alberto macone
Identità femminile nell’opera di Anna Maria Farabbi
PERUGIA 9-11-2013
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“mi chiamo annamariafarabbi vengo dalla terra/scrivo argilla e parlo aria accendo il fuoco per cuocere/le parole e mangiarle con te”*¹. Così Anna Maria Farabbi, non solo in “Abse”, si propone: corpo di donnache sta attivamente, in azione, in movimento, anche quando si tratta di quel fare che è la poesia, corpo a corpo col corpo del mondo. E con ‘mondo’ si intendono gli altri, tutti gli altri dentro la storia, l’amore, la politica, i lager, l’amicizia, l’ecologia, la guerra, la famiglia, la pace, i libri, gli asili, i manicomi, le piazze, i cimiteri… ; e si intendono tutte le cose dei cieli e della terra e dell’acqua che, respirino o no, sono comunque vive. Il mondo, cioè, attraverso cui si snodano tutti i suoi testi, ma soprattutto questi due che hanno aperto l’anno, “Abse” e “leièmaria”, e che si intrecciano come il doppio filo elicoidale del suo DNA, per completarsi ancora nelle ramificazioni degli altri due, di nuovo usciti in parallelo, a metà anno: “La morte dice in dialetto” e “Caro diario azzurro”*².
Nel mondo c’è anche l’io di Anna, quell’interiorità profonda, scavata, indagata, che coniuga la sua irripetibile presenza nella vita con l’energia vitale dove stanno tutti, che possiamo chiamare ‘tutto’ solo dopo essere passati per i tutti che lo fanno. Per questa ricerca dentro di sé, tante volte Anna dice che bisogna fare il vuoto dentro. Un vuoto che non è annichilimento dell’io, ma solo esclusione dell’egoismo, dell’istinto egotico, delle paure dell’altro-da-sé. Un vuoto, quindi, come l’abse, non fatto di assenza incolmabile, ma disposto per accogliere, per trovare l’altro, anche se l’altro fosse impossibile da dire, al di là di ogni descrizione, spiegazione, ma solo presenza, come nel con-tatto pre-verbale col mondo.
La ricerca nel vuoto, nell’abse, non è ferma, è un itinerario: Anna stessa ci legge l’ab iniziale come il prefisso latino che indica il muoversi da un punto, per un andare che è ricerca nuova, dall’origine (e, insieme, dell’origine). Un itinerario che si riapre continuamente su se stesso, con rimandi interni, ritorni, fermi: la meta non è mai definitiva, è impermanente. Un vuoto prolifico. Dove si conosce, tra le tante, l’esperienza che io chiamo della ‘creaturalità’ di Anna, cioè quel divenire dell’io un noi, in amore: di madre, di amante, di figlia, di sorella. In esondazione e in inondazione, reciprocamente. Esperienza delle più sacre, delle più spirituali. “lavora alle radici dell’io e del noi crea l’arca interiore/dal molteplice all’unità profonda”*³; “consacro in me la nascita di me che mi apre alle altre, passate e future.” *⁴. Che diventa anche preghiera: “Nel mio giardino interiore…/…/… ave//profondamente ave/madrìa.”*⁵.
Senza mai essere, questa interiorità, quest’io-noi, qualcosa di staccato, altro dal corpo.
Infatti, pur non essendo un corpo fotografato, cioè autobiografico in senso diaristico, esteriore, non è mai nemmeno un corpo astratto, scarnificato, sublimato o metaforico: è il suo, di Anna, il suo corpo: “il mio corpo/che è la mia casa” *⁶. Un corpo che la poesia osa nominare anche in quelle parti che in genere si escludono perché non liriche o per pudore: pancia, cosce, stomaco, utero, lingua, inguine, polmone, umori come il sudore, la saliva…, senza mai però scadere nell’eccesso, nella provocazione, perché, infatti, ciò che conta non è il singolo termine, ma l’intenzione che lo guida: “Canto drento lpolmone/dua scoltono i morti” (“canto dentro il polmone/dove ascoltano i morti” *⁷); “pronuncio la parola resurrezione/…//… nel buio interiore/dove i piedi nudi di Nureyev/ non lui solo i suoi piedi danzano luminosi” *⁸; “Dentro il tuo poema cardiaco usa tutto il corpo:/ lavora in te perché c’è sempre comunque/una meraviglia.” *⁹.
