mente.
E, soprattutto, gli Indiani. Enigmi di carne, ossa e respiro, vortici di fatica, di rituale in rituale. Un fascino lugubre e sensuale, un’eleganza innata, sconcertante. Gioielli preziosi: a loro è richiesto, per vivere, non semplicemente di esistere ma di brillare al buio..

paola mongelli- mio padre (è un cuoco)

paola mongelli - mio padre è un cuoco

MIO PADRE (è un cuoco) – 2009
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No, non è un cuoco. Mio padre cucina per passione. Gli ho regalato una divisa e lui l’ha indossata per me.
Ho scattato queste immagini d’un soffio, girando attorno a mio padre come attorno ad un pianeta sconosciuto. Questa esperienza ha dischiuso al mio sguardo e al mio sentimento una prospettiva nuova, che la fotografia ha tradotto nel calore della luce, nelle profondità dei neri.
I titoli sono parte integrante del lavoro, qui parla la mia voce bambina che, come intonando una filastrocca, accompagna di foto in foto, sospesa tra passato e presente, ingenua e a tratti rivelatrice….BENIN  (2008)
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In Benin ho avuto il privilegio di vivere a contatto con la gente del posto, condividendo con loro momenti di quotidianità.
Di continuo il mio sguardo era rapito dalla grazia e dalla bellezza di tutte quelle figure: i bambini, gli adulti, i vecchi, la forza dei loro sguardi, il mistero della loro pelle, così luminosa e scura ad un tempo.
Le scene di vita e i ritratti spontanei che ho scattato durante il mio soggiorno testimoniano l’emozione di questo incontro, cercando di preservarne il segreto. Queste immagini sono un modo di ringraziare ciò che si è offerto al mio sguardo ed ha profondamente arricchito la mia vita..

paola mongelli- neve

paola mongelli - la neve

NEVE (2002)Inseguo la luce bianca attraverso la cancellazione, lo scoloramento. Il bianco affiora in superficie e, sotto il bianco, un altro bianco.
Nell’incontro con la luce l’immagine trova il suo senso. Un raggio va verso l’occhio, lo anticipa, lo chiama. Luce bianca, veste del reale. O realtà, denudata dallo sguardo illuminato.Ciò che la neve nega alla vista è ciò che il mio scavare vuole ritrovare. Però sotto, invece delle cose, piccoli salti nel nulla: amnesie dell’occhio, bianchi sprofondamenti, incursioni nell’incerto e nell’ignoto. Ed è proprio l’ignoto a stimolare la curiosità del vedere, di cui è stretta necessità..

paola mongelli- anima e corpo

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ANIMA E CORPO (2006)
Courtesy PIERO GILARDI; Collezione Privata
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Questi platani mi sono apparsi all’improvviso come guerrieri, eroi cristallizzati, fieri delle loro ferite. E così li ho schierati, plotone compatto, incarnazione di un messaggio: il dolore è privilegio del vivente. È dal legame con la Natura che ci arriva la forza per trasformarlo.
Un potente richiamo alla presenza, ad esserci con l’anima ed anche con il corpo. Il nostro corpo: non una fragile apparenza ma radicata, preziosa consistenza..

paola mongelli- occhi

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OCCHI (2006)«In tempi cupi, l’occhio comincia a vedere
Theodore Roethke
.«In questa sequenza di immagini prossime all’astrazione il realismo fotografico si ribalta in onirismo visionario e il rapporto empatico fra soggetto e oggetto raggiunge l’apice della sua intensità. Nella con-fusione degli elementi in gioco i ruoli si scambiano e si invertono: ciò che prima era oggetto di osservazione, adesso ci guarda e ci ri-guarda da vicino. Mi sembra stia proprio qui il punto essenziale di questa ricerca, nell’ostinata volontà di mettere a fuoco la natura nascosta delle cose, l’anima del mondo. » Gabriella Serusi.

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BELLEVUE (nonna) 2010.
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