michelangelo pistoletto- gli specchi non finiscono mai
Il testo a cui mi riferisco è la più recente scrittura di Augusto Pivanti, SPECCHIO DEL DISINGANNO, edito da LietoColle e uscito da pochissimo nella collana Solo dieci, collana di cui CARTESENSIBILI già si interessò in passato.
Dalla prima poesia di Pivanti fino a questa leggo netto un salto, fatto alla luce di una oscurità che sta proprio al fondo del corpo dello specchio, in tutti i frammenti in cui si è rotto, il nostro io e il sé che comunque riflette, da quello spessore d’argento, in cui l’età ci immerge, giocoforza, tutti.
E incamminandomi in quelle riflessioni, da una superficie all’altra degli specchi, in un labirinto di prospetti, che tendono lo sguardo sul precipizio dell’io e del tu, del noi e gli altri, ho ricordato alcuni altri testi in cui il tema è il tempo puro. PIvanti cita Borges, in apertura del suo libro (io che sentii l’orrore degli specchi...) ma altri mi sono venuti alla mente in continui specchia-menti. Il primo autore che, tra l’altro cita a sua volta un secondo scrittore e un altro testo, proprio in un gioco di rimandi di immagine come fanno gli specchi posti uno davanti all’altro o accanto in tagli di scorcio prospettico e fughe labirintiche, è Jean Luc Nancy, in Corpo teatro. Il secondo è Proust. Ma vado con ordine. Nancy utilizza un breve passo di Jean Magnan (da Un peu de temps a l’ètat pur) che lo scrittore fa pronunciare ad una “creatura di teatro” ( forse che noi non siamo creature di teatro? tutti, ogni io e…e il coro del noi?)
Qui, tra queste tre mura,
senza uno specchio che mi faccia credere in
un qualunque quarto,
il tempo. Il tempo. Il tempo.
Tempo fittizio. Tempo personale. Miscela
sensibile di entrambi. 50% arabica.
Tempo del teatro. Allo stato puro.
Insonne.
E senza zucchero.
Il tempo puro è quello di cui parla appunto anche Proust, nel suo grande inventario del tempo perduto ed è il tempo della rappresentazione, o meglio del ri-presenatarsi, cioè, come dice Nancy, aprendoci lo sguardo, della presentazione autentica, in un tempo sottratto al tempo stesso, il tempo dell’insonnia, un tempo di vita centellinato, attimo per attimo durante la notte in cui falsamente dividiamo il giorno, fatto di oscurità e luce in pesi diseguali, un davanti e un dietro o un dentro, che si fanno per noi un prima e un dopo, tempo appunto, in cui c’è la materia di cui siamo composti. Amleto dice che gli “attori” (coloro che agiscono, compiono atti) non sanno tenere un segreto. Dicono tutto, gli attori, facendo del teatro il luogo della cessazione del segreto. Ora lo specchio, ogni corpo in cui noi siamo collocati, è teatro in cui tutto è con-tenuto ed è il dopo della storia perché per esserci necessita di un prima a cui sfugge l’inizio. Lo specchio ha solo la dimensione del dopo, l’origine è il suo punto dietro, l’oscurità della pelle profonda, l’argento rivestito di vetro e non visibile, che tutto vede però e raccoglie rimandandolo qui e là, indietro, pur avendolo davanti.
Strani giochi prospettici giocano gli specchi, e messe in scena attua il disinganno attraverso lo specchio che Augusto Pivanti, trascrive meticolosamente, anch’egli, naturalmente senza zuccheri aggiunti e frammento per frammento.
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fernanda ferraresso
mag
Da SPECCHIO DEL DISINGANNO, Augusto Pivanti.
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Specchio del disinganno
Specchiarsi e cogliersi
nel fascino che non toglie
lo sguardo – vanità sommata –
oppure disconoscersi nel corpo
che abbandona la carne, che
ingrigisce e gene la morte
dei significati.
Abdicare alle gambe
alla pelle, a un’idea greca
di bellezza d’isola, d’istmo
di terra da riconquistare,
fino all’annullarsi della specie,
ai vuoti senza ricompensa.
Erigere un altare al dio dell’occhio
interiore, attingere al pozzo del noi
senza restituzione, con l’idea
strabica dell’essersi perduti.
Mi specchio e chiedo
chi è
la persona
che vedo
sono
io,
che vedo?
sono
io,
davvero?
Davvero?
*
Tu che mi sei sorella
Restituisci – fotografia – l’immagine
degli anni stretti, dei luoghi transitati,
ridammi gli occhi sconosciuti
all’affanno degli insulti, ricrea
un altrove lecito e domestico
unisci le mani sotto il bordo
perché nessuno veda – e, non vedendo
nessuno interrompa il flusso
Agiscimi come se fossi incanto
e superficie curva della sfera, applaudi
– asincrona – il mio restare immobile
agli inganni, al colore degli astri
e dei capelli. Tu che mi sei sorella
– immagine di me deflessa, origine –
sopporta il mio dimenticarti aperta
il mio proteggerti per ciò che non sei stata
*
Il legno della buona sorte
Andava a credito – la giovinezza –
di felicità spese negli altri, d’invidie
per successi percepiti o solo immaginati,
del confronto con il proprio perdere
o stare al margine del gioco.
Oggi ripasso – dopo molti anni – dove
l’incastro aveva fermato il muoversi.
L’epigrafe dice ” Ci ha lasciati, a 50 anni…”.
Nessuno stipite si salva dal sangue
del tempo, nemmeno il legno della buona sorte.
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Augusto Pivanti, SPECCHIO DEL DISINGANNO- LietoColle Editore 2013
Collana Solo dieci
Grazie per quest’invito alla lettura di un modo di fare poesia che mi sembra maturo e serio; la lirica che dà il titolo all’intera raccolta è uno dei testi migliori che mi sia capitato di leggere negli ultimi mesi.
succosa questa parola di condivisione
un attraversarsi tra immagini riflesse
I giochi di specchi, i processi ricorsivi, di cui il moltiplicarsi all’infinito dell’immagine di un oggetto tra due specchi piani paralleli è un esempio. Sono alla base dell’intelligenza, del genio. Così come si è manifestata in Gesù di Nazaret, Leonardo da Vini e Michelangelo Buonarroti. I loro stessi volti nella maturità erano simili, come in una camera degli specchi. Cfr. ebook (amazon) di Ravecca Massimo. Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.