LEIÈMARIA in ABSE – Lettura critica di Milena Nicolini

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LEIÈMARIA è pubblicato il primo giorno dell’anno 2013, e ABSE poco dopo, il 25 gennaio. Non solo si sente la comune matrice, ma i temi, i luoghi, i segni si intrecciano, ritornano dall’uno all’altro, illuminano reciprocamente di senso, come un unico testo. Non soltanto nella data di pubblicazione, che forse peraltro è casuale e non vuole indicare la reale successione delle due scritture, LEIÈMARIA  precede, prepara ABSE. All’impegno preso nella stanza del trono, cioè dell’elettroshock a Scarlitz, “Rispondi a loro. Dì a loro cosa farai per loro. Per quelli come loro. Hanno fretta, hanno la morte in bocca, non la parola. Vogliono essere salvati.” (1), Anna risponde con ABSE: “Dedico il mio lavoro a Tereska”. Tereska, una bambina cresciuta in un campo di concentramento, la cui foto in un centro psichiatrico del 1948 (2) ci inchioda con occhi che probabilmente non hanno riso più, occhi sbarrati su di noi come lame, ma che sembrano guardare per sempre altrove da noi (o profondamente in noi?), un orrore indicibile, irrappresentabile; così come la sua casa, che le hanno chiesto di disegnare sulla lavagna, è un inesplicabile groviglio di segni curvi che tornano e ritornano ad intrecciarsi. “ Io credo nella poesia. E credo che la poesia non ha vinti né vincitori (…) credo che la poesia abbia un petto splendido in grado di cantare da solo, intensamente, intimamente… corpo a corpo.” (3). La preghiera per l’utilità della mia poesia, espressa in Avemadrìa, è come un’eco in “da Gaza al resto del mondo”: “Io sono una piccola poesia femmina di voce o di carta/ un palmo laico in offerta  contro vento/ contro il delirio dell’io del d/io/ contro la cultura del lutto e del possesso.” (4)   

In LEIÈMARIA  è come se si tracciassero i fili che faranno dell’abse un pieno. Fili che eppure insistono sull’ab: sempre si parte e mai si arriva definitivamente, perché il centro della spirale in cui si visualizza il viaggio è sempre più in là. Anche alla fine del libro. Infatti non è né San Pietroburgo, né Perugia l’approdo, ma il nuovo viaggio di ABSE. Da un altro punto di vista si può dire che si parte dall’io per oltrepassare un tu (Lorenzo, il muratore, il fotografo Michele, la signora della donazione, ecc.) ed arrivare ad un noi, la cui preistoria sono le suore dell’eremo di Montelovesco (così già consuete al mistero, all’indicibile dell’abse, che possono dire con naturalezza ad anna: “Nel pomeriggio ti faremo vedere il vuoto.” (5)). Noi che poi continua a comporsi nella moltiplicazione degli uni:  Rosa, la sciamana di Montelovesco, ritorna nella Carmela siciliana e nelle madonnare, che poi ritornano in Marija, pittrice di icone delle isole Solovki; così come la matrioska si ripresenta nella matrangela e poi nell’immagine che: “leièmaria”; così quegli antri di sibilla che si richiamano dall’eremo alla grotta delle madonnare, dalla cantina della casa siciliana al vuoto sotto il pavimento dell’isba. Fino all’approdo ad un noi della universalità del dolore: tanto grande da essere indivisibile, anonimo e di tutti, in quegli infernali manicomi ospedali e orfanatrofi che sono la polpa viva del viaggio. Ma sono fili che arrivano anche alla s del silenzio, quando certe tappe si saltano, si tacciono in parte, si accennano, non per reticenza o pudore, ma per dare spazio a qualcosa di extralinguistico che non allontana ma fa sororità di amore e di con-passione. E poi i fili cessano, quando si tace in assoluto, in una interiorità che non è più di qualcuno ma è nello spirito del mondo, nel “sentire il mondo dall’utero”, “crescendo di pancia in pancia nella madre matrioska” (6). E’ il viaggio che in LEIÈMARIA ha costruito questo sentire, facendo ascoltare, appunto, i suoni del vuoto che sta oltre ma ancora nell’aldiqua della vita: con la a larga che accoglie, la bs del suono delle api al lavoro, la e pressoché muta del silenzio. Più che la logica degli eventi narrati, più che la corrispettiva vicenda interiore, ci è svelata e ritessuta la sottile ragnatela di rimandi, coincidenze, richiami che lega misteriosamente donne e uomini e animali e cose, dentro e fuori. In LEIÈMARIA come nel mondo: “Il mio corpo è andato più in là del mio confine.” (7) E alla fine di ABSE: “Tu sai chi sono  io no./ … / Ho perso i sandali il nome e le domande:/ mi è rimasto solo questo uovo sonoro.” (8)  L’abse è anche questo.