E, l’intenzione, è quella di donna: “Io sono una piccola poesia femmina/un palmo laico in offerta contro vento” *¹⁰; “Io sono una femmina che, chiedendo permesso saluto e accoglienza, entra… con desiderio e rispetto.”*¹¹; “io sono solo un filo femmina nell’abse/tra che il tempo il vento mi mangia e mi suona” *¹². Corpo di donna, che sanguina con la luna, che cresce un figlio dalla propria sostanza, che conosce il dolore fisico ed il miracolo del partorire e perciò rifiuta il sangue della violenza, la morte di creature data da altre creature. E’ un corpo che, sì, sente in modo diverso dal corpo di un uomo (non meglio, non peggio, solo in modo diverso): come continuasse a “sentire il mondo dall’utero (…) di pancia in pancia nella madre matrioska”*¹³. Dice Anna: “Il verbo grande è sentire: dovrei coniugarlo sensorialmente, spiritualmente.”*¹⁴. Ed è così che infatti Anna fa esperienza, conosce, tocca, ama il mondo, coniugando i suoi cinque sensi – in raltà di più – coi quattro elementi: aria acqua fuoco terra.
Terra soprattutto. Così come i punti del corpo più spesso a suo contatto sono i piedi, che la toccano con amorevolezza filiale e vi si posano con rispetto, perché sotto, dentro la madre, stanno i fossili della vicenda umana e terrestre, a cui il corpo di oggi è legato con consapevole senso di continuità. “Sento attraverso le cellule dei piedi, dai piedi in su. Torno a nascere dai piedi in su.”*¹⁵; “la luce nei piedi spaventa me e chi mi accompagna/quando mi fermo scoperchiando la testa//e l’ombelico”*¹⁶. Nemmeno la morte può interrompere questo legame tra il passato e l’adesso, la tra-dizione da creatura a creatura: “Io muoio ma vivo… trasformata in aria in acqua in farfalle foglie uccelli fuoco mare neve… Trasformarsi non è separarsi.”, dice Lilli di “Caro diario azzurro”, ormai vecchia, a Ninni che presto dovrà lasciare.*¹⁷. In ognuno di questi quattro libri c’è un cimitero, ed in ognuno si dice di una energia vitale sacra: “mi lavo la faccia con la terra di un morto… Mi pulisco così mentre prendo la luce interiormente”, dice il becchino di “La morte dice in dialetto”*¹⁸. “Qui ci si riposa e si lievita.”, “Qui lo chiamano campo dei miracoli./Il ventuno di marzo i bambini scoperchiano//l’erba./Con l’orecchio in terra ascoltano/gli zecchini profondi/muoversi”, dice Anna in “Abse”*¹⁹. “qui la morte è zecchini. Si fa sentire a rovescio: niente lutto niente separazione nessuna fiamma dell’inferno. Sul coperchio della botola di vetro (l’ossario) mi specchio e mi vedo. E intuisco un passaggio esistenziale, non definitivo, del mio futuro.” dice la protagonista di “leièmaria”*²⁰. “Quello che vidi aprendo la porta tra le ali dell’angelo” dice Lilli, ormai salva, nella notte di neve “enormi, spalancati nelle loro ali, chi atterrando, chi decollando, questi volatili emanavano una purezza abbagliante, sacrale.”*²¹. Diceva già Anna in un testo del ’96: “Me lo dice la vecchia/tiritera di me in me/che invernoinverno fa primavera/che io lo voglia o no/che anche nel no/c’è vita”*²²
Agli antipodi dei piedi, la bocca, la lingua sono ancora punto frequentissimo di con-tatto, commistione col mondo, quasi come in quei tempi ancestrali in cui eravamo scimmie o più indietro ancora lucertole, pesci; o come ancora adesso, da lattanti sul seno della madre o sull’oggetto del mondo da conoscere. Ma non è solo per un bisogno di spontaneità nel contatto; c’è proprio la fame sincera, appassionata della sorpresa, della leopardiana meraviglia; che sia, cioè, sempre come l’emozione che accompagna la prima volta, adamitica o lattante è la stessa cosa: senza distacco tra soggetto che guarda, tocca, lecca e oggetto guardato, leccato, toccato. E non usato, non ancora. “io canto con lo stupore delle bambine/che suonano le conchiglie del mare”*²³
