irene hardwicke olivieri
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3- Il mio (segreto) diario
Sussurrai il nome tra me e me.
La stavo seguendo attraverso una zona boschiva e collinare, lungo il sentiero
coperto di aghi di pino che conduceva al villaggio di Catamount,
Massachusetts. Ero al Catamount College da tre anni. La donna aveva
scelto, con arrogante semplicità, di chiamarsi “Dorcas”.
Non aveva la minima idea di essere seguita. Non aveva idea della mia
esistenza. Era la moglie dell’uomo che credevo di amare. Di amare più della
vita stessa, avrei giurato.
La convinzione, o qualsiasi cosa fosse quella sensazione a cui davo il
nome di amore, mi scorreva nelle vene come fuoco liquido.
Dorcas! La moglie di Andre Harrow. Ignara di essere seguita, osservata
dai miei occhi rapiti. Quanto stupita sarebbe stata se l’avesse scoperto,
quanto infastidita? Divertita, forse?
Non era la prima volta. L’avevo già seguita in cinque o sei occasioni
poiché la mia infatuazione per Andre Harrow risaliva alla primavera precedente,
durante il mio secondo anno d’università. Quel pomeriggio però avevo
la sensazione che sarebbe stato diverso dal solito. C’era la possibilità
che commettessi un errore, un errore di cui pentirmi. Oppure: non si sarebbe
trattato di un errore.
Ricorda l’eccitazione. La tensione/piacere quasi insopportabili. Seguire
di nascosto qualcuno. Voglio annotarlo qui nel mio diario. Anche se è solo
per me.
Dorcas stringeva tra le braccia alcuni pacchi. Doveva essere diretta allo
“storico” ufficio postale di Catamount, pensai, avendo deciso di percorrere
a piedi, anziché in automobile, il tratto di strada che separava la casa di
Brierly Lane dal villaggio. Era una fredda giornata d’autunno del New England,
tersa e luminosa.
C’era profumo di ginepro, gli aghi di pino scricchiolavano sotto i piedi.
Non l’avevo premeditato. Non avevo desiderato coscientemente seguire
la moglie di Andre Harrow. Però quando l’avevo vista, uscendo dalla cappella,
dall’altra parte del quadrilatero erboso, non mi era stata data la possibilità
di scegliere. Ecco! Eccola lì. Andava ogni volta così. Lo avevo già
fatto in cinque o sei occasioni diverse, ogni volta come se fosse la prima.
Vedevo i capelli color ruggine, l’inconfondibile camminata indolente, sensuale,
il corpo maturo di una donna in mezzo a quelli più snelli e scattanti
delle studentesse. Maestosa, distaccata Dorcas, che procedeva al suo ritmo
lento, dimentica di tutto e di tutti.
Pochi invece dimenticavano lei. Era impossibile non notarla. Soprattutto
per le ragazze che la riconoscevano e sapevano di chi era moglie.
Guarda! È Dorcas.
La scultrice? Proprio lei?
La moglie di Andre Harrow?
Se sei innamorata di un uomo sposato, intrattieni con sua moglie un rapporto
speciale, segreto, fatto di parole non dette.
Avevo vent’anni quand’era cominciato. Credevo che nessuno lo sapesse,
che non se ne fosse accorto nessuno. Non volevo fargli delle avance, non
osavo. Dentro la cappella, al riparo dei muri bianchi e spogli, davanti a un
altare essenziale coperto da un telo che somigliava a una tovaglia, e nessuna
iconografia religiosa a ricordare ciò che era stato un tempo il Catamount
College, prima dei rivoluzionari anni Sessanta, cioè un’università
femminile presbiteriana, mi dissi severamente che il mio sentimento per
Andre Harrow era un’infatuazione senza speranza, peggio che senza speranza,
avvilente. Che cosa ne avrebbe pensato mia madre? E mio padre,
anziano e distante? Basta! mi dissi. In quella cappella non pregavo mai
davvero (poiché non credevo in Dio, giusto?) però allora mi misi in atteggiamento
di preghiera. Nascosi la faccia tra le mani e chiusi gli occhi
stringendo forte le palpebre. Volevo fare la brava. Volevo comportarmi in
modo ragionevole, assennato. Decisi di smetterla di rimuginare su Andre
Harrow, e di non farmi più distrarre dai pensieri riguardanti sua moglie.
(Forse vi stupirete che nel 1975 all’età di vent’anni io fossi così priva di
esperienza, o meglio emotivamente denutrita, oltre che sessualmente immatura.