La prima pagina di ABSE, come in LEIÈMARIA, si titola ‘trama’. E’ una specie di indice, in LEIÈMARIA  con anche la mappa a spirale, dove però, dopo la lettura del libro, ci si accorge di tante ellissi: molte vicende stanno dentro un generico ‘viaggi’, altre come la ‘carovana di sale che attraversa il deserto’ esistono soprattutto nell’altro libro, ABSE, e infine da un ‘soffio di polline’ si amplificano Montelovesco sugli altri luoghi-vicenda e l’eremo, tutto al minuscolo, di santa maria nel silenzio. La paura batte, in fine pagina, dentro il cuore del motore del ‘romanzo’. Virgolettato ‘romanzo’, perché LEIÈMARIA non è un romanzo, nonostante la trama, i personaggi, la vicenda. E non è molte altre cose;  ma non per l’intervento frequente della poesia. Infatti non è tanto un problema di genere, ma piuttosto la sua impermanenza di testo. Non sta in sé – che non significa togliergli senso o piacere in una sua lettura isolata, ma solo sottolineare la possibilità di una ulteriore e complessa apertura polisemica collegandolo ad altri testi di Anna. Perché sta così strettamente in relazione con ABSE (e non solo!), che è come vivesse di una intertestualità del tutto speciale. In ABSE, invece, tutti i luoghi-tappe dell’itinerario nel paese, dalla ‘prima porta’ al ‘cimitero’, sono nominati. Corali, plurali, e non solo per un’espansione in senso spaziale, interpersonale, ma anche per un immergersi nel senso interiore, nella temporalità del vissuto, tanto individualissimo ed irripetibile che condiviso, delle età della vita e/o di una vita: “la suddivisione del tempo geologico/ le mutazioni in atto/ i continenti che si spostano   gli strati delle impronte dei popoli/ che si posano  attraverso i secoli/ fino alle zampe dei nostri avi.” (9) Assente la paura, perché qui “io viaggio e canto” (10) con una saldezza di intenti e identità che si è costruita in LEIÈMARIA. Ne emerge la completezza di un paese, ma anche di un mondo, del mondo, dell’esserci, dentro, ‘nella polpa’, come direbbe lei, Anna, che ha riconquistato non a caso la maiuscola del sé. Un itinerario, in entrambe i libri, complesso e impegnativo, come una volta gli attraversamenti della città di Dite, della Jerusalem terrena e celeste; senza discese e ascese, però, stavolta, perché dio e mondo e ultramondo sono tutti qui, insieme, strettamente connessi, uniti, cosa del vivere e del pensare e del sentire e del patire in dolore e gioia. E dell’immaginare l’impensato. Anche in forma di libri. Ma soprattutto dell’amare.

In ABSE la musa dell’invocazione all’inizio del poema è proprio l’abse, un nulla del dialetto umbro di Montelovesco che non significa annichilimento, ma forse uno stringersi del sé o del qualcosa fino a scomparire,  quasi per dare più spazio all’altro, tutto quell’altro che diventa il poema. Che non è un poema, ma un tragitto di conoscenza e crescita, come in certi itinerari buddisti, magari lungo il sentiero di pietra che porta in vetta alla piramide, passando tra bassorilievi che donano tanto piacere per il grande pregio artistico quanto scavo interiore e progressivo distacco dal mondo, a saperli leggere.   