E poi le mani, che bisogna sapere “cosa sono”, come fanno l’amore, come possono essere “scese in terra/sprofondate sepolte/e aspettate con pazienza/risorgere”. Come sanno coprire “per vergogna/la tua fronte”*²⁴. E come da sole sanno dire: “Zitta mi fissa con occhi dilatati. Abbasso i miei. Ma rialzandoli, trovo ancora i suoi nella stessa concentrazione. Mi mostra il palmo aperto. Mi sembra scritto, scarabocchiato. Poi con gesto repentino, lo stringe a pugno, puntato contro me. Non so quanto rimaniamo così, tra gli occhi.”*²⁵
Ed ecco come il corpo restituisce il fiore alla terra, dopo essere stato da lui tutto percorso; il sottotitolo è quindici maggio ore dodici/andatura con petali : “Una rosa per me che metto in bocca/che mangio lentamente che rumino/dentro lo stomaco poi nell’intestino nel cuore/nell’inguine//si deposita sulla pianta interna dei piedi/mentre cammino”*²⁶.
E’ più di un con-tatto, è un riconoscimento: “maternità sororità filialità una e trina”. E’ un riconoscersi: “Chiamo la madre grande per assomigliarle”. *²⁷
In sororità con tutte le creature dell’esistenza, non solo umane, matericamente, “intensamente intimamente” portando amore, : “oltre te/umilmente amore mi coniuga a tutto/togliendo all’io l’io”*²⁸. “La madre dei pesci mi dice cose con altro linguaggio, scende in me come il silenzio della neve. E io prima di intendermi con i pesci, respiro. Mangio la neve per terra e mi sembra di diventare bianca e poi acqua.”*²⁹.
La maternità sposta all’origine e aggiunge all’amore una sorta di responsabilità, un’attenzione speciale, soprattutto un senso di cura, un abbraccio, una disponibilità che si fa salvaguardia dell’essere, di chi è generato, della creatura. E’ in lei la sorgente del sacro. “Sento di abitare un’unica pancia cosmica”*³⁰. Ma come la matrioska, aprendo il suo ventre, mette in luce un’altra se stessa, più piccola ma non meno uguale, così la grande madre rinasce nella figlia, perché in quella “unica pancia cosmica… esiste il molteplice nell’io. Nel mio io femmina. … Il mio nutrimento passa per il cordone ombelicale, da mia madre a me.”* ³⁰. E da lei, figlia divenuta madre, alla creatura che metterà al mondo: “Ho fatto un figlio mettendolo alla luce/per un suo viaggio nel mondo un suo fare//che è cominciato urlando/dal fondo delle mie cosce.//Quello che può fare una qualunque femmina/con la pancia. Un miracolo.” *³¹.
Ma la grande madre, nel tempo, metamorficamente, si ripresenta nei testi di Anna anche come la sibilla Rosa o la madonnara nana, come le suore dell’eremo di maria nel silenzio di “leièmaria” , come lia, maestra-poesia nella scuola di “Abse”, come la nonna che ha i pesci nelle vene, e che una notte “mi strappò le orecchie/mi incollò il culo sulla faccia di un tronco//dove gli anelli.//Perché ascoltassi il tempo dal fondo della mia spina/dorsale e mi giungesse in corpo la quercia/e il colpo dell’ascia.”*³². Come la Morte che in “La morte dice in dialetto”, appunto dice in dialetto: “Da piccolo avevi la mamma del latte…, poi hai avuto la mamma del miele che ti ha unto la lingua e poi, ora, quella della cenere. Ma è un tutto unico, figliolo. Sei già nella mia pancia con le stelle la maria le figure in terra, il bianco quando nevica… Prendimi senza capirmi. Fa finta che sei nel viaggio… dove non si perde nulla. Sono plurale nell’uno.” *³³.