Ero nata nel 1955 ed ero cresciuta durante gli anni Sessanta, l’era
dal punto di vista sessuale più “liberata” e “amorale” nella storia degli Stati
Uniti.)
Dunque: uscii dalla cappella, socchiudendo gli occhi per difendermi dalla
luce del sole e immediatamente la vidi: Dorcas! Dall’altra parte del quadrilatero.
Tutte le mie risoluzioni vennero meno. Dimenticate, di colpo.
Accelerai il passo per seguirla come se mi stesse chiamando. Avevo forse
altre alternative?
Ero attirata nella scia di quella donna come un brandello di carta è costretto
nella scia di un veicolo lanciato nella corsa.
Tagliai a passo svelto un angolo del quadrilatero senza perderla di vista.
Se per caso avesse girato la testa, evenienza che trattandosi di lei sembrava
improbabile, volevo esser certa che non si accorgesse di me.
Queste piccole avventure, come vedrete, non erano premeditate. Non erano
nemmeno desiderate. Più che predatrice in caccia, ero io stessa preda
e vittima innocente.
Procedevo lungo il marciapiede, a una decina di metri da Dorcas, facendo
attenzione a nascondermi dietro i gruppi di ragazze che andavano nella
stessa direzione. La campana della cappella stava suonando le tre. Mi sarei
dovuta fermare in biblioteca, invece proseguii nell’inseguimento costeggiando
la facciata di vetro scintillante dell’edificio, e superai anche il palazzo
dell’amministrazione. Sentii qualcuno gridare: «Gillian: vai di qua?».
Era Sybil, una ragazza che frequentava il corso sul Rinascimento con me.
Sorrisi e scossi la testa senza fermarmi. No, non stavo andando di lì. Non
vengo dove vai tu. Non adesso, perlomeno.
Dannazione, l’avevo quasi persa! Davanti a Scienze Naturali alcune studentesse
passeggiavano fumando e mi bloccavano la vista.
Il campus era piccolo: ospitava meno di tremila ragazze. Tuttavia a volte
sembrava affollatissimo, le facce, le strade erano sempre le stesse. Non volevo
essere vista da nessuno di mia conoscenza. Temevo che se fossi stata
sorpresa così, a pochi metri da Dorcas, un’amica avrebbe capito subito
quello che stavo facendo. Avevo preso la scorciatoia dietro Scienze Naturali,
attraversai il parcheggio. Lì il terreno era collinare, tutto in discesa fino
al Catamount Creek. Raggiunsi di nuovo Dorcas lungo il sentiero, come
un cane da caccia sulle tracce della selvaggina. Ormai non avevo più dubbi
sulla sua meta. Non l’avrei persa più.
Ti dovresti vergognate. E una vergogna!
Sì, era vergognoso. Eppure: era anche molto di più.
Dorcas era un’artista, una scultrice. Il suo lavoro suscitava ammirazione,
oppure odio. Lei stessa era una persona che suscitava ammirazione, oppure
odio. Era tutto molto semplice, eppure non era semplice per niente.
SIAMO BESTIE E QUESTO CI CONSOLA
Parole che volevano provocare, sfacciatamente affisse dall’artista su un
muro del museo dell’università, per accompagnare la mostra di sculture
Totem e Tabù allestita nella primavera del 1975.
Dorcas era “Dorcas”, senza cognome. Non era un segreto che fosse la
moglie di Andre Harrow, naturalmente, ma nessuno si sarebbe mai sognato
di chiamarla signora Harrow. Era un appellativo ridicolo, riferito a lei. Impossibile
immaginare che una donna così appartenesse a un uomo.
Sembrava che ci fosse un mistero, o un segreto – o forse la voce di un
mistero o un segreto – riguardo all’esistenza di figli, o meglio di un figlio.
Sembrava che qualcuno avesse sentito dire, in modo vago, però, che Dorcas
era “madre”, che aveva avuto dei figli, o un figlio solo. Non con Andre
Harrow? In un’epoca precedente la sua comparsa al Catamount?
Erano arrivati insieme, a metà degli anni Sessanta: lui titolare di una cattedra,
lei che non lavorava per l’università e, si diceva, disprezzava la vita
accademica.
Come disprezzava le convenzioni borghesi.
Le sue sculture! Erano di legno, grandi e primitive, molto drammatiche
nell’effetto. Opere grezze, scolpite in modo rudimentale, brutte. Quasi
sempre corpi femminili con attributi sessuali insolenti, seni e ventri protuberanti,
genitali esagerati. Natiche rotonde con una fessura profonda come
una crepa. Le teste quasi sempre piccole e le facce ridotte ai tratti essenziali.