L’abse è, può essere un paese. Rispondendo ad un desiderio-progetto espresso chiaramente nella prima stesura del poema: “Se fosse davvero l’abse un paese. Tra le vie, le costruzioni, le piazze, le creature: maturare la propria casa, fino ad abitarla profondamente. Senza separarsi dal mondo e dal passo.”. Un paese che non c’è, da costruire, abitare, maturare profondamente, con una presa di posizione netta e precisa sul mondo reale dove Anna Maria Farabbi sta dentro, in modo tale da fare politica la poesia. Ancora nel segno della casa e della comunità la politica. Qui all’inizio del progetto, espressa nel rifiuto contro chi ha dimenticato l’autenticità dei rapporti con le cose del mondo, le persone, se stesso, ha dimenticato la responsabilità della poesia, ha dimenticato che la vita è nel contatto con la terra, i piedi, il sangue della gente. Che contamina.

Attraverso il paese è il cammino della vita: anche il CIMITERO  non porta uno strappo, non chiama la morte come separazione (”qui la morte è zecchini e irradia energia” diceva in LEIÈMARIA (11)), ma è un passaggio all’abse, si ricongiunge alla porta-nonporta dell’inizio, in una circolarità dove la vitalità non si interrompe. La vitalità che è sacra in ogni sua piccola manifestazione. Forse per questo una chiesa non può stare in questo paese, perché richiamerebbe una qualche forma di  religione  recintata in istituzioni riti dogmi (non a caso la chiesa dell’eremo di LEIÈMARIA “è sempre aperta… Qualunque creatura ha diritto di entrare e uscire a suo bisogno.” (12)), quando invece nel poema l’apertura al sacro, che non è metafisico ma dentro l’abse,  si spalanca sulla fisicità tutta che sta dentro la vita, attraversa ed abbraccia tutto intero il mondo, è mondo: così l’ostia è nel sole e nell’aorta. Anche in LEIÈMARIA: “Il sole si stacca ora, ostia visibile” (13)

E’ un andare oltre la frontiera col petto nudo, lacerandosi nel filo spinato. A cercare “la cosa comune” (14).

E’ un allontanarsi dallo spazio conosciuto per far posto alla conoscenza dell’altro, nelle sue parti-paese-mondo, scandite a trama e connesse come in un corpo. Ma l’incontro, la conoscenza non sta non avviene comunque da un’altra parte di sé, più o meno freddamente oggettiva e staccata, perché si costruisce in presenza ed attraverso tutta la realtà fisica e psichica di sé:  il “mio corpo   / che è la mia casa”, Anna lo porta con sé. Anna, anagraficamente, corporalmente, spiritualmente quella precisa Anna Maria Farabbi che vive dentro e fuori la scrittura insieme, dove si nomina precisamente senza finzioni letterarie, vi fa confluire anche un vissuto personalissimo che poi impasta e trasforma di tutti.  Per essere sé e gli-altri (amici o sconosciuti)-fuori-di-sé, che in LEIÈMARIA  è reso anche con ‘io’ ed ‘anna’ sempre  minuscoli pure ad inizio di frase.  Infatti lei, il suo corpo-vissuto, appunto, lo porta “ovunque comunque”, “non verbale tra gli elementi”, con dentro “un quaderno e una matita rossa”, perché lì è dove abita “l’io profondo” che è la cruna dove passa il filo della comunione con tutte le creature, ma soprattutto con quelle che soffrono come Tereska. (15)

Tereska è l’abse.

Voce dell’“ammutolimento”. Senza contraddizione, almeno dopo che si è letto del significato di abse (alla fine del poema, che è fatto proprio così: di rimandi, di avanzamenti e ritorni, al proprio interno oltre che con LEIÈMARIA , per ritrovare quei sensi in più, quei legami non immediatamente indicati nella sequenzialità delle varie tappe). Voce dell’“inesprimibile”, dell’impossibilità del “dire fino in fondo”, che, però, mentre segna “il limite insuperabile”, ne evoca l’aldilà, e lo fa esistere. Come opera la poesia di Anna, che sta oltre le determinazioni divisorie, le proibizioni della logica, i limiti della parola comunemente intesa. La poesia,“disarmante”, disarmata, se non per la volontà di costante fiducia nell’amore, è un fare, una pratica insieme dell’orto e del pane e del materno e del camminare con la carovana del sale “respirando dai talloni”, leggendo “i piedi della gente”(16), nel rispetto delle creature tutte – uomini e cammelli – che stanno dentro il mondo: da appena nate, da vecchie, da morte. E’ un rispetto che può esprimersi solo nella passione.

