Graffiti – Lucetta Frisa e Marco Ercolani

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Graffiti

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 Il segno è figura, la figura è atto, l’atto è unità, comunione, integrazione, generazione;

 l’unità è il divino, il divino è figura, la figura è segno.

 Emilio Villa

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In Francia, presso Vallon-Pont-d’Arc, nella regione dell’Ardèche a Rhône-Alpes, il 18 dicembre 1994 lo speleologo e fotografo Jean-Marie Chauvet, accompagnato da due amici, Éliette Brunel e Christian Hillaire, scopre più di venti grotte disseminate di pitture e di graffiti preistorici. Quella a cui darà il suo nome (grotta Chauvet) corre per oltre 500 metri all’interno della montagna, ha pareti traslucide di cristalli e cupole iridescenti, con pitture e incisioni di animali: bisonti, mammut rossi, gufi, rinoceronti, leoni, orsi, cervi, cavalli, iene, renne ed enormi felini scuri, soli o in branco. Gli animali, ritratti in circa 500 opere databili a 32.000 anni fa, hanno un dinamismo potente e ipnotico; sembrano uscire dalla roccia o rientrarvi a seconda della prospettiva e dei giochi di luce. Le pitture, incompiute, vivide e fresche perché ricoperte di calcite, sono circondate dalle stalattiti plasmatesi nel corso dei secoli, come testimonia il documentario di Werner Herzog, girato nella grotta Chauvet nel 2010. Molte immagini, anche quelle dei palmi rossi di mani umane, rivelano il palinsesto di immagini precedenti, anteriori anche di 5000 anni. Compare traccia dell’uso di torce di legno. La grotta era inoltre frequentata dagli orsi come dall’uomo: vi ritroviamo ossa non umane e una grande roccia, simile a un altare primitivo, dove è appoggiato un teschio che ricorda proprio quello di un orso.

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La sala più interna (Sala del Fondo), potrebbe rappresentare il luogo di un culto iniziatico per giovani individui da addestrare all’attività adulta di cacciatori e di uomini. Un essere ibrido e antropomorfo, corna frontali da bisonte e occhi tondi da insetto, è rappresentato su un pendente di roccia proteso verso una cavità dall’evidente forma vaginale: le sue forme, frastagliate e incompiute, evocano le linee opulente di un corpo di donna, simili a quelle di statuette votive ritrovate in molti luoghi preistorici d’Europa. Questa suggestiva fusione di forme maschili e femminili, animalesche e umane, è sottolineata dalle ombre e dalle luci della sala. Una terza figura unisce la donna all’essere ibrido ed è di chiara forma leonina: mitica ed allegorica sin dai tempi dei bestiari medioevali, la figura del leone impersona una divinità rituale di morte e di vita.

Ma, accanto all’ipotesi iniziatica, ne è presente un’altra, più obliqua e segreta. Potrebbe essere accaduto che la grotta Chauvet fosse stata un luogo di reclusione e che lì un individuo solo, recluso per qualche crimine o segregato per qualche forma di follia, forse sofferente di un disturbo fisico (come testimoniano i tratti di certi dipinti), avesse incominciato a dipingere, spezzando le ore della prigionia con l’improvvisazione del disegno.  L’arte rupestre sarebbe così l’opera di un uomo emarginato e solo. 

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Questo artista preistorico, recluso o iniziato che sia, si ispira per la sua opera alla visione di un animale potente e magico. La prima manifestazione artistica dell’uomo sembra scaturire non tanto da ispirazioni magiche o religiose quanto dall’imitazione di tracce animali. Le rupestri “tragedie di caccia” di Lascaux, i graffiti narrativi di Limeuil (dove una figura umana veglia un corpo morente), i graffiti su lastra d’ardesia di Pechilat (con la “battaglia degli orsi”), rappresentano l’evento nato dalla visione di quelle tracce nel buio. Atterrito dall’animale, assente, ma affascinato dal suo segno, presente, diviso fra la natura “ferina” e l’apparenza “magica” di quel segno, l’uomo da un lato testimonia la sua paura per “l’altro da sé” che è “mostro” da esorcizzare, catastrofe da scongiurare; dall’altro lo introietta e lo rappresenta, mostrandolo a se stesso trasformato in totem, in simbolo. E i suoi segni convivono insieme a quelli dell’animale.

