Raffaele Castelli Cornacchia e L’alfabeto della crisi- Fernanda Ferraresso

alberto macone

alberto macone-volpe1.

.Sembra l’immagine a stampa degli italiani, ma anche altri popoli potrebbero trovarci degli scorci di se stessi, quelli composti da persone che ancora vivono gli anni della loro vita senza pensare alla crisi, anche se di crisi ne vedono una al giorno eppure ancora amano festeggiare, amano il mare, le ferie, le canzoni e la tecnologia e amano parlare di politica…farla è tutta un’altra cosa!
E’ la parola crisi, non Krisis, come ricordo di averla studiata in un libro che  ancora ho nella memoria per quanto era scritto come fosse bibbia del futuro nostro, non analisi di un passato remoto e trascorso.
L’opera è di  Cacciari,  Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein,  libro che gli diede la celebrità a metà degli anni Settanta e che dovetti studiare per un esame con Franco Rella all’Università di Venezia. Architettura non era un percorso e un dipartimento esente da un percorso politico e filosofico, anzi  ne era completamenta immersa. Krisis privilegiava Nietzsche, pur aprendo al pensiero di Wittgenstein, sostenendo che la linea Nietzsche-Wittgenstein, insieme alla crisi della fisica classica all’inizio del XX secolo, “segna la fine della razionalità classica e dialettica e l’emergere pieno, costruttivo, rifondativo e non distruttivo […] del pensiero negativo”.  Ma la crisi vera era ormai quella della ragione,  passando dalla crisi della “razionalità classica”, come liberazione da un ideale totalitario del sapere, non dipendendo più  da un ordine naturale e immutabile, di cui la ragione via via scopre le leggi  intervenendo con la creatività della mente, dando un ordine alle cose in una molteplicità di saperi. Ma dall’analisi di Cacciari ciò che emerge è la crisi dei fondamenti e una volontà di potenza che attraverso effimeri  giochi linguistici si fa beffe del sapere stesso. Egli mostrava  infatti che la critica del sistema dialettico, operata dal pensiero negativo era il perno del modo di pensare contemporaneo e indicava già da lì l’impossibilità di superare i momenti di crisi in una sintesi dialettica nell’ambito sia scientifico che sociale e in questo percorso cercava di produrre nuovi ordini teorici e pratici, per rifondare  un’altra volta gli strumenti e gli obiettivi sia del sapere che dell’agire. Eppure fu proprio Nietzsche, nei frammenti postumi  (1885-1889) a segnare con la chiarezza di una intuizione lucidissima che la crisi è ineliminabile dal sistema.

Ciò che esiste è un divenire intrinsecamente contraddittorio […]. Il carattere molteplice-contraddittorio, l’essere-falso, della natura come si dà, esclude […] una sintesi immediata tra soggetto e oggetto – l’esistenza di un soggetto […] che significhi l’essere della natura e con ciò si sintetizzi ad essa costituendo un unico sistema. Ciò comporta che non si danno proposizioni vere nel senso di proposizioni in grado di esprimere immediatamente tale sintesi […]. Il carattere dinamico-contraddittorio (“falso”) dell’esserci naturale non può ridursi, conciliarsi e rapprendersi in un significato. Ma se l’osservazione-interpretazione, allora, è costretta a intervenire costantemente in questa dinamica – se è impossibilitata a “com-prehenderla” dall’esterno – se non può ridurla a poche, semplici, stabili equazioni – essa si fa determinante, elemento intrinseco e determinante, di questa nuova visione del mondo fisico”.

Ciò che ancora non si è fatto è il riconoscimento dell’ineliminabilità della crisi dai sistemi del sapere, e di ogni altro sistema, perché è crisi dei fondamenti e dovrebbe condurre  ad un superamento della filosofia nella prassi, con l’obiettivo di trasformare e rinnovare i vecchi ordini del vivere umano, cambiando “rotta”.
Eppure se tutto è crisi anche le parole lo sono, come dice Raffaele Castelli le parole sono come la sabbia del mare, si fanno fango, s’induriscono formando dei mattoni con i quali si costruiscono muri e case.
E affida alla poesia, la struttura più fragile che l’uomo pratichi senza toccare materiale altro che l’essere, non l’avere,  un compito difficile e oneroso, quello cioè di sgretolare quei mattoni di un potere fasullo, rendendo scorrevole il discorso e le relazioni di un corso in cui si va via via riportando la sabbia al  mare.

