alice wellinger
Narda Fattori ci chiede coraggio. Coraggio chiede a se stessa. Chiede forza a chi legge le recenti sue poesie. Perché esse incontrano, in un cammino dentro un serio e crudele scompenso cardiaco, la fine possibile dei suoi giorni, la morte.
Guardata e nominata, dunque ammessa questa presenza nemmeno troppo silente, con una limpidità mentale restituita non su un incontro di contrasto o di conflitto ma con lo sguardo sereno di chi è stato messo in scacco e incastonato nel versante hominum generis. Ciò, prima che avvenga la rasserenazione calata da un atteso aldilà, per quanto sconosciuto tuttavia di probabile esistenza, prima cioè della proiezione extraterrestre.
Significano questa lettura le strofe-stanze ariose, i novenari e gli endecasillabi, i settenari celati in versi lunghi, il ritmo che li sostiene pur nel negativo di ritorno: «ormai tutti i miei rebbi sono curvati / e più non riescono a farsi uncini / ma la forma ha una sua armonia scura / da ringhiera di balcone che consente / il riposo al pettirosso con l’aria per il volo».
In tale spazio trovano un posto la pietà e la richiesta di pietà, il perdono e la domanda di perdono, l’amore per i cari e quello per un mondo che raramente ha ricambiato l’affetto e la dedizione, quei sentimenti naturalmente scaturiti e, poi, coltivati per la basilare comunanza e la condivisione della stessa sorte, un participio di necessità al presente quasi mai al passato.
Limpidità e chiarezza, senza nascondimenti. Non si può nascondere a se stessi la realtà. Così la parola diventa comunicazione non di esperienza ma di pensiero-ectoplasmatico suscitato (anzi, derivato quasi) da quella esperienza (malattia di sé, malattia inconsapevole degli altri) mai conclusa perché costantemente agita, avendo occupato il corpo profondo dell’evidenza.
Nasce, così, la visione di una porta in cui si affollano l’immagine della veniente e le immagini della memoria. Da un lato una sorta di biancore (che non sembra essere il nulla oscuro di caproniana ascendenza: mi viene alla mente, per esempio, Res amissa o il “galoppo” pascoliano), dall’altro il vissuto con le sue pienezze e i suoi vuoti, con i conti che non tornano mai. (Ma perché, rilancia anche questo interrogativo Narda Fattori, dovrebbero tornare se il senso, della vita e delle “cose” della vita, continuamente viene cercato e ininterrottamente è sempre da cercare?)
La poesia di Cambiare di Stato morire di natura, tuttavia, sulla soglia della porta su nominata, allarga a mio parere il raggio di incidenza e si riconnette a interrogativi presenti fin dai libri di esordio della poetessa romagnola: lo stare in bilico ha una implicazione che va oltre se stessa, scivolata e raccolta dal contesto. (Intendiamoci: non ritengo necessario che il contesto debba per forza connotare il testo. La poesia, quando è, è e basta. Soggettiva, intersoggettiva, o esterna a sé che sia).
La scrive Narda Fattori quella sospensione bilicata. La scrive nella poesia. E non cessa di scriverla o insiste a scriverla la poetessa: «senza una ragione / forse per una parca identità residuale / forse per regalare fiabe a chi non sa / invecchiare dentro opache costumanze».
Ề l’implicazione del vivere con altri, dell’aver diviso tempi non avendo trovato, né rinvenuto nei lacerti odierni, nulla da raccogliere insieme, per cui di tutto un dono che si fa di sé (o si suppone si faccia: è l’illusione bella che permette di vivere sentendolo fino in fondo tale dono) resta un niente. Troppa vita e il niente. «andarsene per troppa vita andarsene / per ingoiare l’azzurro cielo il blu del mare».
Confesso: a questo punto, e alla fine dell’intenso Cambiare di Stato morire di natura, nona raccolta di un’autrice importante nella poesia contemporanea, la malattia sua terribile e traditrice mi è lontana, mi ha lasciata. Penso, invece, a come è questa vita che amiamo e che non ci ama, che non amiamo e, invece, ci ama. Lei, vita mai fuori di sé, sempre in sé, anche quando gli altri, il contorno, i dintorni sociali, i riscontri pubblici, non riconoscono i volti della loro sconfitta dietro la totale indifferenza.