.Nel 1902, sulla volta d’argilla di un caverna della Dordogna, all’altezza di due metri dal suolo, Henri Breuil scopre diversi graffiti risalenti al paleolitico; alcuni anni dopo, assieme a Emile Cartilhac, ritroverà segni simili in una caverna d’Altamira, situati alla stessa altezza. I due studiosi, insieme a Hugo Obermaier che scoprirà tracce simili in una grotta di Lourdes, concordano si tratti di impronte di orsi giganteschi dell’era glaciale. Breuil sostiene che gli orsi, cercando al buio l’uscita dalla grotta, si sono appoggiati alla parete lasciando involontariamente delle tracce. Secondo Obermaier, invece, gli animali hanno appoggiato le zampe sulla volta della caverna per strofinarsi le unghie.

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visita interattiva alla grotta di lascaux

http://www.lascaux.culture.fr/#/fr/02_00.xml

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Disegnare è “pensare per immagini”: è il momento in cui, tra vista e visione, tra percezione e immaginazione, si definisce una fase della creazione artistica: quella in cui si viene “assorbiti” dall’oggetto. Non ha importanza in cosa consista l’oggetto: una traccia esterna, un sentimento interno. In questa fase si è “chiamati” a creare: potremmo definirla semplicemente il momento dell’ispirazione mimetica, condiviso sia dall’artista primitivo, che disegna scene di caccia, sia dal bambino che traccia ghirigori sul foglio, sia dal folle che colma la pagina di figure. È la fase dell’”incantesimo della creazione”, di condensazione e stilizzazione magica propria di un inconscio arcaico, ben lontano dal trasformare quelle tracce in forme compiute.
L’uomo si identifica subito nel gesto, come se rispondesse a una chiamata. La sua traccia sembra imitare quella di un animale e crea qualcosa dove prima non c’era nulla. È un gesto casuale e imprevedibile di risposta, che traduce la necessità di scongiurare una minaccia reale con la sua rappresentazione magica – con la sua ri-creazione.

La prima arte pittorica si ridurrà successivamente a forma ritualistica e ornamentale, semplificata a segno geometrico, a sua volta portatore di significati precisi. Diventerà scrittura, prima ideografica, poi alfabetica, tradendo la sua natura originale di traccia provvisoria, imitata dal segno di un animale.

Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti della pittura cioè ci stanno davanti come se vivessero, ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio.

(Platone, Fedro, 275d).
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La prima traccia di graffiti dell’homo sapiens appare 77.000 anni fa nelle caverne di Blombos, in Sudafrica: sono disegni incrociati su pezzi di ocra rossa, antecedenti a quelli di Lascaux e di Touc d’Audobert, e risalgono a 15.000-30.000 anni. Il primo atto artistico dell’uomo non è dunque né pittura né scrittura ma graffio, schizzo. L’energia di questa idea è inconsapevole ma potente: da Piero di Cosimo, che fa pittura dei suoi stessi sputi, ad Alexander Cozens che nasconde paesaggi rocciosi in macchie d’inchiostro, a Victor Hugo che da fondi di caffè abbozza castelli dirupati, mani da incubo, disegni e  schizzi sommari non indicano uno stato inferiore a quello dell’opera conclusa, ma un momento diverso, subliminale, arcaico, in cui la vertigine iniziale non si consuma in risultato. L’opera non è ancora un regno stabile, una certezza che azzera le  ipotesi, ma una potenzialità creativa, uno sconvolgimento del linguaggio che annuncia l’inesprimibile.

