Hu Jundi
.
Che tutto nasca, nella cultura dell’umano orizzonte, col senso fantastico poetico è indubbio, in quanto è il Mythos a incoronare, fin dall’inizio, la vita nelle favole del cielo e della terra, di cui la drammaturgia classica carica di infiniti significati. Non c’è dubbio. Poi, attraversa il guado nella razionalità del Logos, che sembra completare e fondare scientificamente ogni riflessione sul mondo, tanto da esprimerne un vero costrutto geometrico.
In realtà, il Logos non permetterà, già fin da subito, di contenerlo (il mondo) e, allora, per esempio, la filosofia di Parmenide ritornerà ad aprirsi a un immaginario poetico, tanto ampio e profondo al tempo stesso, da contenere tutto, il finito e l’infinito e con le sue cavalle alate ne attraversa il confine, dimostrando così che la Verità non ha limes e, nel suo Poema, riprende e recupera la saggezza del verso antico.
O giovane, che insieme a immortali guidatrici/giungi alla nostra casa con le cavalle che ti portano,/salute a te! Non è un potere maligno, quello che ti ha condotto/per questa via (perché la verità è fuori del cammino degli uomini),/ma un divino comando e la giustizia: bisogna che tu impari/a conoscere ogni cosa,/sia l’animo inconcusso della ben rotonda verità/sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità./ Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le apparenze/ bisognava giudicasse che fossero chi in tutti i sensi tutto indaghi” (Parmenide, Proemio, vv.24-33).
C’è un racconto fantastico del filosofo del Novecento, Karl R. Popper, su un’ipotetica sorella cieca di Parmenide a cui il filosofo deve tutto: “(…) Grazie a lei egli imparò a parlare. Lei gli insegnò la poesia e successivamente egli le recitò Omero ed Esiodo. Lei fu la sua guida etica ed egli dovette molto alla sua giustizia e disciplina. Lei fu per lui una dèa e fonte di saggezza. Lei gli insegnò del tutto inconsapevolmente che la luce non è pienamente reale […]. Ciò che lui e la sua sorella avevano in comune era il mondo materiale del tatto e il mondo illusorio della poesia. Da lei imparò che esiste il tangibile (materialismo)” dell’esistere.
Qui s’incarna anche un sapere femminile spesso nascosto dalla cultura ufficiale ma che poeticamente si svela, come la verità che è uno svelamento.
Ma anche come l’amore che è la passione umana per eccellenza tanto che si fa vitale e che, in quanto pathos, segna pure la nostra sofferenza, ma tale sofferenza amorosa non è un abbandono della realtà (anzi), ma un in-oltrar-si, come in mistica e in poesia è un tirar fuori dal silenzio e lo scriverne, per esempio, è riuscire a salvare le (proprie) parole dalla loro stessa voracità, perché tutto sfocia in altro, in un altrove dove ne risuona il senso, perché spesso la passione fa fatica a trovare, come scrive Maria Zambrano, “un luogo adeguato che possa accoglierla”.
E’ come un lampo che illumina e fulmina, la possibilità/impossibilità della visibilità/invisibilità delle cose, come in Myricae, Giovanni Pascoli: “E cielo e terra si mostrò qual era:/la terra ansante, livida, in sussulto;/ il cielo ingombro, tragico, disfatto:/ bianca bianca nel tacito tumulto/ una casa apparì sparì d’un tratto;/ come un occhio, che, largo, esterrefatto,/ s’aprì, si chiuse, nella notte nera”.
Patrizia Caporossi- Gaeta 7 settembre 2013
.
I riferimenti sono rintracciabili in Patrizia Caporossi, Il corpo di Diotima. La passione filosofica e la libertà femminile, Quodlibet 2009, 2011), p. 20, p. 25 e p. 59.
questo intervento è stato l’interessante contributo di Patrizia Caporossi al
Meeting dei Poeti Viandanti.