Come succedeva a molti, quelle opere avevano un effetto disturbante ed
eccitante anche su di me. Ricordo che ero rimasta a bocca aperta, quando
le avevo viste la prima volta. Mi sarei resa conto soltanto molti anni dopo
che quei totem primitivi e lo stesso concetto estetico che faceva da supporto
all’arte di Dorcas nel 1975 non potevano essere considerati né originali
né innovativi. (Ma cosa c’è di originale nel caos dell’arte contemporanea?)
Si diceva che Dorcas segasse personalmente, sabbiasse, cesellasse i totem
partendo da pezzi di legno non trattato, che lavorasse a mani nude lacerandosi
con le schegge, spezzandosi le unghie. Dicevano che Dorcas avesse
pochi amici a Catamount, anche tra gli artisti, ma che di tanto in tanto accettasse
“un’interna” nello studio, qualche volta una modella. Capitava che
lei e Andre Harrow facessero amicizia con qualche ragazza dell’università,
ragazze “speciali”.
Ero gelosa, non lo nego. Credevo di sapere chi erano alcune di quelle ragazze,
ma non ne ero sicura. Regnava un’aria di grande segretezza intorno
all’argomento. Si diceva che se una ragazza si comportava come se fosse in
intimità con il professor Harrow, o se lasciava cadere con indifferenza il
nome di Dorcas, significava che era totalmente estranea.
Un’altra dichiarazione affissa da Dorcas sul muro del museo recitava:
NON TI FIDARE DELLE APPARENZE NÉ DI QUELLO CHE CI
STA DIETRO
Dorcas suscitava ammirazione oppure odio, dicevo. Ex allievi furiosi
protestarono contro la mostra Totem e Tabù come se le sculture rappresentassero
una minaccia. Ci fu una campagna di raccolta di firme – sul giornale
dell’università comparvero per settimane lettere furibonde – che denunciavano
la “sedicente scultrice” e la sua opera definendola “raccapricciante,”
“depravata,” “una parodia della bellezza”, “un affronto al pudore”, “un’onta
sulla reputazione del Catamount College.”
Un ex alunno, classe 1949, pretese di sapere: «Chi sarebbe la
BESTIA?… Chi osa chiamarci BESTIE?». Un altro, classe ’39, proclamò:
«Non siamo bestie poiché siamo stati creati a immagine e somiglianza di
Dio e possediamo un’anima immortale». Un’associazione di ex alunni danarosi
minacciò di sospendere le donazioni all’università se quelle opere
offensive non fossero state tolte immediatamente dal museo. (A loro merito
bisogna riconoscere che gli amministratori tennero duro.)
Si sarebbe potuto pensare, visto che nel 1975 il Catamount poteva essere
considerato di vedute larghe quasi quanto il Bennington College, che la
stragrande maggioranza dei suoi studenti avrebbe difeso Dorcas, invece
c’era un buon numero di ragazzi che odiava Totem e Tabù quanto gli ex allievi.
Definirono le opere “triviali”, “depravate,” “sessiste” “un tradimento
del femminismo”. Durante le quattro tormentate settimane in cui rimasero
esposte, il pavimento di quell’ala del museo venne continuamente coperto
di brochure della mostra accartocciate e strappate. Qualcuno disegnò graffiti
sui piedistalli dei totem e altri si spinsero fino a sfregiare una figura di
maternità accovacciata scrivendo “STRONZA” con uno smalto per le unghie
rosso sul pancione della statua. Il gesto suscitò un piccolo scandalo
locale che attirò l’attenzione del “New York Times”, ma Dorcas si ostinò a
non far ripulire l’opera. E nell’intervista rilasciata al “Times” infiammò ulteriormente
gli animi dicendo: «Un gesto vandalico nei confronti di un’opera
d’arte è a suo modo artistico. Io apprezzo gli insulti perché sono sempre
onesti».
Che dichiarazione incredibile! Risi forte.
Naturalmente Dorcas aveva ragione.
(Tornai più volte a vedere la mostra. Non so se provavo ammirazione
per quelle figure di legno o se le detestavo. Non ho mai capito se come opere
d’arte mi stimolassero – visto che anch’io mi consideravo un’artista:
ero una poetessa – o se mi respingessero. La loro bruttezza era davvero
spaventosa, così poco femminile o addirittura antifemminile.)
Era una buona cosa, quella bruttezza, oppure non era buona per niente?