Maria Lenti – Urbino, aprile 2014
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alice wellinger
Da Cambiare di Stato morire di natura, Narda Fattori
E suoneranno a distesa le campane
e qualcuno chiederà chissà perché
ma già dalla lontana radura potrò
guardarvi con l’occhio asciutto
mi prenderò cura degli spigoli acuti
dei sassi che avete sotto i piedi
sì allora sarò leggera e avrò mani
quante bastano per acconciarvi
come non ho saputo fare prima.
Fischierà il merlo sul corbezzolo
riderà di me come è giusto che sia
anch’io riderò per gli inutili affanni
che mi hanno spezzato il fiato
e un poco soltanto anche la mente
sarà bello circondarvi la vita
portarla dentro i girotondi nel mondo
che si fa chiaro di luce nel suo nocciolo
silenzioso di pace perché tacciono
i fucili e l’ottuso bailamme
che disconosce mio fratello morto
mia sorella storpiata e mio padre
estraneo a bocconi sopra un carro
e rideranno di voi miei cari amati
della mia terra ubertosa e gentile
spesso un po’ pacchiana ma sapete
la gente che accoglie sempre e ride
con tutti coltiva qualche vizio e resta
con l’uscio aperto a disposizione.
Suoneranno a distesa le campane
e dal corbezzolo fischierà il merlo
e sarò stata viva e vera e indolenzita
più lieve di una foglia cadere lieve.
*
Non ho che uno sguardo presbite
per vedervi tutti- ammassati una ressa –
e chi saluta con calore e chi strattona
e chi mi chiama a alta voce e chi si tace
foste come un luccichio di farfalla
nei giorni chiari e la favola lunga
dei cirri in corsa a mutare fisionomia
siete il caffè del risveglio la buona
mattina che non mi ferisce l’occhio
e torniamo a schiera nei cortei
a urlare parole d’ordine grosse e rosse
come in un grappolo d’uva matura
e torniamo a gruppi sulla spiaggia
con lo sciacquio che annuncia il mare
e un coro stonato per un basso
che accompagna anni che avevano
stelle nelle pupille e un’utopia in testa
coccinelle di buona sorte sul dorso
della mano fate il morto- vi ho spaventato
con un lapsus un gesto sconsiderato-
e mi temete lo so e fate il morto
e non so se ridere o piangere o poggiare
il palmo dell’altra mano su quel dorso
mie prigioniere come nella memoria
dove invece vivete sui seminati di grano
che i campi imbiondivano e io ero
una corsa una rincorsa una fuga anche
nessun rimpianto ora e la sveglia tace.
*
Incontro un ricordo sulla faccia
imbronciata di una luna rossa e tonda
che segue il mio cammino
di vaghezze e disarticolate ossa
sì che ogni passo è testarda volontà
di procedere non ho trovato la panchina
adatta alla forma che mi tesse il pensiero
erratico errabondo mai estatico.
Nel cono di luce punto fermo
del lampione che seziona la notte
non cerco esclamativi né interrogativi
mi metto in fuga disperando la visione
dell’ultimo scontro frontale.
Fu così che conobbi la punteggiatura
i puntini di sospensione la virgola
per ripartire dopo che la brina ha gelato
le spine in arabeschi che raggelano
ho trovato una treccia salvata
da una sforbiciata di tanti anni fa.
riparto da un punto e virgola
e da uno sberleffo che mi fa bambina.
alice wellinger
A futura memoria una stanchezza lassa
un bruscolo nell’occhio macchie retiniche
nella visione imperfetta sassi sotto i piedi
vedo il rischio l’orlo dell’abisso
salsedine sul ciglio dei viventi ossidiana
là dove il midollo trasmetteva senza soste
impulsi a andare a resistere a restare testarda
succede che fra farfalle e fiori ci si confonda
o il fiore è una farfalla e il petalo respira
la lama nell’aria che fende il bruno proiettile ?