La superficie visibile del capodoglio in carne ed ossa non è che l’ultima delle sue molte meraviglie. Essa è quasi invariabilmente in ogni punto obliquamente attraversata e riattraversata da fitte schiere di innumerevoli segni diritti, somiglianti a quelli delle più belle incisioni al tratto italiane. Ma questi segni non sembrano  impressi sulla colla di pesce […] anzi sembrano trasparire attraverso di essa, come se fossero incisi sul corpo stesso […] questi segni lineari, come in un’autentica vera incisione, offrono lo spunto per ben altre  figurazioni, all’occhio pronto e osservatore. Essi sono geroglifici.

Hermann Melville

Alla visione iniziale – il segno animale – risponde un movimento di forme che ci riconsegna, più consapevoli, alla stessa visione: lo scrittore che annota o il pittore che disegna si rivelano fantasmi di quell’uomo primitivo che, nella luce diurna, ricreava come geroglifici le tracce lasciate dall’animale nel buio notturno.

Scrivere, nella scrittura poetica e analogica, è come dipingere, lasciare una traccia, un segnale visibile. Scrive Charles Baudelaire: «Comme des longs échos qui de loin se confondent / Das une ténébreuse et profonde unité, / Vaste comme la nuit et comme la clarté, / Les parfums, les couleurs et les sons se répondent». Scrivere è farsi sedurre dall’eco della notte: non notte opaca ma tenebre squarciate da lampi. Scrivere, in stato di veggenza, di una notte rischiarata da tracce, frammenti, scie luminose – non sigillata nella sua totalità di buio. Scrivere è portare alla luce il gesto ferino che restava assopito dentro di sé finché non lo risveglia lo sguardo umano.

Il linguaggio in cui l’origine parla è essenzialmente profetico. Ciò non significa che esso predice gli avvenimenti futuri, ma che non parte da qualcosa che già c’è, né da una verità in corso, né dal solo linguaggio già detto e verificato. È un linguaggio che annuncia, poiché comincia. Indica l’avvenire, poiché non parla ancora, come un linguaggio futuro, e in quanto tale assume senso e valore solo innanzi a sé.

Maurice Blanchot

Come ci ricorda Blanchot, scrittura e pittura sono vicine al silenzio sacro di ciò che sembra vero. Ma ciò che sembra vero è un’immagine riflessa capace di trasmetterci i brividi del terrore, come lo furono i segni nella caverna di Altamira. E, se il terrore nasce nell’ignoto e nella notte, è altrettanto vero che ogni opera si serve del buio per approdare a una forma precisa, consapevole della notte che la inventa e del giorno che la modella. Scrive Renè Char: «La notte nutre il giorno, il giorno affina la parte nutrita».
Il disegno, lo schizzo, l’appunto, ci mostrano un artista nudo, che ha deposto quasi tutte le sue maschere, e cerca di catturare i primi segnali di un’opera a venire. Questi segnali sono prove, presenze provvisorie, fantasmi della creazione imminente, immaginata come conclusiva; ma, più di questa, sono rivelatrici del gesto iniziale: tastare nel buio, alla ricerca di non si sa ancora cosa, per poi esprimerlo non si sa ancora come.

Tutte le tribù osservano quello che lo stregone ha dipinto. Agli occhi di quegli uomini la pittura è stata eseguita per ricordare o anticipare il combattimento, per mostrare ciò che viveva nella loro mente come episodio del passato o visione del futuro.

Ernst Kris
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La prova dell’arte si misura sempre e soltanto con altre prove: non cerca storie, archivi, musei, memorie, ma continuità e intimità con l’origine sempre rinnovata e radiante dell’atto creativo.
È nel disegno sommario e non nel quadro finito che il pittore svela il suo gesto intimo, la sua soggettività spoglia, essenziale. Quel segno, tracciato di slancio e in pochi attimi, analogo allo stenogramma di un battito segreto, mette a nudo il nucleo più intimo del suo fare – che coincide con il suo essere. Da parte sua lo scrittore, negli appunti preparatori del libro che intende scrivere, non si obbliga forse a una dimensione più autentica ed estrema?
Nudità, concentrazione, intensità, vissute con leggerezza, in un tempo breve: tre unità non classiche che accomunano il disegno del pittore al taccuino dello scrittore, ed entrambi agli “appunti della mano sinistra”. In questo senso i grafismi di Roland Barthes hanno la pienezza persuasiva di una pagina scritta che vorrebbe liberarsi dalla tirannia del significato, ma restano frammenti di quel desiderio.
Fra opera compiuta – che afferma una precisa visione del mondo – e schizzo veloce – metronomo di un effimero stato d’animo che non afferma nulla, corre la stessa differenza che separa l’io ordinatore e descrittivo dall’espressione concentrata e febbrile del soggetto che annota le sue emozioni. La mano trascrive il sogno che la memoria diurna sta per dimenticare. In un’opera di Mirò (Senza titolo, 1962), una striscia scura e serpentina, un sole rosso e uno nero, una cifra misteriosa, campeggiano nel bianco della tela con una gioiosità ineguagliabile, che guida verso ulteriori metamorfosi.