A maggio, durante la mia ultima visita al museo, trovandomi sola provai
l’impulso improvviso di sfregiare una statua anch’io. Quella che odiavo di
più raffigurava una spigolosa adolescente alta all’incirca come me, intorno
al metro e sessanta, con la faccia insignificante, scimmiesca, la testa piccola
e calva, seni minuscoli, e il bacino ossuto. Gli organi sessuali, benché
molto piccoli, erano visibili. Guardami, perché ti vergogni di guardarmi?
sembrava schernirmi. Avevo il cervello in fiamme. La odiavo, quella brutta
scultura! Tirai fuori dallo zaino un pennarello arancione fluorescente,
tremando mi avvicinai alla statua e per parecchi minuti rimasi ferma lì davanti
cercando di trovare il coraggio di sfregiarla. Quanto la odiavo, e
quanto odiavo Dorcas, moglie di Andre Harrow, l’uomo che amavo e che
non mi avrebbe mai amata, non mi avrebbe mai degnata di un’occhiata,
perché non ero femminile nel modo in cui lo era Dorcas, ma avevo un corpo
che invece somigliava a quello del totem intitolato “ragazza”, molto diverso
da quello di Dorcas. Come avrebbe risposto Dorcas se avessi sfregiato
il totem? Apprezzo gli insulti perché sono sempre onesti. Anche la figura
di adolescente sembrava pensarla così. Si prendeva gioco di me con
quella faccia piatta e scimmiesca che sembrava vagamente una caricatura
della mia faccia, con quegli occhi, buchi ciechi e irregolari nel legno, la
bocca uno sfregio tetro e soddisfatto di sé. La tua gemella. Perché mi odi?
Com’era possibile? Mi spaventò quel senso di consanguineità, di così forte
appartenenza fisica.
Riposi il pennarello nello zaino.
Notai con irritazione che qualche visitatore aveva lasciato la solita sporcizia
sul pavimento. Ma perché nessuno ripuliva? C’erano brochure accartocciate
persino sulle statue. A una a una le raccolsi tutte e le gettai nel cestino.
Avevo le guance in fiamme, ero furibonda per conto della scultrice.
Assorta nel mio compito mi accorsi in ritardo d’essere osservata. È lei? È
Dorcas? Quando mi voltai non c’era nessuno.
Dorcas non era una grande camminatrice. Seguirla senza essere vista era
difficile. Provai a fare in modo che altri, a piedi o in bicicletta, si frapponessero
tra noi: attraversai un prato dove alcune studentesse giocavano a
calcio e mi inoltrai nel bosco che costeggiava il Catamount Creek. L’aroma
di pino era intenso, pungente. Ancora oggi associo i profumi del sottobosco
a quel pomeriggio.
Dal campus al villaggio era una passeggiata di dieci minuti. Cominciavo
a sudare, anche se nel bosco, lontano dal sole diretto, l’aria era fresca. Mi
dicevo che sarei potuta tornare sui miei passi in qualsiasi momento. Mi ripetevo:
Altro che vergogna, questa è follia! Arrivata al villaggio imboccai
Mill Street in direzione della Main e vidi parecchie teste, uomini del posto
che non avevano alcun rapporto con l’università, girarsi al passaggio di
Dorcas e fissarla apertamente. Mi chiesi se la conoscessero, oppure se
semplicemente reagissero alla sua presenza. Era evidente che risvegliava
interesse, disapprovazione, risentimento, forse persino ammirazione. La
giudicavano una hippie, un tipo “artistico” . E lei, da parte sua, non si concedeva
passivamente ai giudizi come fa la maggior parte delle donne, non
si sottraeva agli sguardi brutali, sembrava anzi non riconoscerne l’esistenza.
Era una donna di quasi quarant’anni dalle proporzioni ampie, aveva un
corpo esuberante e la certezza d’essere bella e desiderabile anche se, agli
occhi degli ignoranti, poteva sembrare repellente.
All’angolo della Mill con Main Street vidi un uomo avvicinarsi a lei. Era
un uomo di mezz’età dall’aria giovanile; portava una tuta macchiata e un
paio di stivali. Sembrava accaldato, aveva la barba lunga di due o tre giorni.
Le stava dicendo qualcosa che Dorcas, accelerando il passo, scelse di
ignorare. Quando fui più vicina lo sentii imprecare contro di lei. Lo sentii
dire qualcosa che suonava come: «Credi che non sappia chi sei? Credi non
ti conosca? Vaffanculo».
Ero costretta a passare accanto a quell’uomo arrabbiato sul marciapiede.