E’ un vero ‘credo’ quello cantato ne LA CAROVANA DEL SALE, ma destrutturante del già certo, consueto, definito, un ‘credo’ antidogmatico,  non ideologico, “disarmante”, che esige solo da chi è “disposto all’ ascolto”, una apertura intima “senza distrazioni, corpo a corpo” (17). E’ un ‘credo’ quasi senza oggetto definito: “credo nel credere”, come è lo stare dentro la poesia. Corrispettivo del credere è infatti l’imparare: dal mondo, nel fare, nel muoversi della vita. Insieme “stanziale”, “radicata negli strati minerali vegetali ignei ed acquiferi”, e “nomade” per l’“andare, custodendo interiormente la matrioska” (18), che col suo vuoto nel ventre è fatta per contenere ed è immagine di grande forza dell’abse, come “una madre incinta del vuoto” (19).

L’io sta “dentro l’abse, perché l’abse,  se è anche il vuoto, può diventare lo spazio d’accoglienza dell’altro. E l’altro, prima di ogni altro, segno di ogni altro, è Tereska, quando avanza nell’interiorità di Anna e, appunto, fa abse.

Nel paese c’è la vita. Il paese è nell’abse,  come in mezzo al nulla che le sta intorno si dà la vita, tanto indicibile quanto  necessario per costruire l’“oasi”, il senso delle tappe.  Vi si entra attraverso una prima porta che è “senza porta”, non divide, non esclude. Accoglie, invita, “segno”, “testimonianza”, “sentinella” (20). Ha in sé la memoria nei cerchi del ciliegio in cui è stata fatta, scrittura minuta che mani insieme a vento, luce, pioggia hanno scritto: l’umanità sta dentro la natura, ecco perché questa scrittura “odora, emette suoni” (20). Ed è la femmininità di Anna che la apre, “cerimoniosamente”, come un rito della scelta,  “chiedendo permesso saluto e accoglienza” nell’entrare “con desiderio e rispetto” (20) “attraverso quel paese e le sue creature” (21). Non a caso la porta è quanto resta di una casa sventrata dalla tempesta, in macerie, come dopo una guerra o semplicemente per l’usura del tempo. Una casa che era importante per il paese, scelta a sentinella nella tradizione più antica delle comunità. Anche l’eremo di LEIÈMARIA è una porta a cui ancora fanno da sentinelle le suore. Passare questa porta da donna, entrare nel paese, nel mondo, per conoscersi e conoscere l’altro. Per poi amarsi, ambedue, nella maggiore reciprocità possibile. Con Lorenzo. Con la bambina di Gaza. Con la nonna. Con la nana. La porta è di ciliegio come la scrivania su cui Anna scrive. La scrivania che sta dentro la casa che così in LEIÈMARIA diceva Anna, identificandola a sé: “Sono l’ultima casa, oltre l’ultima provincia dell’impero, dopo il confine, dopo la sabbia.” (22)  La porta è la scrivania di Anna. Per questa porta si entra nel paese e nella poesia e nella sua speciale luce sul mondo. Come attraverso l’eremo, in LEIÈMARIA, si entrava nel viaggio della conoscenza, perché l’ “eremo permette di ascoltare l’inaudito” (23), lo stesso, appunto, dell’abse e della poesia.

Il tragitto, si è già detto, la carovana, in entrambe i testi va dall’io al noi, all’ “arca del noi” (24). Un noi peraltro che non si limita all’umano, ma è comprensivo di ogni cosa del mondo.

“Consegnare quietamente il proprio poema all’uno (25). O alla comunità.” Ma sempre nella reciprocità quasi simultanea di un ritorno all’io. “Ripartendo poi umilmente. Di nuovo, con l’io dentro l’abse.”(26): “lasciandomi il sale// dentro l’interiorità del mio corpo   sulla lingua/ la sua bianchezza abbagliante// perché dimenticassi l’odore del pane/ fatto in casa/le mie ninne nanne…//perché dentro il suo liquido amniotico/ tornassi feto ovulo/ e rinascendo pescia parlassi acqua” (27). In LEIÈMARIA diceva: “A me sembra di aver perso il soggetto io, di non aver compreso fino in fondo il pronome noi, di non aver praticato interamente il pronome tu. Il verbo grande è sentire: dovrei coniugarlo sensorialmente, spiritualmente. Biologicamente.”(28)  Ma poi, quasi subito, l’intuizione : “Sento di abitare un’unica pancia cosmica in cui esiste il molteplice nell’io. Nel mio io femmina.”(29)

