eugenijus konovalovas
.
A mio figlio
Non come porti pane a casa
benedetto o accidentato
ma come vivo sai il respiro
capace di distinguere un segnale
di sopravvivenza da un rumore
come rischio dov’è il cuore, sai
al centro del dolore che non fa
paura del futuro piangere
ballando al buio con la pace
la montagna
…la mia Jebel ti mostro
la portata d’acqua i suoi colori
lungo il perimetro dei fianchi
circondata da due fiumi una segesta
abbandonata a 36 colonne- nello scrigno
morbida roccia incompiuta vita
niente del suo splendore più colpisce
il semicerchio vuoto nel Teatro
il donativo del paesaggio toglie il fiato
quasi a morte nel tuo sguardo. dov’è il mare
alimenta il mio pensiero mentre scendo
tengo il filo del fondale. fino al fondo
ondeggia sulla prateria la posidonia
coi suoi capelli d’oro silenziosa
l’ossigeno di un peso troppo grande
dentro gli occhi delle anfore perdute
con le mani sulle alghe ti racconto
come levarti dalla solitudine
che avresti giocato in paradiso. Sì
“anche lì viene la neve ” ti rispondevo
Risalgo le domande sulle dita
le acque strette erano il tuo viso
impresso c’è quel nome- figlio mio-
già illeggibile
al mare che ti chiude
infinitamente tacito
.
eugenijus konovalovas
Non so la radice divina che tocchi
il limite matematico a dimora
solo un canto in lingua Sacrale
parole strette come un osso leggero
nell’orgasmo di petto alla gola
pronto a rinascere
su frori prus bellu
“sta nella ferita d’assenza
– mi dici- l’amore
nell’ombra chiara
delle prime rose”
Sta dove il dolore mi trasforma
le ossa nella tua guarigione
sa petza esposta al canto,
i seni in rose, sa bestia
di gioia, Lei,
può passare la porta stretta
sotto il cuore della terra
sotto il cielo parallelo con la schiena
-madre dalla lunga voce-
con il sangue avanza
-contra su chelu abantzu-
lavando il petto della cerva
fango che dorme alla luce
tutto il silenzio fuori dal torace
vita e moto le sue vocali in carne
allo scoperto. Ama
odorando l’Assenza, infine
comente cantu
ubriaca il dolore
in su bentu
.
è la porta stretta di una retina
dove s’inginocchia il cielo
quando non arrivi in cima
la sua parte di luce
-quel prodigio-
si avvera dal di dentro
nel cristallino opaco
in cui riversa il sole
fedele all’invisibile
rimani a far l’Amore
come lo fanno i fiori
portando l’uno all’altro
un’ape la magia
stacca l’anima
il suo petalo
nel ventre
la tua immagine
Amina Narimi
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Riferimento in rete: http://www.larecherche.it/testi_raccolta.asp?Tabella=Poesia&Utente=amina.narimi
Leggendo questi versi ho sentito il mare con il suo respiro possente, ho percepito la presenza di riti ancestrali e la ferita che proviene dall’amore, sia esso presente o assente. Ma ho soltanto sfiorato queste liriche, e penso che dentro il loro corpo vi sia un magma che per adesso non riesco a delineare nelle forme. E’ una poesia che cattura e seduce.
ehi, ma Amina, splendida poetessa, qui si scopre ch è sarda … :O
ho letto ieri, ora ho riletto cogliendo e trattenendo il filo delle immagini
un “miracoloso” immaginario, un canto ininterrotto sotto il cielo e dentro il cielo dell’occhio
elina
Grazie Fernanda. E’ stata una forte “commozione” trovarmi ospitata qui, da Te…Grazie di tanto
E grazie di quel segno Gabriella, grazie Blumy
e grazia a te cara Elina
perché è ininterrotto il cielo
condividiamo sempre con piacere i testi che portano passi praticabili in un terreno ormai così accidentato quale è quello delle relazioni umane e voci che hanno in sé vita. ferni
L’ha ribloggato su Non di questo mondo.