Felix Fénéon, il critico francese che raccolse per noi le prose rimbaudiane delle Illuminations, per anni il più attento e moderno commentatore degli Impressionisti, ci rivela, come in certi dipinti, e non solo di suoi contemporanei, il pittore si è nascosto e ha lasciato parlare le convenzioni del suo tempo. La propria natura intima l’ha confinata in un dettaglio segreto – trascurabile, secondario, forse invisibile – della tela ultimata. In modo analogo il disegno preparatorio dell’artista ci svela una via che il quadro cancellerà: è la via minor, forse più significativa della maior, che doveva celarsi nel quadro ufficiale per sancire la sua esistenza.
Lo scrittore – ne sono illustri esempi Hugo e Baudelaire – ha spesso tracciato pittogrammi ai margini dei suoi testi, come volontaria evasione dal regno diacronico e chiaro della scrittura verso quello della pittura, enigmatico e sincronico, della pittura. In questo senso, per secoli, il disegno ha rappresentato la mano sinistra (quella involontaria, casuale, “minore”) che si contrappone asimmetricamente alla mano destra.
«Che felice mestiere quello del pittore paragonato a quello dell’uomo di lettere! All’attività felice della mano e dell’occhio nell’uno corrisponde il supplizio del cervello nel secondo; e il lavoro che per l’uno è un godimento per l’altro è una pena…». Così i fratelli Goncourt, nel loro Journal, separano il mondo razionale e riflessivo della scrittura da quello irrazionale e istintivo della pittura. Ma in realtà anche nella scrittura si profila, alla fine del XIX secolo, un discorso dell’ombra dove al venir meno delle forme tradizionali corrisponde la voce di nessuno della poesia contemporanea.

In questo doppio movimento, tra sonno e coscienza, tra sogno e realtà, tra vertigine e limite, si rivela meglio il senso dell’antica visione: il segno dell’orso lasciato sulla volta d’argilla, nel buio di quella caverna della Dordogna, e lo stupore dell’uomo, il giorno dopo, quando lo scopre, diviso tra il terrore atavico per l’animale da placare e la magica influenza esercitata dalle sue tracce.
In modo analogo, in regimi totalitari, il prigioniero, l’oppresso, traccia sul muro della cella, a rischio della vita, la sua scritta di protesta – anonimo graffito che colpisce per la sua imperiosa visibilità, alleata all’invisibilità del suo autore.

Dentro le sagome, tra viluppi e  meandri, nel solco di graffi, di strappi di incisioni […], dentro il punto o il buco, dentro l’angolo, dentro l’incrocio tracciato, dentro le sagome, dentro le forme che sono materia aperta irradiata dal vigore dalla concezione, dentro il simbolo della bestia o della chimera, dentro ogni perimetro segnalato e posseduto, dentro il profilo del fallo e della vulva, e perfino nell’ìmpronta semplice, nell’orma, nella scansione del moto sull’argilla o sul fango, nello sfregio lasciato dalla punta di silice, o dal sasso lanciato, o dall’unghia o dalle dita, nel sentiero condotto da luogo a luogo (che è luogo unico), corre la vita; la vita nutre il mortale, la morte rigenera la vita.