Milena Nicolini

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Note

1-Anna Maria Farabbi, LEIÈMARIA, LietoColle, Varese, 1 gennaio 2013, p. 102

2- Anna Maria Farabbi, ABSE, Il ponte del sale, Rovigo, 25 gennaio 2013, p. 10, p.10

3- ibidem, p.8

4- Ibidem, p. 67

5- LEIÈMARIA, cit. p.23

6- ibidem, p. 128, non numerata: il silenzio prende anche questi ultimi numeri di pagina che mancano.

7- ibidem, p. 81 La lettura frammentata di  abse  in adiacenze di significato che tentano di approfondirne il senso è dell’autrice, si veda ABSE, pp. 139-40

8- ABSE, cit., p. 137

9- ibidem, p. 13

10- ibidem, p.7

11- LEIÈMARIA, cit., p.20 E ancora, a pag. 76, “Penso che siamo stati educati alla cultura maschile della morte. A un lutto di definitività, di separazione, di perdita totale. Non al divenire, non all’accoglienza della ciclicità, non alla trasformazione. Non all’esperienza continua dell’incontro e del viaggio.” Importante per un’ulteriore apertura di questo sentire, si consiglia il testo teatrale di Anna, La morte dice in dialetto, Rossopietra Edizioni, Castelfranco Emilia, 2013.

 12- ibidem, p.33

13- ibidem, p. 133, non segnata col numero.

14- ABSE, cit. p. 11

15- ibidem, pp. 7-8

16- La citazione è dalla prima stesura di ABSE

17- ABSE, cit., p. 8

18- ibidem, p.9

19- LEIÈMARIA, cit., p.37

20- ABSE, cit. p. 12

21- La citazione è dalla prima stesura di Abse

22- LEIÈMARIA, cit., p.14

23- ibidem, p.35

24- ibidem, p.51

25- Che non è un’unità-tutto essenziale, astratta, ma l’insieme dei tanti uno, dei tanti tutti non cancellati nella loro individualità, se leggo bene dalla prima stesura di Abse il senso della variante “ad uno” nel luogo di “all’uno”.

26- ABSE, cit. p.9

27- ibidem, diario di me montanara/dopo l’incontro con il mare, BIBLIOTECA, p.80

28- LEIÈMARIA, cit., p. 48

29- ibidem, p.50

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copertina leièmaria

Anna Maria Farabbi, leièmaria- LietoColle Editore 2013

Anna Maria Farabbi, ABSE- Il Ponte del Sale Editore 2013

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RIFERIMENTI IN RETE:

http://www.lietocolle.info/it/leiemaria_in_abse.html

http://www.lietocolle.info/catalog/product_info.php/products_id/976

http://ilpontedelsale.blogspot.it/2013/03/novita.html

https://cartesensibili.wordpress.com/2013/07/15/francesco-roat-abse-di-anna-maria-farabbi/

http://www.poetidelparco.it/9_840_%27Abse%27-di-Anna-Maria-Farabbi:-il-dialetto-in-corpo.html

5 Comments

  1. Una lettura approfondita di entrambe le scritture Leièmaria e ABSE che vivono l’una dell’altra e nell’altra, compresa l’altruità, aprendo quei nodi che, secondo me, sono una precisa dichiarazione dell’essere, poiché non ha mezze tinte Anna Maria Farabbi, la sua dichiarazione è netta, scoperta, lucida e mostra dove sta, dove si pone persona pensiero e scrittura con una chiarezza che potrebbe fare paura a chi abitualmente non rischia di mostrarsi, abituati a vivere in più staffe, abituati a coprirsi.
    f.f.

  2. le parole della Farabbi raccontano un presente futuro prossimo con l’aiuto della memoria. Nei suoi universi, da lei descritti magistralmente, non esitono chiese o un bene o un male; esite natura pulsante che sgorga fatti che toccano la specie sapiens. Fatti visti anche da sguardi provati all’estremo come gli occhi di Tereska o sguardi densi come è la parola della Farabbi che racconta noi nomadi confusi e curiosi.

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