E’ un tessuto fitto fitto la  raccolta di Castelli Cornacchia, l’alfabeto stesso è messo in crisi, rovesciando i suoi fondamenti, l’ordine precostituito, la linearità regolarizzata, canonica. Il suo alfabeto della crisi è quella fotografia di famiglia in cui il nostro tempo non risparmia nessuno e in cui il poeta scrive con le sue sabbie, mobilissime e cristalline, rivendicando a ciò che è fragile un corpo pieno di voce, di luci capaci di fare strada. La crisi dell’economia è il fondamento di un’altra crisi, quella sociale, e soprattutto quella umana,  in cui ognuno di noi non riesce a trovare puntelli e punti di appoggio che non sprofondino da un giorno all’altro.

Quanto costa caro, tutto quello che se ne sta nascosto / sotto questa terra / così battuta dalla piog­gia / di questa notte veglie e fresca di città / … / e si potessero immaginare / quanto costano i frutti della terra e dell’acqua e quanto costa / il profumo dei pini svettanti e dei prati senza pietre quanto / quanto rendere ai padroni dei guardiani i loro favori / chiamati prestiti / quando non richiesti così / con un sorriso amaro e un po’ di farina nell’acqua / giornate che lievitano come pane e l’autografo di idoli e di eroi
In Zero parole, I.

C’è dunque da riflettere, ciascuno in sé senza esenzioni per nessuno, scontare è un verbo che si addice ad una pena comune.

fernanda ferraresso

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alberto macone

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Da L’alfabeto della crisi, Raffaele Castelli Cornacchia

 

Zero parole, 1469 parole
la crisi economica-

.

I.

Quanto costa caro, tutto quello che se ne sta nascosto
sotto questa terra
così battuta dalla pioggia
di questa notte veglia e fresca di città
sotto l’acqua e sotto la custodia dei guardiani dei palazzi d’oro
senza-tetto umidi ai margini delle baracche
e dei centri commerciali palpitanti
forme patinate di carta pesta e specchi deformati
o scie di pesci dell’oceano
come rapaci impazienti
di quel bel paese in minuscole corolle, design essenziali
il posto a capo tavola governando per bisogno
e si potessero immaginare
quanto costano i frutti della terra e dell’acqua e quanto costa
il profumo dei pini svettanti e dei prati senza pietre quanto
quanto rendere ai padroni dei guardiani i loro favori
chiamati prestiti
quando non richiesti così
con un sorriso amaro e un po’ di farina nell’acqua
giornate che lievitano come pane e l’autografo di idoli e di eroi.

.

II.

Lucenti uffici e sanguisughe nei fossi a diluire il sangue
e quanti giri di lancette ci vogliono
stagioni, battiti di labbra e di ciglia
come se la storia non insegnasse che la storia si ripete
sempre giunge all’appuntamento sempre col vestito giusto
sempre come un costume,
sì, la nostalgia dei falò sulle spiagge
nelle estati giovanili come il ciclo delle stagioni
una zolla e due mani, radici di alberi scavate
da esporre nella rabbia, l’arto reciso
rime d’oceano sulle onde, sulle corde della campana del paese
recintando l’acqua con ordine come i treni colmi dei poveri
e quelli deserti dei ricchi, o così, come le repliche
di una commedia o come il deserto che ha confini rotondi
o quadrati, o niente di niente e niente principi e principesse
e niente astri e numeri fortunati e niente feste mascherate
questo Carnevale, faccio io per voi
ciminiere spente con radici da bonificare.
.

III.