E dall’altra parte, della creatura, della filialità, una grande riconoscenza per il miracolo della vita, dell’esistere. Nella consapevolezza, anche, di quella lunga teoria di esseri biologici che sono la propria genealogia, senza aver perduto, ognuno, la propria irripetibile individualità, anche quando il loro essere corale diventa storia, cultura, civiltà. E, quindi, in questa lunga linea continua, sentendosene parte, occorrerà assumersene anche il posto, il ruolo, la responsabilità, che poi significa impegno e dovere di testimonianza e presenza attiva nel mondo: “ogni volta che prendi la parola/convochi i tuoi antenati/verso cui devi rendere conto:/ascolta la tua eredità con l’orecchio in terra”*³⁴.
E’ questa la responsabilità che porta Anna a prendere la parola per la bimba uccisa di Gaza, per Tereska, cresciuta in un campo di concentramento e approdata in un centro psichiatrico, per Peppino Impastato, per i disperati dei manicomi e degli orfanatrofi, per le vecchie dell’ospizio, per tutti gli offesi della storia e della infelicità. Prende la parola di pancia, andando dentro: “mi schiero scalza in piazza con tutto il corpo/a fianco di mio fratello impastato//il suo squarcio di sangue nella neve/mi comanda la parola/l’onestà l’integrità la resistenza/la giustizia e il diritto per tutti alla bellezza//tra i binari le polveri di tritolo sono diventate semi”*³⁵, diventando il dolore: “il soldato mi spara.//Io sono la bimba o sono la rosa del rogo/nella striscia infernale di Gaza”*³⁶; gridando profezie terribili come una sibilla: “Sfregio pubblicamente con una sola lacrima/la faccia degli assassini di mio figlio./Che non sia pena e non sia morte/perché non appartiene a me pena e morte”*³⁷.
Anche la poesia è fare, dunque, concreto poiesis, come si fa il pane e l’orto, dice Anna. E’ il mezzo per prendere la parola. E’ fede. “Io credo nella poesia.”, dice. E poi precisa: “Io credo nel credere.”*³⁸, che non è astrazione, ma definizione di impegno. A imparare, a rispettare, ad amare. Dentro il mondo: “mentre il paese si sfascia” dice quasi alla fine di “Abse”, e non si tratta solo di un paese letterario, astratto!, “mentre il paese si sfascia continua a crederlo”*³⁹.
Anna, questo modo di intrecciarsi al mondo, dice di averlo imparato dai ciechi, dai sordi: “ora manco di orecchie e occhi sento senza la mente/sordi e ciechi mi hanno insegnato//che un fiocco di neve agisce vibrando qualunque buio”*⁴⁰, ma anche dai pazzi, dai vecchi, dagli animali, dagli analfabeti :”io non so scrivere bene ma ho bisogno di leggere/la polpa del mondo/e di sentire il corpo delle lingue/nelle creature quando cantano/come i polmoni eseguono le punteggiature/vivendo il ritmo”*⁴¹. Ha imparato, cioè, da chi usa solo l’orecchio, i gesti, gli odori, il fiato/voce, gli occhi, il tatto, il gusto per comunicare. “io vado a scuola dalla terra/l’estate mi ci addormento sopra/per ascoltare con la schiena/i semi e i morti//che sono la stessa cosa”*⁴²; “ce lete do cerase pe mparè ncla bocca maggio?”*⁴³.