Emilio Villa
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Un libro collettivo composto di schizzi, disegni, fotografie, scarabocchi, scritture, distribuiti in fogli diversi per contenuto, spessore, formato, materiali; un intrico di segni, combinazioni magiche, incubi perturbanti, stravaganti boîtes à surprise, copertine esotiche per scritti aforistici, misteriosi scrigni colorati, micrografie criptiche, fogli a fisarmonica fitti di versi e acquerelli, pagine materiche, scherzi concettuali, capricci utopici, eccentrici viaggi biografici. Un libro fatto di  quei «segni della mano sinistra» evocati dalle parole di Osip Mandel’štam: «Distruggete i manoscritti, ma conservate ciò che avete tracciato a margine, per noia, per disperazione e come in sogno». Un possibile libro comune, un manuale di scritture fantastiche, astratte e reali, sospese tra l’estrosità del segno e l’imprevedibilità del senso, dove l’autore anonimo è inventato dai suoi stessi paesaggi, non sarebbe troppo dissimile da uno dei disegni della grotta di Chauvet, dove convivono le impronte rosse di mani umane e le sagome di bisonti dalle otto gambe, colti in un movimento di assalto o di fuga.
Secondo Leonardo, un buon esercizio di fantasia, per i pittori, è l’osservazione di macchie d’umido e di muffa sui vecchi muri. Proprio dall’intreccio casuale delle loro forme l’immaginazione, lasciata libera, può suggerire volti, mostri, grovigli di battaglie, e altri infiniti altri soggetti di ispirazione da accogliere in pittura, senza barriere o giudizi.
In alcune opere Sho di Norio Nagayama la forma apparentemente astratta – che ricorda le tracce di Kline e le pennellate di Hartung – in realtà è un ideogramma, una parola poco leggibile e reinterpretata pittoricamente, ma carica ancora, tutta intera, del suo significato originale. Ancora parola.
Nella breve serie delle Scriptions – disegni di pennarello nero su carta di piccolo formato – Jean Dubuffet, a oltre ottant’anni, tocca l’apice della sua ricerca pittorica: rinuncia alla scorza del colore per affidare l’esistenza della sua opera al semplice impulso del segno, alla sua sommaria incompiutezza. In questo modo si avvicina, più di altri artisti, a quanto lui stesso definisce “il limite dello scarabocchio infame e del piccolo miracolo”.
“Annotare”, da recluso, la volta della grotta. “Annotare”, da scrittore, la pagina bianca, il muro di pietra, lo schermo dell’Ipad. Annotare quanto per noi appartiene, ed è sempre appartenuto, al regno instabile della notte. Solo in questo movimento l’arte può essere fulminea nell’espressione e buia nella radice, estranea a ogni consolante paradiso e protesa sempre nell’energia dell’oltre.

Lucetta Frisa e Marco Ercolani

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chauvet-cave-hand-1.

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RIFERIMENTI IN RETE:

visita virtuale alla grotta di Chauvet
http://www.culture.gouv.fr/culture/arcnat/chauvet/fr/

http://ilnavigatorecurioso.myblog.it/archive/2013/02/20/la-misteriosa-grotta-di-blombos-e-le-precoci-capacita-cognit.html

Il film- La grotta dei sogni dimenticati

6 Comments

  1. Grato per il bel lavoro proposto . E mi ( ci ) corrobora , in particolare , la citazione di Blanchot , le cui coordinate non sfuggono all’oggettività che può – deve – motivarci e stimolarci nel nostro andare a capo .
    leopoldo attolico –

  2. Che coincidenza! Da quando ho visto il documentario di Herzog (un paio d’anni fa) sul desktop del mio PC ci sono le immagini di alcuni cavalli della grotta di Chauvet. Mi soffermo spesso a guardarli prima di iniziare a scrivere.
    Grazie per questo approfondimento.

    Fiammetta

  3. ringrazio voi per questo scritto in cui molte vie si intersecano, molte memorie e anche molte ombre si mostrano da luoghi che non abitano un fuori ma, prima di ogni altro mondo, il dentro…ferni

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