Quattro ossa spolpacchiate nocche erose
uno scuro di silenzi poliedri agli angoli
la veste cinerina della pazienza
————————————-così verrò
se ci saranno abbagli spoglie memori
scuciranno le mie labbra nel sorriso
non stringo più nulla e tutta va alla foce
dove respira non coatto multiplo arruffato
in recinzioni corporali stese a terra
come conchiglie vuote dopo la marea
sarò dietro l’angolo sotto tegola
scheggiata e lì nascosta avrò trovato
il mio giaciglio nudo come la bestia
che s’acquatta quando sente la fine.
A futura memoria neppure un bruscolo
qui c’è un niente inerte che fu
un tutto pieno un’onda brusca una slavina
e parole a scintillare fra le cenere.
*
Dai portoni con serrature di sicurezza
sempre nell’ora che ci sembra finale
invochiamo il dio che non risponde
quello che non ha parole
e nel suo nome si sono ridotte
le case in calcinacci l’argilla
e a mille e mille si sono alzate croci
Non c’è alcun tesoro celato là dove
gli arcobaleni si stremano in archi grandi
e più nessuno si stupisce dell’inganno
come la favola narra e la mente rifiuta.
Eppure siamo per scambiarci parole piene
per estrarre dolori come spine sottopelle
a sudare la terra per il pane
per meritarci i nostri avi contadini
con le mani di calli e compassione.
Ora siamo soltanto groviglio di serpi
ai quattro angoli del tempo
dentro i muri delle case con troppo silenzio
e dove non si fa silenzio mai
per udire- pensare – girotondi infantili
di grandi allegri occhi scuri
c’è chi ha proibito ai bambini i girotondi
———————–nei cortili del mondo
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Narda Fattori, Cambiare di Stato morire di natura– CFR Edizioni 2014
prefazione di Bruno Bartoletti e nota di lettura di Gianmario Lucini
L’inquietudine di vivere in questo stato e l’amore per questa vita, che pure si ritiene assurda, ora che lo scioglimento dell’enigma non è un paradosso lontano ma ha i segni del proprio volto, ancora rivoltato al qui, ora e ancora oltre fino a ieri, un passato sempre molto prossimo. La morte ci muore, non ci libera, non ci apre. La morte non è vita. Eppure qua e là a volte, nei versi c’è un lasciarsi portare appena accanto alla porta, anche se ancora si guarda a questa stanza, dove il cosmo non entra quasi mai se non per un rumore lontanissimo, quasi (un) aereo. A tutti spetta la stessa sorte, non la medesima modalità, se non l’ultimissimo (tr)atto: il rigore, forse l’unico davvero in cui niente può più stravolgere ciò che siamo, nell’intero recuperato, dopo averlo scordato.
Grazie a Narda Fattori per questo suo guardare in sè e dalla finestra in cui ci si affaccia e poi ci/si spalanca togliendoci appoggio in questo reale così tanto virtuale ormai da perderci, non solo la testa ma l’umanità con tutto ciò che questa comporta: quell’infinito covato in sè non oltre alcuna altra porta.
fernanda f.
la lettura di questo libro di Narda è a dir poco emozionante.Questa capacità di trascinare il lettore con sé-davvero unica e peculiare-questa capacità direi drammaturgica, orale e diretta, di questa poesia che è poesia di senso e di contenuti e non di ambiziosi virtuosismi tecnici, mi ha sempre colpita nel profondo. L’amore per la vita che trabocca da questo libro non l’ho mai riscontrata in nessuna poesia di poeta che sia dichiarato tale. Questo libro non può lasciare indifferenti perché solo chi sta al limite tra noto e ignoto e ha provato sofferenza e angoscia può andare oltre il dicibile.Ma non sempre ci riesce,malgrado le intenzioni. E se ci riesce è dopo aver affinato nel tempo tutta la sua strumentazione come l’organico di una grande orchestra e come chi si prepara a una battaglia finale per dare il meglio di sé.
Davvero notevole anche il commento di Maria Lenti per Cartesensibili e quello di Bartoletti e Lucini a corredo del libro.