E’ un’educazione che precede, viene prima – nel senso spaziale, del dare un fondamento – della cultura scritta. Viene essenzialmente dall’oralità e dalle sue adiacenze (il vedere lì di fronte, il sentire, il toccare…), che prevede il rapporto nel con-tatto, appunto, la reciprocità con l’altro che partecipa con la sua reazione a quanto si comunica: una sorta, insomma, di polisemia, di sensi-significati in più. Quell’oralità che è della mamma o della nonna o di chi per lei, che al bimbo insegna il mondo e i suoi nomi facendoglieli tastare, leccare, annusare, dietro il suo dito indice. Quella che spesso viene chiamata lingua materna e trasporta con sé non solo parole e concetti, ma un universo intero di sensi e affetti. Per questo, lingua di tanti poeti: Dante e Franco Loi, per dirne alcuni. E Anna. Che dice anche, dopo importanti riflessioni sull’origine del linguaggio nella specie ‘sapiens’ in appendice a “leièmaria” : “Uso la lingua madre quando comunico con moribondi, amanti, bambini e animali, nella soglia preverbale.”*⁴⁴.
Nella poesia di Anna l’oralità è medium essenziale. Soffiata letteralmente col fiato della voce sugli occhi di chi legge, come una ninna nanna. Cantata. Con quel suo ritmo cardiaco che a volte ricorda un tamburo sciamano, con quelle sue lunghe pause di silenzio anche dentro il verso che sono i respiri, i tempi del canto. Con quella sonorità carnosa fatta di allitterazioni, iterazioni, consonanze assonanze, e tutto quanto fa suono nel verso. Un’oralità che include necessariamente il dialetto, lingua per eccellenza orale, anche quando è scritta, e per Anna soprattutto fisica genetica amata eredità dal padre: “ldialetto ldiceva lmi babbo e lmi babbo/ce lò ncorpo”*⁴⁵.
L’oralità della lingua nella poesia di Anna, però non si esaurisce in esso. E’ una lingua che, detta o letta in silenzio, è –mi si passi il termine- deittica, che, cioè, non si basa sull’assenza delle cose da dire, non sta al posto di qualcosa del mondo reale che manca; è invece una lingua che cerca sempre di uscire dal proprio luogo-ruolo di significazione-da-lontano, quindi di evadere dal verbale, per diventare solo estetica, cioè con-tatto sensoriale, con-senso tra parola e cosa, tra concetto e oggetto: “Mi rovescia al muro/questo invisibile vento questo/inferno di primavera nella testa questo/mulinello di polvere incendiaria”*⁴⁶; “la nonna ridendo mi dice vento/e io sono il vento gioco/tra il mare e il grano//sposto continuamente l’ape”*⁴⁷; “fuori piove//…//ascolta mi dice la vecchia cieca/chiudi il libro studia questa pioggia”*⁴⁸; “Qui, ora… la neve c’è.”*⁴⁹.
E’ stato un bisogno, per Anna, che fin dai suoi primi testi editi diceva con lucida consapevolezza: “Ho finito per scordare/che il ciliegio ha la testa/e che in primavera è più leggera/perché dalle radici sverna in petali/rosa. Uno/è il battere e uno/il levare della passera/che ora le sta dentro/per cantarla.//Mi fa accorgere del mondo://Alle sei dell’alba il ciliegio è fermo./Ma scrivo una bugia.”*⁵⁰
Anche la parola è sentita ed indagata nella sua polpa materica (“sostanze fonetiche gutturali palatali dentali labiali elementali”*⁵¹, facendola aderire alla realtà del sentire, come “pescia”, o “anna” con l’iniziale minuscola, quando non è più isolata in un’identità escludente e le “sembra di aver perso il soggetto io, di non aver compreso fino in fondo il pronome noi, di non aver praticato interamente il pronome tu.”*⁵², che, per inciso, è tra le motivazioni più importanti dell’itinerario sia in “leièmaria” che in “Abse”. Ai potenti del mondo, delle religioni, della cultura, e anche a se stessa, questo è l’invito: “Perdi le maiuscole//inutili come le tue torri di guardia di avorio/i tuoi fari di terra e di mare/le corone che hai forgiato per dichiarati in altezza.”*⁵³. Così, ancora, con la parola “angel”, ricorrente in La morte dice in dialetto e in “leièmaria”, dove la desinenza è lasciata cadere perché, ci dice Anna in nota, l’angel, appunto, non ha sesso. E come in questo titolo “leièmaria”, dove la mancata separazione tra le parole e la forte conservazione della copula accentata all’interno (è), con la sua potenza di tempo presente in presenza, vuole proporre appunto un contatto fisico, un esserci extraverbale: quello che c’è dietro il dito indice della pittrice cieca di icone che dona ad “anna” l’icona con questo nome, dopo averle mostrato sul corpo come leggerla: ”Con quale desiderio, rispetto, levità. Con quale distanza, quiete e umiltà si pellegrina. Con quale pazienza.”*⁵⁴. E poi ancora, in questo titolo, l’improvviso corsivo della finale ‘a’, che sembra scivolare, cadere, come accade dentro il testo nella sezione “avemadrìa”.