Cornici di finestre verso la notte e la nuova alba
la luce mattutina che cade giù dai cornicioni
di questa selva di civiltà di vergini aspettative trafitte
come il letto freddo da inaugurare tutte le sere
da adorare così, così i capannoni dell’occidente
i portafogli della gente, ancora ne fanno di passi i piedi
e ne muoiono di stelle a San Lorenzo e così
così eccoli, svuotati di tutta quanta la cieca fiducia che prima
li animava, eccoli, come una mamma di carciofo rinsecchito
con una mano a stringere di rosso una fragola
soldatino di piombo con un testicolo solo
riccio che protegge il mallo
e allora si salvi chi può, scappando via come sassi che rotolano
paesi sovrani e schiavi del salvatore
infilati come denti o soldati
che nell’ascoltare i rumori notturni
un suono spaventa, o rassicura,
e assillando di domande
la gente, si strozza con cappi bianchi e rossi.
.
IV.

Come i salvagente d’altura sopravvivono
firmamenti pubblicitari,
babeli di citofoni
certi che l’orizzonte sghemba la simmetria,
come pensare
che ne sarà domattina che è soltanto un soffio d’esistenza
e se il cancello cigolerà e spiegazioni facili:
oro nero, prezzi, attività, scuse
menzogne da parte di chi non ama ciò che fa
come lo fa e per chi lo fa,
come rema o annaspa
o affoga e come fare allora a renderli, quelli
oh, che giovane età di mezzo gli anni ottanta
spostare piramidi e illusioni ai padroni dei guardiani
quei prestiti, renderle quelle pietre colorate
le zolle senza terra e i fiori recisi e sradicati
come se la storia non insegnasse che la gente, come sempre
passato presto il momento quello euforico delle illusioni
alla fine avrebbe pagato, e consumato e stentato e…
perduto, soltanto per rimarcare quanto siamo poveri.

.

VII.

Rare le lucciole
come se la storia non insegnasse che una scommessa, ecco
giusto il tempo di leccarti il sangue, nel tempo
che l’acqua annega sui tetti che una scommessa
è una scommessa e basta e puoi vincere o soprattutto perdere
perdere il comando della tua bagnarola fredda all’alba
spaventosamente persa, fra un decollo e un atterraggio
notti fragranti, meglio lasciare le bolle di sapone
le mutande sporche e il sangue raggrumato, le cervella
e i loro intestini ai bambini che loro lo sanno, lo sanno
senza vergogna o spavento, cullati nei loro piccoli approdi
senza mare nei quali s’esercitano con occhi e grida
lo sanno bene che troppe caramelle fanno male alla pancia
allora si salvi chi può, certo, buttiamoci da questa bagnarola
in balia delle acque vacillanti, lontane da fari o sirene
o da miraggi di porti per turisti che vedono partorire i pesci piccoli
anche se non riguarda i ricchi, non loro ma molte tavole vacillano.

*

Vero
– la demagogia –

I

Che forme faranno, quei sassi lanciati nell’acqua
quando scorre veloce e forma degli anelli
che partono dal lago di che forma, che diametro
di che colore e per quanto tempo la promessa
quella di un lancio propiziatorio e casuale
presente nell’orecchio di chi gli s’avvicina
negl’occhi speranzosi e illusi di chi passa
e si china, a cercarne fra i canneti l’impronta
la prova circolare del voto d’una promessa
che corre veloce verso valle, senza memoria
sprecando lanci pieni di Atene e di Sparta
cercando di corromperne il flusso della corsa
l’odore naturale di una falsa libertà
di un falso amore di muschio e di schiuma.
.

II

Hanno la forma dell’ombra d’un corpo sulla riva
le onde cullanti che s’allontanano dall’idea
fissa, che ogni buco nell’acqua faccia rumore
e una fetta di pane bianco a ripararli
i trapezisti e i pagliacci del grande circo
sulle rive d’un fiume che non è certo un lago
non è l’infinito mare di praterie d’acqua
mossa dal vento di pensieri con il passo svelto
portata da una brezza di buoni propositi
increspati come sono certe discussioni
e folli come tutti i geni inascoltati
le prede nelle reti, i raggi senza riflesso
che vanno vicino al mare. Ma solo vicino.

**

Raffaele Castelli Cornacchia, L’alfabeto della crisi – Italic Pequod Editrice 2013

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