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Non è solo l’essenza di un pensiero che, grazie all’arte, si manifesta visivamente: l’Olympia di Manet è davanti a noi, adagiata sul letto. Stesa all’interno di un quadro che si fa guscio, stanza. Illuminata da un fascio di luna, entrato in un luogo senza finestre. Ci fissa, con alle spalle una parete buia, fatta di ombre sovrapposte, impenetrabili e nere (“E’ molto più abile di tutti noi, ha trasformato il nero in luce” dirà Pissarro). Olympia è vera, raggiungibile. Il suo corpo è corpo, non la trasposizione svaporata di un sogno. Come sempre in Manet, qualcosa di liquido e trasparente bagna le forme, appiattendole come in certe stampe orientali, così da farle risaltare per effetto di contrasto. E’ il suo modo di vedere: “In una figura cercate la grande luce e la grande ombra, il resto verrà naturalmente; e spesso è assai poca cosa”.
Una domestica dalle pelle scura è raffigurata con un mazzo di fiori, al cui centro spicca una peonia bianca. A quegli omaggi Olympia è abituata, ne conosce bene il significato e pare non farci caso. E’ l’unico elemento di natura inserito nella composizione. Dall’esterno all’interno. La modella, infatti, è Victorine Meurent, la medesima che Manet, solo qualche mese prima, aveva chiamato a posare nuda per Le déjeuneur sur l’herbe. L’anno è il 1863, giusto centocinquant’anni fa. Le peonie (un fiore allora molto di moda, importato dall’Oriente) diverranno uno dei suoi soggetti ricorrenti, specie negli ultimi tempi, quando lo stato di salute ne condizionerà i movimenti. Georges Jeanniot ricorda così la visita che gli fece nel gennaio 1882, un anno prima della morte (era nato a Parigi nel 1832): “Smise di dipingere per andarsi a sedere sul divano. Fu allora che mi accorsi di quanto l’avesse provato la malattia, camminava appoggiato ad un bastone e sembrava tremante. Però era ancora allegro e parlava di una prossima guarigione”.
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Alcuni dettagli ci fanno capire che l’ambiente è elegante, privo di umori stagnanti. Olympia è una prostituta, lo sappiamo, ma niente manifesta in lei volgarità: il fiore fissato tra i capelli o le pantofole di raso sono segnali che lampeggiano in modo garbato. Non è particolarmente bella. I suoi occhi ci fissano senza malizia, paiono vuoti, indifferenti. Nell’attesa di concedersi, esibisce il proprio corpo con la naturalezza di chi ha oramai scordato ogni forma di imbarazzo. La bocca pare segnare una piccola smorfia, forse diretta a coloro che le rivolgono giudizi moraleggianti e severi. Peraltro, è proprio questo atteggiamento distaccato a far da miccia, proiettando quei lineamenti nelle zone meno esplorate del pensiero.
Una pittura legata alla tradizione, ma già avviata verso le avanguardie. Anello di congiunzione tra il desiderio di verità di Courbet e le atmosfere transitanti degli impressionisti. Ed è proprio la volontà di Manet di vivere il proprio tempo, lontano da trame mitologiche, storiche o allegorie di sorta, a spiazzare i contemporanei. Alle mostre degli Impressionisti, preferirà i Salon parigini: “Sono il vero campo di battaglia, è lì che bisogna misurarsi”. Inevitabilmente, quando il dipinto venne esposto nel 1865, subito generò stupore, scandalo. Con parole affilate, nel tentativo di attaccare il dominio dell’arte accademica e pompier, in sua difesa intervenne Zola: “Ha il grave difetto di assomigliare a molte signorine che conoscete”. Proprio per allontanarsi da clamori e critiche, Manet intraprese quell’anno un viaggio rigenerante in Spagna, a contatto con Goya e, soprattutto, con l’amato Velàzquez: “I pittori di tutte le scuole, che lo circondano nel museo di Madrid e che sono ben rappresentati, al confronto sembrano ciarlatani. E’ il pittore dei pittori”, scriverà a Fantin-Latour.
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Olympia è imbevuta di umori spagnoli, lo si vede subito. Non ci possono essere dubbi. Però, la composizione (e qui meno che meno possono esserci dubbi) riprende direttamente La Venere di Urbino di Tiziano, un quadro che l’artista francese aveva ammirato a lungo, al punto da farne una copia durante il suo primo soggiorno italiano (1853).
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Difficilmente si potrà ripetere quanto accade ora a Venezia, all’interno di una mostra che già di per sé sorprende per il numero di capolavori raccolti (visitabile a Palazzo Ducale, sino al 18 agosto): per la prima volta i due quadri vengono accostati nella medesima parete, fornendo al visitatore un’emozione fortissima, stordente. Mai Olympia era uscita dalla Francia.
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Nel 1890, sette anni dopo la morte di Manet, un gruppo di persone furono sensibilizzate da Claude Monet ad acquistare il quadro per poi donarlo al Louvre. Ancora una volta la rigidità delle istituzioni si mise di traverso e solo dopo lunghe insistenze, l’opera venne accettata, pur dirottata nella sede del Luxembourg. Al Louvre arriverà solo nel 1907. Valga per tutti, il giudizio di Cézanne: “Bisogna sempre avere dinanzi agli occhi questo quadro (…) è un nuovo stadio raggiunto dalla pittura, da cui prende inizio il nostro Rinascimento. Ci conduce per strade che prima d’ora la nostra sensibilità ignorava”. Che poi combacia con quello di Renoir: “Manet era per noi tanto importante quanto Cimabue o Giotto per gli italiani del Rinascimento”.
Grande, grandissimo Manet. Olympia, che se per Valery “avvince, produce un sacro orrore, si impone e trionfa. E’ scandalo, idolo, potenza e presenza pubblica di un miserabile arcano della società” non meno mantiene l’eleganza poetica di una peonia, poiché questo è il suo sentire interiore. Lo fa intendere anche quando, autopresentandosi, Manet dice: “E’ solo la sincerità che conferisce alle opere un carattere che può sembrare una protesta, mentre in realtà il pittore ha cercato soltanto di essere se stesso e non un altro”.
La mostra veneziana, curata da Stéphane Guégan, con la direzione scientifica di Guy Cogeval e Gabriella Belli, è accompagnata da un catalogo edito da SKira-Milano.
Silvio Lacasella
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Olympia – Manet : Palazzo Ducale – Venezia – Aperta fino al 18 agosto 2013