Lui mi guardò senza vedermi, le sue guance ancora più paonazze di prima.
Come mai conosceva Dorcas, mi chiesi, cosa li univa? Gli Harrow non
sembravano tipi da fare amicizia con la gente del villaggio.
Dorcas si gettò un’occhiata alle spalle per vedere se lui la stava seguendo.
Non la seguiva. Non notò me, come se fossi invisibile.
Adesso la pedinavo senza sotterfugi lungo Main Street. Perché anch’io
avrei potuto essere diretta all’ufficio postale, sarebbe stato normale, per
una studentessa. Avevo diritto di trovarmi lì quanto chiunque altro, ragionavo
tra me e me. Quando arrivammo davanti ai gradini dell’ufficio postale
il cuore mi batteva dolorosamente. Esitai prima di affrettarmi a spalancare
la porta pesante in modo che Dorcas, le braccia ingombre di pacchi, potesse
entrare. Mormorò un disinvolto «Grazie» con l’espressione infastidita
che si riserva a uno sconosciuto, per quanto ben intenzionato, che si intromette
nella tua vita.
Vidi con sorpresa che era senza fiato, quasi ansante. I gradini dell’ufficio
postale erano ripidi e Dorcas era sovrappeso di una quindicina di chili.
Aveva il labbro superiore coperto di sudore. Sentii il profumo intenso del
suo corpo accaldato ed esuberante. Di solito teneva i capelli sciolti sulle
spalle, ondulati, invece quel giorno li aveva raccolti in una banana che stava
perdendo riccioli e ciocche. Da vicino vidi che portava un paio di orecchini
artigianali di alluminio che le oscillavano ai lobi come scimitarre.
Sulle dita le brillavano grossi anelli d’argento; aveva le unghie corte come
un uomo, rigate di sporcizia o di pittura nera. Si era truccata come al solito
in maniera pesante, con un’abilità e forse un’arguzia da artista, perché poteva
darsi che Dorcas, confinata in una cittadina universitaria del New England,
nel 1975 volesse evocare l’idea di femmina selvaggia e voluttuosa
con gli occhi a mandorla di un ritratto di Picasso dei primi anni del ventesimo
secolo. Aveva le sopracciglia folte e scure, ben disegnate; le labbra,
piene, dipinte di rosso con il contorno più scuro, gli occhi scaltri, a mandorla,
erano messi in risalto dallo spesso strato di rimmel. La faccia, una
maschera di pallida cipria, ricordava quella di una geisha. Come al solito
indossava una camicia di jeans macchiata di vernice sui polsini, una lunga
gonna dello stesso tessuto con disegni nei colori dell’arcobaleno e un paio
di sandali di cuoio che lasciavano vedere i piedi sorprendentemente piccoli
e ben fatti. (Con le unghie smaltate d’azzurro.) Intorno alle spalle ben tornite,
per completare il tutto, si era legata uno scialle a maglia larga verde
pappagallo, con le frange. Dorcas era una donna sensuale e seducente. Aveva
seno e fianchi prosperosi e camminava ancheggiando. Era impossibile
non fissarla come stavano facendo in quel momento i clienti dell’ufficio
postale. Arrivata al banco si rivolse all’impiegato a voce alta, in tono autoritario,
con un forte accento francese. Ci volle qualche tempo perché sbrigasse
tutto e la fila alle sue spalle si allungò. Quando infine si voltò mi vide
a pochi metri, senza più scuse: stavo proprio guardando lei. Prima non
mi aveva notata, ma adesso si avvicinò come avrebbe potuto fare con una
bambina curiosa. I suoi begli occhi a mandorla persero la loro luce sardonica
e si spalancarono con interesse. Per via dei miei capelli? I capelli lunghi
e ondulati erano la cosa più bella che avevo, mi ricadevano sulle spalle
in un intrico scintillante; erano capelli dietro cui nascondersi, in cui avvolgersi:
una mescolanza di castano scuro, biondo grano, biondo rosato, ruggine
e persino grigio argento. Nella famiglia di mia madre incanutivano
tutti prematuramente: conoscevo il destino che mi attendeva. Sfrontata,
Dorcas li toccò, lisciandoli con una carezza. Io rimasi paralizzata senza osare
nemmeno respirare. Lei mormorò tra sé: «Belle. Très belle». Poi mi
sorprese afferrandoli con entrambe le mani e sollevandoli per guardarmi
con aria di approvazione. Nel suo inglese allegro e accentato disse: «Tu
quale saresti?».