Perché maria è madre dell’impermanenza?, in quel suo esserci e moltiplicarsi in tante forme diverse ed une?
Perché siamo sull’orlo di quell’indicibile che solo più in là è l’abse?
Perché il fiato dell’oralità si scioglie nel con-tatto diretto? Dice Anna in “Abse”: “quel che scrivo evapora/ la nuvola passa come il fiato lei anche//quel che non si vede c’è”*⁵⁵.
Milena Nicolini
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Note
1-“Abse”, Il ponte del sale, Rovigo, 25 gennaio 2013, p. 32
2-“leièmaria”, LietoColle, Varese,1 gennaio 2013; “La morte dice in dialetto”, Rossopietra, Modena, maggio 2013; “Caro diario azzurro”, Kaba edizioni, Pavia, maggio 2013
3- “Abse”, cit., p. 132
4- “leièmaria” , cit., p. 50
5- “Abse”, cit., p. 120
6- ibidem, p. 8
7- ibidem, p. 54
8- ibidem, p. 18
9- ibidem, p. 100
10- ibidem, p. 67
11- ibidem, p. 12
12- ibidem, p. 47
13-“leièmaria”, cit., l’officina dell’opera, 02:33
14- ibidem, p. 48
15- “Abse”, cit., p. 129
15- ibidem, p.50
17-“Caro diario azzurro”, cit., p. 66
18- “La morte dice in dialetto”, cit., p. 29
19- “Abse”, cit., p. 129, p. 133
20- “leièmaria”, cit., p. 20
21- “Caro diario azzurro”, cit., p. 60
22- da Firmo con una gettata d’inchiostro sulla parete, in 7 POETI DEL PREMIO MONTALE, Sweiwiller, Milano 1996, p. 69
23- “Abse”, cit., p. 85
24- ibidem, p. 91
25- “leièmaria”, cit. p. 100
26- “Abse”, cit., p. 19
27- ibidem, p. 120
28- ibidem, p. 32
29- “leièmaria”, cit., p. 49
30- ibidem, p. 50
31- “Abse”, cit., p. 81
32- ibidem, p. 82
33- “La morte dice in dialetto”, cit., pp. 29-30
34- “Abse”, cit., p. 132
35- ibidem, p. 85
36- ibidem, p. 67
37- ibidem, p. 81
38- ibidem, p. 8
39-ibidem, p. 132
40- ibidem, p. 77
41- ibidem, p. 70
42- ibidem, p. 59
43- ibidem, p. 49
44- “leièmaria”, cit., l’officina dell’opera, 03:30
45- “Abse”, cit., p. 56
46- ibidem, p. 37
47- ibidem, p. 107
48- ibidem, p. 122
49- “leièmaria”, cit., p. 50
50- da Firmo con una gettata d’inchiostro sulla parete, in 7POETI DEL PREMIO MONTALE, cit., pp. 62-63
51- “Abse”, cit., p. 86
52- “leièmaria”, cit., p. 48
53- “Abse”, cit., p. 96
54- “leièmaria”, cit., p. 124
55- “Abse”, cit., p. 53
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I testi di Anna Maria Farabbi presentati a UMBRIALIBRI 2013
Abse– Il Ponte del Sale Editore
leièmaria– Lietocolle Editore
Caro diario azzurro– Kada Editore
la morte dice in dialetto- Rossopietra Editore
brava Milena, uno scritto che dice tanto di Anna e lo dice molto bene.